mercoledì 11 gennaio 2012

Suicide club - Recensione

Suicide club di Sion Sono – Genere: drammatico/grottesco – Giappone, 2002
Un gruppo di studentesse si getta sotto un treno della metropolitana provocando l’inizio di quella che sembra essere una catena di suicidi. Il detective Kuroda, incaricato di seguire le indagini, riceve una strana telefonata da una ragazza, il Pipistrello, che gli indica l’accesso ad un sito in cui su uno strano pallottoliere i numeri variano dopo ogni suicidio, prima che questo venga scoperto dalla polizia.
Criptico, grottesco (nel senso bachtiniano del termine) e affascinante lavoro giapponese, Suicide club è un drammatico e morboso rovesciamento carnevalesco della classica vita di una moltitudine di persone “normali”, normalmente inserite in un sistema mediatico post-moderno. Rimane all’inizio lo spiazzamento dettato da una serie di gesti apparentemente privi di senso, ma non per questo ripresi con minore crudezza: in una visione del tutto scomposta e rabberciata del corpo del singolo individuo, non ci vengono risparmiati fiumi di sangue, orecchie mozzate et similia, tutto in uno stile per niente fastidioso-invadente e/o splatter ma – anzi – molto ricercato.
La trama è complessa, misteriosa e articolata. Labirintica e sostenuta fino alla fine, non lascia un attimo di spazio allo spettatore (nessuna pausa narrativa, nessun punto morto), che è trasportato in una faticosa ma necessaria cavalcata verso la risoluzione di un mistero che appare privo di senso. Siamo invitati nella casa del detective Kuroda, viviamo con i suoi figli e guardiamo con lui le Dessert (gruppo j-pop di giovani talenti esordienti) che, con le loro canzonette, ci accompagnano per i lunghi e tortuosi eventi della pellicola.
La musica, vale la pena di dirlo, si muove su due piani distinti: da una parte i brani “disimpegnati” ma non per questo meno funzionali alla riuscita del dramma filmico delle Dessert e dall’altra la canzone genialmente grottesca cantata da Genesis, personaggio dotato di un fascino magnetico, Charles Manson dell’era informatica e omaggio vivente al celeberrimo ma sempreverde Frank ‘n Further.
Qualche parola va spesa, bisogna dirlo necessariamente, sulle sequenze finali del film (diciamo sul finale in senso lato): vero e proprio tourbillion mentale spiazzante e geniale, con i bambini che ribaltano (grottescamente!) la loro funzione e, da innocenti creature diventano satiri demoniaci, pur senza compiere alcun atto sanguinolento. Essi rappresentano il monito e la morale del film: in una società come quella giapponese (ma, per traslato si potrebbe dire come quella contemporanea), dove il singolo perde di valore in un sistema mediatico che crea un tessuto che va ben al di là della singola entità ontologica, essi ci ricordano la necessità di recuperare il legame con noi stessi, in un modo drammatico ma non per questo meno attuale
VOTO: 8.50/10
Il film in una frase: “Loro non sono i nemici!”

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