giovedì 22 novembre 2012

Bianco - Recensione


Bianco di Roberto di Vito - Genere: drammatico - Italia, 2011

Un uomo si sveglia, senza sapere come, in una stanza. Legato e imbavagliato, l'immobilità è l'unico stato concessogli: non resta quindi che vagare con la mente, alla ricerca di ricordi passati o forse mai vissuti.

Inedito film italiano indipendente, Bianco si muove sul confine fra thriller e drammaticità, riuscendo comunque a ritagliarsi un deciso spazio di manovra nell'intervallo fra due generi rispetto ai quali risulta decisamente eccentrico. Per impostazione, struttura drammatica e realizzazione tecnica, il film di di Vito si prospetta come un prodotto di nicchia e decisamente sopra le righe e a volte sembra voler sfondare i confini stessi del cinema per travalicare nelle videoarti installative (cosa ovviamente possibile, come l'Elephant di van Sant è riuscito egregiamente a dimostrare). 

Narrativamente parlando il film è molto povero: la storia si riduce a un rapimento (peraltro, come si vedrà, non riuscito). E' questo, fra parentesi, l'aspetto più debole di tutto il lavoro del regista, perfettamente accettabile invece per altri aspetti ed elementi. Forse troppo concentrato su un'innovazione comunque ben presente, di Vito tratteggia distrattamente dei personaggi che faticano a stare in piedi. Il che, in realtà, non sarebbe neanche un male: quello che mi sarei aspettato è una scelta più radicale, un completo abbandono della narratività per concentrarsi sull'indagine linguistica; sarebbe stata una scelta rischiosa, ma sicuramente più gradevole del limbo di inconsistenza drammatica in cui il regista sceglie di confinare i suoi personaggi, troppo spesso caricaturali e poco convincenti.

Liquidata la parte contenutistica con questi caveat, possiamo passare alla disamina della struttura sintattica della pellicola, certamente più interessante. Un primo pregio che ci permettiamo di segnalare è la presenza di alcune interessanti reminiscenze dal cinema classico d'avanguardia; in particolare mi sembra di aver scorto più volte un ricordo (anche troppo insistente, ma comunque piacevole) della celebre sovrimpressione di Jean Vigo. Se a ciò aggiungiamo alcuni frammenti di montaggio che rincorrono l'effetto Kuleshov, otteniamo un piacevole repertorio di un cinema che molto spesso viene disconosciuto in vista di un maggiore coinvolgimento del pubblico. 

Inoltre, gli eventi visivi si muovono agevolmente su diversi piani temporali, lungo i quali siamo trasportati dal peregrinare della mente del protagonista, confinato fra i suoi legacci ma molto attivo nelle libere associazioni della sua psiche. Con nessi di montaggio vicini a quelli del Surrealismo, siamo condotti nei meandri di una mente spaventata e spaventosa, che non trova pace e produce mostri a partire da esperienze vissute o percepite come tali. Questo genera una piacevole sensazione di disorientamento nello spettatore, a cui è lasciato l'ardo compito di ricostruire con dei nessi di significato i tasselli mancanti della vicenda, già molto minimalista: ci viene detto molto poco di una storia già ridotta all'osso. 

Da un punto di vista della composizione, come da titolo, la matrice dominante è il bianco, presentato in purezza o in continua opposizione con il nero (gli esempi sarebbero molteplici, tanto che la situazione diventa a tratti decisamente troppo ripetitiva). A dare nerbo a questa struttura a tratti particolarmente fragile è un comparto sonoro (concepito dallo stesso regista) nel complesso molto buono, anche se a volte finisce col ripiegarsi su sé stesso, divenendo semplice sottofondo e non intelligente contrappunto (cosa che invece molto spesso è, soprattutto nelle sequenze più "astratte"). 

Nel complesso un film denso di spunti interessanti, ma ancora decisamente troppo embrionale dal punto di vista dell'indagine e provvisto di una patina di dilettantismo ancora troppo ingombrante.
VOTO: 6/10

martedì 20 novembre 2012

Gut - Recensione


Gut (trad. it. Visceri) di Elias - Genere: thriller - USA, 2012

Manca qualcosa nella vita di Tom: il suo matrimonio non è più brillante come un tempo ed inizia a trascinarsi per inerzia; la sua vita lavorativa è mediocre e gli è impossibile slegarsi dall'influenza di Dan, ingombrante amico d'infanzia ancora ancorato al ricordo dei bei tempi andati. La sua vita cambia radicalmente quando Dan decide, quasi per gioco, di mostrargli un video che ha ordinato su internet.

E' la prima volta che mi capita di imbatterti in Elias, regista americano il cui nome mi è risultato subito attraente. In questa sua opera egli imposta un thriller di matrice confusiva e straniante che si distanzia (fortunatamente) dalla gran parte delle produzioni di genere degli ultimi anni, soprattutto in ambito americano. Con questo non voglio dire che si tratti di una novità assoluta, cosa che il film è ben lungi dall'essere, ma che quantomeno inserisce dentro un meccanismo narrativo ormai impolverato degli elementi che potrebbero essere interessanti se indagati con la dovuta profondità. Sì, perché il problema di Gut è proprio questo, dal momento che si limita ad affastellare in sequenza una serie di elementi anche molto interessanti senza preoccuparsi di creare una connessione sinergica fra gli stessi. Il risultato è un prodotto piatto e nel complesso piuttosto insipido.

Il problema è primariamente di ritmo: tutto è dilatato all'inverosimile, l'attenzione maniacale al dettaglio dell'azione finisce con il creare una composizione decisamente troppo pesante; nonostante la durata standard (un'ora e trenta circa), il lavoro risulta decisamente faticoso, soprattutto perché non crea un interesse di partenza a mio avviso sufficiente. Ad un'analisi narratologica, poi, il tutto appare come un enorme pasticcio, frutto di indecisioni che sono forse venute al pettine troppo tardi. L'introduzione alla vicenda è smodatamente lunga e, in aggiunta, non si da sufficiente peso (in apertura) al malessere psicologico di Tom, che dovrebbe essere la "conditio sine qua non" alla comprensione generale del dettato visivo: soltanto con un fine lavoro di sartoria spettatoriale è possibile decodificare il corretto evolvere degli eventi, ma questo è uno sforzo decisamente eccessivo per un film di questo genere.

La confusione generale si protrae decisamente troppo a lungo, tanto che perfino il finale non appare chiarificatore e, anzi, consegna tutto a una fastidiosa sospensione. Questo da un lato potrebbe essere un vantaggio, segnalando la volontà registica di lasciare aperte più soluzioni, ma dall'altro ingenera una preoccupante perplessità nello spettatore, che non è in grado di comprendere fino in fondo la vicenda. Questo è particolarmente problematico in un film come questo, che si basa su continui rilanci, sul continuo mettere in discussione l'idea che lo spettatore si è fatto: non chiudere il cerchio significa lasciare un senso di vuoto decisamente troppo ampio da colmare.

Tecnicamente, a parte il montaggio (ovviamente) narrativo che domina incontrastato, dobbiamo necessariamente segnalare la presenza di alcune belle inquadrature giocate sui toni del blu che, memori forse dell'omonimo periodo di Picasso, conferiscono alle figure l'aria di un'umanità vinta da sé stessa e prostrata dalle sue fatiche. A ciò si aggiungono delle scelte musicali decisamente riuscite, con una netta predilizione per i ritmi dispari, frammentati e incongruenti, che rifuggono continuamente il concetto stesso di armonia.

Nel complesso un film che avrebbe molto da dire ma che, forse per un peccato d'orgoglio, pretende di giocare troppo con uno spettatore a cui esso stesso si rifiuta di fornire gli adeguati strumenti di comprensione. 
VOTO: 5/10