giovedì 22 novembre 2012

Bianco - Recensione


Bianco di Roberto di Vito - Genere: drammatico - Italia, 2011

Un uomo si sveglia, senza sapere come, in una stanza. Legato e imbavagliato, l'immobilità è l'unico stato concessogli: non resta quindi che vagare con la mente, alla ricerca di ricordi passati o forse mai vissuti.

Inedito film italiano indipendente, Bianco si muove sul confine fra thriller e drammaticità, riuscendo comunque a ritagliarsi un deciso spazio di manovra nell'intervallo fra due generi rispetto ai quali risulta decisamente eccentrico. Per impostazione, struttura drammatica e realizzazione tecnica, il film di di Vito si prospetta come un prodotto di nicchia e decisamente sopra le righe e a volte sembra voler sfondare i confini stessi del cinema per travalicare nelle videoarti installative (cosa ovviamente possibile, come l'Elephant di van Sant è riuscito egregiamente a dimostrare). 

Narrativamente parlando il film è molto povero: la storia si riduce a un rapimento (peraltro, come si vedrà, non riuscito). E' questo, fra parentesi, l'aspetto più debole di tutto il lavoro del regista, perfettamente accettabile invece per altri aspetti ed elementi. Forse troppo concentrato su un'innovazione comunque ben presente, di Vito tratteggia distrattamente dei personaggi che faticano a stare in piedi. Il che, in realtà, non sarebbe neanche un male: quello che mi sarei aspettato è una scelta più radicale, un completo abbandono della narratività per concentrarsi sull'indagine linguistica; sarebbe stata una scelta rischiosa, ma sicuramente più gradevole del limbo di inconsistenza drammatica in cui il regista sceglie di confinare i suoi personaggi, troppo spesso caricaturali e poco convincenti.

Liquidata la parte contenutistica con questi caveat, possiamo passare alla disamina della struttura sintattica della pellicola, certamente più interessante. Un primo pregio che ci permettiamo di segnalare è la presenza di alcune interessanti reminiscenze dal cinema classico d'avanguardia; in particolare mi sembra di aver scorto più volte un ricordo (anche troppo insistente, ma comunque piacevole) della celebre sovrimpressione di Jean Vigo. Se a ciò aggiungiamo alcuni frammenti di montaggio che rincorrono l'effetto Kuleshov, otteniamo un piacevole repertorio di un cinema che molto spesso viene disconosciuto in vista di un maggiore coinvolgimento del pubblico. 

Inoltre, gli eventi visivi si muovono agevolmente su diversi piani temporali, lungo i quali siamo trasportati dal peregrinare della mente del protagonista, confinato fra i suoi legacci ma molto attivo nelle libere associazioni della sua psiche. Con nessi di montaggio vicini a quelli del Surrealismo, siamo condotti nei meandri di una mente spaventata e spaventosa, che non trova pace e produce mostri a partire da esperienze vissute o percepite come tali. Questo genera una piacevole sensazione di disorientamento nello spettatore, a cui è lasciato l'ardo compito di ricostruire con dei nessi di significato i tasselli mancanti della vicenda, già molto minimalista: ci viene detto molto poco di una storia già ridotta all'osso. 

Da un punto di vista della composizione, come da titolo, la matrice dominante è il bianco, presentato in purezza o in continua opposizione con il nero (gli esempi sarebbero molteplici, tanto che la situazione diventa a tratti decisamente troppo ripetitiva). A dare nerbo a questa struttura a tratti particolarmente fragile è un comparto sonoro (concepito dallo stesso regista) nel complesso molto buono, anche se a volte finisce col ripiegarsi su sé stesso, divenendo semplice sottofondo e non intelligente contrappunto (cosa che invece molto spesso è, soprattutto nelle sequenze più "astratte"). 

Nel complesso un film denso di spunti interessanti, ma ancora decisamente troppo embrionale dal punto di vista dell'indagine e provvisto di una patina di dilettantismo ancora troppo ingombrante.
VOTO: 6/10

martedì 20 novembre 2012

Gut - Recensione


Gut (trad. it. Visceri) di Elias - Genere: thriller - USA, 2012

Manca qualcosa nella vita di Tom: il suo matrimonio non è più brillante come un tempo ed inizia a trascinarsi per inerzia; la sua vita lavorativa è mediocre e gli è impossibile slegarsi dall'influenza di Dan, ingombrante amico d'infanzia ancora ancorato al ricordo dei bei tempi andati. La sua vita cambia radicalmente quando Dan decide, quasi per gioco, di mostrargli un video che ha ordinato su internet.

E' la prima volta che mi capita di imbatterti in Elias, regista americano il cui nome mi è risultato subito attraente. In questa sua opera egli imposta un thriller di matrice confusiva e straniante che si distanzia (fortunatamente) dalla gran parte delle produzioni di genere degli ultimi anni, soprattutto in ambito americano. Con questo non voglio dire che si tratti di una novità assoluta, cosa che il film è ben lungi dall'essere, ma che quantomeno inserisce dentro un meccanismo narrativo ormai impolverato degli elementi che potrebbero essere interessanti se indagati con la dovuta profondità. Sì, perché il problema di Gut è proprio questo, dal momento che si limita ad affastellare in sequenza una serie di elementi anche molto interessanti senza preoccuparsi di creare una connessione sinergica fra gli stessi. Il risultato è un prodotto piatto e nel complesso piuttosto insipido.

Il problema è primariamente di ritmo: tutto è dilatato all'inverosimile, l'attenzione maniacale al dettaglio dell'azione finisce con il creare una composizione decisamente troppo pesante; nonostante la durata standard (un'ora e trenta circa), il lavoro risulta decisamente faticoso, soprattutto perché non crea un interesse di partenza a mio avviso sufficiente. Ad un'analisi narratologica, poi, il tutto appare come un enorme pasticcio, frutto di indecisioni che sono forse venute al pettine troppo tardi. L'introduzione alla vicenda è smodatamente lunga e, in aggiunta, non si da sufficiente peso (in apertura) al malessere psicologico di Tom, che dovrebbe essere la "conditio sine qua non" alla comprensione generale del dettato visivo: soltanto con un fine lavoro di sartoria spettatoriale è possibile decodificare il corretto evolvere degli eventi, ma questo è uno sforzo decisamente eccessivo per un film di questo genere.

La confusione generale si protrae decisamente troppo a lungo, tanto che perfino il finale non appare chiarificatore e, anzi, consegna tutto a una fastidiosa sospensione. Questo da un lato potrebbe essere un vantaggio, segnalando la volontà registica di lasciare aperte più soluzioni, ma dall'altro ingenera una preoccupante perplessità nello spettatore, che non è in grado di comprendere fino in fondo la vicenda. Questo è particolarmente problematico in un film come questo, che si basa su continui rilanci, sul continuo mettere in discussione l'idea che lo spettatore si è fatto: non chiudere il cerchio significa lasciare un senso di vuoto decisamente troppo ampio da colmare.

Tecnicamente, a parte il montaggio (ovviamente) narrativo che domina incontrastato, dobbiamo necessariamente segnalare la presenza di alcune belle inquadrature giocate sui toni del blu che, memori forse dell'omonimo periodo di Picasso, conferiscono alle figure l'aria di un'umanità vinta da sé stessa e prostrata dalle sue fatiche. A ciò si aggiungono delle scelte musicali decisamente riuscite, con una netta predilizione per i ritmi dispari, frammentati e incongruenti, che rifuggono continuamente il concetto stesso di armonia.

Nel complesso un film che avrebbe molto da dire ma che, forse per un peccato d'orgoglio, pretende di giocare troppo con uno spettatore a cui esso stesso si rifiuta di fornire gli adeguati strumenti di comprensione. 
VOTO: 5/10 

sabato 20 ottobre 2012

Excision - Recensione


Excision di Richard Bates Jr. - Genere: drammatico/grottesco - USA, 2012

Pauline è una giovane ragazza di diciott'anni che coltiva il sogno di diventare medico chirurgo. Vive con una madre assillante, eternamente preoccupata delle apparenze sociali e timorata di Dio. Ha anche una sorella, che soffre di fibrosi cistica. La sua vita è profondamente disturbata: nessuno riesce a capire il suo malessere e tutti la allontanano con orrore. 

Un film preoccupante, preoccupato ma profondamente interessante. Non ancora arrivato in Italia (e c'è da chiedersi se mai ci arriverà), Excision è uno dei prodotto più particolari che mi sia capitato di vedere. L'inserimento nel genere grottesco è giustificato solo parzialmente, dal momento che spesso i film che fanno parte di questo filone presentano una netta sfumatura critica verso le istituzioni mentre qui, almeno a prima vista, non è così. Comunque, non è una questione di fondamentale importanza; vale invece la pena di sottolineare i meriti tecnici del lavoro che ci troviamo di fronte. 

E' molto difficile in realtà parlare di un film come questo perché si struttura per esplosioni, per picchi di intensità visiva che non possono essere ricondotti a una chiara struttura concettuale (se non, eventualmente a quella del confusivo, che ben si adatta in effetti a mettere in evidenza il potere shockante di un film come questo). A dire la verità non siamo neanche in presenza di un vero e proprio film narrativo, neppure per quanto riguarda la story-line: non c'è alcuna progressione drammatica e - eccettuando il finale - si può tranquillamente dire che non succede assolutamente nulla per ottanta minuti (anche se questo, come il lettore più avveduto ormai saprà, non è sempre un male). 

Mancanza di trama quindi, a cui fa da contrappeso un'ottima qualità dell'immagine sia a livello di fotografia che di montaggio. Sono molto piacevoli tutti quei frammenti che non si inseriscono bene all'interno del tessuto filmico principale, i "cantucci" (per usare un termine manzoniano che sembra adeguato) della protagonista: i momenti di colloquio privato semi-comico con Dio, invasi di una profondità intellettuale che si miscela molto sapientemente con l'ironia e l'autoironia e i deliri pop-onirici di Pauline, che ci fiondano in un universo parallelo dai colori stroboscopici e dalle fattualità inquietanti. E' in questi frammenti che emerge la vera natura grottesca di questa pellicola, che fa del sangue il suo colore naturale, la tinta di sfondo su cui si intrecciano le vicende sostanzialmente mentali della protagonista, cosicché alla fine ci troviamo davanti a un quadro alla Pollock, bellissimo e informale, di un fascino indiscusso ma misterioso per chi non s'intenda di arte. 

Nel complesso quindi un film decisamente meritevole di attenzione, particolare e diverso rispetto alla maggior parte delle soluzioni che il mercato ci offre oggigiorno. Sicuramente non consigliato a chi ha una repulsione per il sangue (comunque non si tratta di un horror), che in questo film sicuramente la fa da padrone. Ottimo il cast, in particolare l'attrice che interpreta il ruolo della madre, assolutamente convincente in ogni frangente, da quello più intimistico e nascosto a quello più violento e oscurantista.

VOTO: 7.50/10

mercoledì 19 settembre 2012

Shark 3D - Recensione


Shark 3D di Kimble Rendall - Genere: catastrofico - Australia, 2012

Uno tsunami colpisce le coste australiane invadendo buona parte della città, compreso un supermercato in cui stava avvenendo una rapina.
Dopo la devastazione portata dall'onda i sopravvissuti si ritrovano impossibilitati ad uscire perchè tutte le porte sono bloccate dalle macerie, imprigonati tra scaffali diroccati, alimenti galleggianti e, scoprono presto, uno squalo di grosse dimensioni trasportato assieme all'acqua. Stessa sorte (allagamento, impossibilità di fuga e squalo) tocca a chi stava nel parcheggio sottostante.

Preso da non so quale raptus autolesionista ho deciso di guardarmi questo film, attualmente nelle sale e presentato addirittura alla Mostra del cinema di Venezia (il perché andrebbe chiesto al distributore Medusa ma su certe cose è davvero meglio non indagare e rivendicare la propria aristocratica ignoranza). Dunque uno dei soliti film in  3D tutto esplosioni ed effetti speciali? In realtà, molto peggio del previsto: è un film tutto sbagliato, dall'inizio alla fine. Il filo narrativo di per sé non sarebbe neppure da buttare via (pur escludendo l'insensato prologo e il finale veramente sconfortante), in quanto mixa in maniera abbastanza divertente due generi come il catastrofico (l'onda anomala) e il thriller (lo squalo galleggiante sotto i piedi dei nostri protagonisti). Non dico che si pensasse di essere di fronte a un capolavoro, ma c'erano buone speranze per realizzare un film che fosse almeno accettabile. E invece, niente di tutto questo.

Sull'idea di base si installa una sceneggiatura fra le più sconfortanti degli ultimi anni, con personaggi così stereotipati e antipatici che - inverosimilmente - alla fine l'unica entità veramente simpatica del film è lo squalo (che peraltro in alcuni momenti è realizzato talmente male da poter sembrare una creazione dell'Asylum). La recitazione rasenta a malapena il livello di tollerabilità del peggiore sceneggiato televisivo e senza dubbio risulta largamente insufficiente per un lavoro cinematografico di qualsivoglia respiro. Colonna sonora inesistente o inconsistente nella seconda parte del film, ma non ce ne dispiace visto che nell'intro eravamo stati trasportati nel peggiore ghetto di New York (musica tipo 50 cent come se piovesse). Il montaggio risulta non pervenuto, nessuna ricerca estetica per un film che senza dubbio non può permettersi molto più di ciò che è.

Onestamente un film atroce, considerando che è anche in 3D direi che dovrebbero pagarvi per vederlo: perdere 90 minuti della propria vita davanti a una cosa così brutta dovrebbe essere considerato reato.

VOTO: 0/10

martedì 18 settembre 2012

Apartment 143 - Recensione


Apartment 143 di Carles Torrens - Genere: thriller/horror - Messico, 2011

Un gruppo di parapsicologi si reca in un appartamento di un palazzo quasi disabitato, dopo che il padre di famiglia (vedovo con due figli) ha lamentato la presenza di inspiegabili e inquietanti fenomeni. Sarà compito della squadra, armata di strumenti tecnologici di ogni sorta, tentare di scoprire l'origine del fenomeno.

Recente film di produzione messicana, Emergo (questo il titolo originale), si pone su una strada ormai fin troppo battuta dal cinema di genere per risultare convincente. Formalmente la pellicola prende la soluzione adottata prima da Paranormal activities e poi dai vari R.E.C., ovvero mostrare le immagini come se fossero riprese direttamente da telecamere, posizionate in questo caso dentro l'appartamento. Questo di per sé non sarebbe necessariamente un difetto, dal momento che una scelta di questo genere potrebbe aprire interessanti spiragli di costruzione estetica, lavorando magari sulla stratificazione dell'immagine e sul famigerato concetto di Intervallo cinematografico. In effetti, il film sembra volersi spingere in questa direzione, ma nei momenti sbagliati. Il risultato è una sensazione di pressapochismo piuttosto generalizzata, anche considerando che alcune inquadrature sono completamente acefale rispetto al contorno. 

Essendo un film di genere, poi, non ci si aspetta certo una grande volontà innovativa a livello di story-line, ma in questo caso cadiamo con tutte le scarpe in un minestrone ormai pluri-riscaldato. Fortunatamente ci viene risparmiata la classica storia di infestazione spiritica, almeno direttamente. Intendiamoci, lo spettro dello spettro aleggia continuamente, ma per lo meno non ci viene sbattuto davanti agli occhi ogni quattro inquadrature. Anche qui, si poteva fare molto di meglio, magari approfondendo il conflitto fra la scientificità degli strumenti e l'irrazionalità dei fenomeni, ma ormai l'horror ha maturato una passione per la precisione chirurgica. Peccato che questa strada si stia rivelando assolutamente inadeguata.

Recitazioni mediocri, a tratti piuttosto insipide, condiscono un prodotto che certamente non innova il panorama della cinematografia di genere e - al contrario - sembra fare qualche passo indietro. La pretesa di strafare quando non se ne hanno le possibilità (e non alludo ovviamente al budget, visto che si tratta di un film che non è costato quasi nulla) porta molto spesso a sbagliare e questo mix di sotto-generi horror non fa eccezione, cosa che ci viene confermata dal finale - veramente sconfortante in quanto a banalità.

VOTO: 4/10

martedì 11 settembre 2012

Soffio - Recensione



Soffio di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2007

Una giovane madre in crisi coniugale (il marito la tradisce) si innamora di un detenuto condannato a morte che ha tentato di suicidarsi. Riesce a incontrarlo nel parlatorio sconvolgendo i suoi sentimenti e suscitando reazioni nei suoi compagni di cella uno dei ne quali ne è geloso. Il marito scopre quanto sta accadendo e cerca di recuperare il rapporto.

Di Kim Ki-duk abbiamo già tessuto le lodi più volte in questo blog, per le magistrali prove fornite con Ferro 3 e L'arco. A conferma ulteriore del talento (peraltro indiscusso) del sud-coreano, il Leone d'Oro a Venezia per Pietà. Anche nei miei interventi sulle colonne di Cinemonitor (www.cinemonitor.it) ho avuto più volte occasione di incontrare, anche tangenzialmente, la figura di questo eccelso cineasta orientale, forse troppo sottovalutato in Occidente. L'opera che analizziamo oggi è Soffio, lavoro che si ricollega evidentemente al fascino silenzioso di Ferro 3, senza esserne però pedissequa (e inutile) riproposizione. 

Come negli altri lavori di Kim, anche in questo caso l'impianto narrativo è semplice, asciutto, ben definito e presenta un rigore costruttivo quasi geometrico. Il modello è senza dubbio Ferro 3, ma qui i contorni del conflitto di coppia alto-borghese si smussano, perdono le spigolosità e si sviluppano in una chiave narrativa più patetica che tragica. Mentre ne La casa vuota il marito era fuor di dubbio un essere detestabile, qui il padre di famiglia diventa personaggio, si stacca dalla piattezza del tipo oppositivo che incarnava all'inizio e diventa una figura a tutto tondo, dialettica ed interessante. Anche la moglie (Yeon) ricorda vagamente quella di Ferro 3, ha la stessa tristezza negli occhi, che sono pieni di amarezza e insoddisfazione. L'insistenza del regista sugli occhi ancora una volta ci ricorda che ogni uomo è un piccolo universo, cosa che già sosteneva in un suo famoso aforisma Michel de Montaigne. In aggiunta, anche qui, troviamo un elemento nuovo: il canto. Nei momenti in cui la nostra giovane protagonista si esibisce in (sgraziate) prove canore, si interrompe il flusso narrativo e questa giovane donna orientale ricorda vagamente la tristezza quasi epica della Selma di Dancer in the dark, altro splendido film di Lars von Trier. Rimane un po' in sordina la figura della figlia, ma non ce ne dispiace. Dopotutto questa scelta evita il rischio di scadere nel solito dramma familiare visto e rivisto, dove i figli vengono usati come ago della bilancia di un sistema micro-sociale in decomposizione. 

Anche in questo film, come si è già accennato, predomina il silenzio, soprattutto "veicolato" dal terzo personaggio principale, ovvero il condannato a morte. A causa del suo tentativo di suicido (che apre il film) è impossibilitato a parlare, riesce ad emettere soltanto dei piccoli gemiti o, ancor meglio, dei "soffi". Interessante anche la figura del compagno di cella, silenzioso anche lui, ma dotato di una intensità drammatica veramente eccezionale. Silenziosamente innamorato (?) di Jin Jang, rimane a subire le angherie del compagno di cella, che non apprezza le sue attenzioni. Soltanto verso la fine della pellicola, Jin Jang si concederà a un abbraccio quasi materno, che chiude circolarmente la vicenda dei due "amici" (la prima frase del compagno di cella indicava che "voleva la mamma"). 

Tecnicamente i livelli di realizzazione sono altissimi, soprattutto per quello che riguarda inquadrature, montaggio e fotografia. Le immagini sono, come sempre in Kim, bellissime da vedere ed evidenziano una spiccata propensione al pittoricismo e alla plasticità delle forme. In particolare alcune pose sono talmente ben realizzate da poter benissimo valere come fotografie (pur non volendo mettere in secondo piano l'unitarietà di un prodotto così elegantemente confezionato). 
Per quello che riguarda, più in particolare, la composizione dell'immagine si nota una netta prevalenza per una costruzione a più piani in profondità, interrotti da linee verticali di tensione. Volendo scegliere ancora più nel dettaglio, il ricorrere con così ossessiva frequenza a questa figura ci deve suggerisce che essa deve avere un particolare valore simbolico. In effetti si evidenzia, soprattutto nei dialoghi della prigione, questo elemento compositivo, con lo spettatore che vede "dal di fuori" (magari attraverso una finestra con sbarre) una determinata scena. Come a dire che noi possiamo guardare, ma non possiamo intervenire. Un monito alla passività obbligatoria di uno spettatore che non è chiamato in questo caso ad immedesimarsi empaticamente, ma a contemplare in maniera quasi ascetica la storia. 

Il termine potrà sembrare eccessivo, ma se si tiene in considerazione che tutto il lavoro filmico è sottilmente tramato di un sentimento mortifero a tratti piuttosto evidente, risulterà piuttosto lampante che il soffio a cui si allude nel titolo è quello vitale, che si trasferisce da un soggetto all'altro, veramente come un fluido che è in grado di governare le sorti degli individui. In particolare nelle scene dove Yeon e Jin Jang si baciano il loro soffio aumenta esponenzialmente di intensità, come se in quel momento stesse avvenendo uno scambio dialettico di elementi vivificanti. Il tutto ha il suo naturale coronamento sul finale, con la scena di sesso fra i due. Scena bellissima ed emblematica perché stabilisce e riafferma in un modo molto elegante il tipico topos artistico di "Amore e Morte".

Una morte che è anche rinascita, in una concezione perfettamente ciclica e orientale del tempo e della vita. E non è ovviamente un caso che la pellicola si concluda con una battaglia a palle di neve fra madre, padre e figlia, finalmente riuniti in un perfetto equilibrio (altra figura tipica del cinema di Kim) dopo un cammino di discesa nell'abisso ed espiazione. Espiazione che per Yeon passa attraverso il peggiore dei peccati proposti il tradimento fisico del marito, che segna al medesimo tempo il punto più basso della deriva familiare e l'imminente rinascita. 
Una costruzione che è quindi complessa, fortemente interrogativa e dialettica, che tocca le corde della nostra cultura e a volte ci risulta particolarmente dissonante e incomprensibile, proprio come la vita reale. E proprio come la vita reale questo film condensa in sé i sentimenti, le speranze, le delusioni, le schizofrenie e molto altro ancora dei suoi personaggi.

VOTO: 9/10

lunedì 10 settembre 2012

Un giorno questo dolore ti sarà utile - Recensione



Un giorno questo dolore ti sarà utile di Roberto Faenza - Genere: drammatico - USA, Italia 2011

James Sveck ha diciassette anni e nessuna voglia di essere raggiunto. Dal cellulare, che butta in un bidone artistico, e dagli adulti che lo vorrebbero consumatore di oggetti e affetti. Figlio di genitori separati e fratello minore di una sorella maggiore invaghitasi di un professore di teoria del linguaggio, James rifugge il mondo e comunica soltanto con Nanette, nonna di buon senso e di buon cuore, e Miró, un cagnetto nero che si crede umano. Deciso a non frequentare l'università e ad acquistare una vecchia casa nel Midwest in cui leggere libri e lavorare il legno per il resto della vita, il ragazzo è incalzato da mamma e papà che lo vogliono cool e realizzato. Gallerista con tre matrimoni falliti alle spalle, la madre, Peter Pan incallito col vizio della chirurgia estetica, il padre, i genitori di James corrono ai ripari e lo invitano a incontrare una life coach che gli indichi la via per il successo (sociale). Sensibile e umana la sua terapista ne accerterà la grande sensibilità, esortandolo a vivere secondo le regole del suo cuore.

Vero e proprio tormentone cine-letterario dello scorso anno, oggi finalmente Un giorno questo dolore ti sarà utile si è manifestato di fronte a me, convincendomi veramente poco. Non so se sia colpa della gran parlare che si è fatto di questa pellicola, ma il risultato è simile a quello di un bel piatto di pasta, sfortunatamente non salata. Con questo non voglio dire che il film in sé non abbia dei lati piacevoli o che sia un disastro, ma che il risultato che ci si attendeva dopo un così grande brusio mediatico poteva essere sicuramente migliore. 

Narrativamente si tratta di un film di formazione piuttosto classico, una versione aggiornata e ingentilita di un Noi ragazzi dello zoo di Berlino, tanti problemi ma questa volta niente droga. Più azzardato mi sembra il paragone con Il giovane Holden di Salinger: non basta certo avere delle enormi paranoie antisociali per poter essere efficacemente paragonati ad una delle icone esistenziali della passata generazione. La penna del compianto Salinger ha tratteggiato un ritratto di un giovane della crisi, pieno di inquietudini giustificate dai tempi. L'impressione di questo James è invece quella di un adolescente (benestante), annoiato dalla propria esistenza e vuotamente radical chic. Una versione insopportabile della Paloma protagonista de L'eleganza del riccio. 

La fotografia è buona, i colori tenui, a tinte quasi pastello confermano che questo è un film che si vuole contemporaneo e alla moda. Bella quindi la cornice visiva, buona anche la scelta degli attori, su cui evidentemente svetta per importanza narrativa il protagonista, volto nuovo e interessante del cinema che però - ancora una volta - finisce col diventare veramente snervante. Si sarebbe potuto giocare di più sulla componente ironica di questa problematicità, ma il voler essere pretenziosamente drammatico ha giocato un brutto scherzo al regista, appesantendo mortalmente una pellicola che invece poteva essere fresca e convincente (buona anche la scelta della musica).

Insomma, per quanto mi riguarda, una discreta delusione, soprattutto per la pretesa volontà di innovare, non corrisposta da un lavoro linguistico sufficientemente profondo. Un film che vuole coprire i suoi (macroscopici) difetti con una patina alla moda e un po' gay-friendly, ma che alla fine non ha molto da dire. Un vero peccato.

VOTO: 5/10

martedì 21 agosto 2012

Private Romeo - Recensione


Private Romeo di Alan Brown - Genere: queer - USA, 2011

 La storia si svolge tutta all'interno dell'accademia militare McKinley dove otto cadetti devono seguire un corso di addestramento. L'amore non conosce confini e presto divampa anche in questo originale contesto dove i ragazzi iniziano a leggere in classe la tragedia di Romeo e Giulietta di Shakespeare. Il dramma si concretizza presto fuori dalla classe e diventa la lente con cui vengono esaminate le vite di queste giovani.

Idea non molto originale quella che anima il film Private Romeo: scegliere un testo letterario (in questo caso il dramma teatrale di Shakespeare) e proporlo in versione cinematografica in modo più o meno letterale è un'operazione che ha coinvolto buona parte della letteratura mondiale con alterni risultati. La scelta registica che è stata fatta in questo caso è al tempo stesso coraggiosa ma consapevole: "Romeo e Giulietta" è il più "conosciuto" fra i drammi del poeta inglese e quindi, mostrandolo, si va ad attivare una serie di conoscenze condivise nel pubblico spettatoriale. Scelta quindi intelligente da un punto di vista del marketing e del target. 

L'elemento esplosivo della vicenda è il contesto, la cornice in cui è calato il racconto teatrale. Anche qui, la scelta di inserire il testo teatrale in un'accademia militare scegliendo come protagonisti dei giovani cadetti dimostra una consapevolezza autoriale molto elevata e, al tempo stesso, la chiara presa di coscienza di dover proporre un progetto editoriale forte per non correre il rischio di cadere nel dimenticatoio. E, per dare a Cesare quel che è di Cesare, bisogna dire che il film di Alan Brown ha delle buonissime qualità, anche da un punto di vista tecnico e di realizzazione (buona fotografia, ambientazioni e colori piacevoli).

 Il contesto scelto per l'immersione del testo è poi straniante al punto giusto per attrarre l'attenzione dello spettatore anche se da questo punto di vista ci sono delle difficoltà di adattamento piuttosto evidenti (ad esempio risulta piuttosto forzata la scena dove Mercuzio si batte a duello con la famiglia rivale). Sembra quasi che alla necessità di tenersi buona la cornice sia stato eccessivamente piegato il testo originale, sostanza fluida ma - è bene ricordarlo - non infrangibile. Lo sapeva bene la Taymour quando ha fatto un'operazione analoga con il Tito Andronico realizzando il bel Titus

Complessivamente il film non è malvagio, anzi risulta molto piacevole sotto alcuni punti di vista. Gli attori sono nel complesso molto bravi e rendono giustizia al testo, senza sembrare neanche degli attori. E' come se i personaggi stessero davvero vivendo quel dramma sulla loro pelle, come se veramente i due adolescenti (entrambi maschi - con conseguente riattivazione di un'altro luogo comune su Shakespeare) fossero i protagonisti di un dramma dal sapore vintage per quello che riguarda la forma, ma profondamente contemporaneo per quanto concerne i contenuti. Nonostante questo, alcuni difetti strutturali non mi possono vedere concorde con i giudizi a mio avviso eccessivamente ottimistici che ho trovato sul web per quello che riguarda questo lavoro. 

VOTO: 6/10

lunedì 20 agosto 2012

Demoni - Recensione


Demoni di Lamberto Bava - Genere: horror - Italia, 1985

Un gruppo di persone riceve un invito per un nuovo cinema, il "Metropol". Lo spettacolo proiettato è un film dell'orrore. La situazione precipita inesorabilmente quando gli eventi del film cominciano a realizzarsi e ai malcapitati risulta impossibile uscire dal cinema...

Lamberto Bava (figlio del più noto regista Mario) collabora con Dario Argento in questo film degli anni Ottanta e con altri maestri del genere. Il risultato dovrebbe essere promettente, siamo nel periodo d'oro di Argento che - invece - ora è decisamente finito. Le premesse quindi, sulla carta, ci sono tutte ma il prodotto finale è qualcosa di veramente imbarazzante, forse ai livelli de La Terza madre, tragico epilogo della carriera di Argento, consegnato ai posteri non più di qualche anno fa. 
Anche considerando che questo è un titolo degli anni Ottanta e tenuto conto di quale fosse il canone estetico per i film di genere dell'epoca, il nostro giudizio non può che essere impietoso. Eppure l'idea di impedire l'uscita da un luogo pubblico come un cinema non è malvagia, anche considerando che un genio come Bunuel ha realizzato uno dei suoi capolavori (L'angelo sterminatore) proprio su questo concetto.

Si può sorvolare sulla qualità del make-up demoniaco, che prevede artigli e denti da belva e la copiosa produzione di un qualche strano liquido color colluttorio dalla bocca degli indemoniati; dopotutto siamo negli anni Ottanta e anche in un film discreto come Suspiria Argento ha dimostrato di non avere un ottimo rapporto con gli effetti speciali. Passi allora questo.
La mancanza assoluta di una struttura narrativa però si mostra nella sua drammaticità fin dai primi minuti, inquadrature lente e pesanti si susseguono senza ritmo, non c'è costruzione dell'immagine e il risultato è un effetto di noia generalizzato (il che - va da sé - non è certo l'obiettivo di un film horror). Per compensare questa assoluta tabula rasa il regista inserisce a pettine e in continuazione delle sequenze di una banalità sconfortante dove gli attori, ben lontani dall'aver svolto con dovizia il loro compito, si lanciano in urla e lamenti che sembrano registrati e riprodotti ciclicamente, senza il minimo sforzo di credibilità. 

Anche il montaggio e i rapporti fra le immagini sono anonimi, privi non solo di qualsiasi ricerca estetica ma anche della semplice volontà di accondiscendere gli stereotipi del genere. Come ho già ricordato sopra, questo genera una pesantezza che finisce presto con lo stancare anche un amante del genere come il sottoscritto. L'unica eccezione, individuata forse per un eccesso di bontà, una discreta sequenza di campi e controcampi che ci portano dentro e fuori dal film che gli spettatori del cinema stanno guardando (generando un piacevole - ma breve e isolato - coinvolgimento secondario). 
Sufficiente la colonna sonora, ma nulla più: siamo lontani dalla carica ansiogena del jingle di Profondo Rosso.  La stessa cosa valga per i costumi, che tratteggiano un ambiente metropolitano di periferia che sembra uscito da un video di Cindy Lauper. Idea di per sé non originale, e peggiorata ulteriormente dall'inserimento di personaggi alla "50 cent" a metà fra il rapper e il poveraccio ripulito con poco gusto. Tremendo.

In conclusione, un film atroce. Assolutamente sconsigliato, anche e soprattutto agli amanti del genere. Da vedere in compagnia (forse) per farsi due risate, ma nulla di più. Un titolo che fallisce miseramente anche nella soddisfazione dei requisiti minimi di un film di genere.

VOTO: 3/10

mercoledì 25 luglio 2012

Loop - Recensione


Loop di Koji Suzuki - Romanzo - Giappone, 1998

Kaoru Futami è un bambino di dieci anni, molto intelligente e particolarmente portato per le materie scientifiche. Un giorno scopre per puro caso una corrispondenza interessante fra i siti di longevità della terra e le variazioni della densità gravitazionale. Informato il padre, docente di patologia all'università ed ex-ingegnere informatico, Kaoru si fa promettere che un giorno loro due e la madre visiteranno insieme quel luogo e ne indagheranno i misteri. Dieci anni dopo, il padre è gravemente malato a causa del virus tumorale VTMU, che si è diffuso rapidamente in tutto il mondo. Eppure, quel virus così letale sembra in qualche modo connesso a un progetto sulla realtà virtuale a cui il padre aveva partecipato anni prima, chiamato "Loop".

Terzo volume della trilogia di Ring, che è stata resa celebre dalle sue riedizioni cinematografiche, il testo in questione si presenta come qualche cosa di insolitamente complesso e interessante. Rispetto ai due volumi precedenti, Loop sembra abbandonare il registro thriller dei suoi predecessori per concedersi degli inserti metafisici che erano stati solamente ventilati dal secondo lavoro della trilogia (Spiral). 

Il narratore accompagna Kaoru nella sua vita certamente non facile e prende per il braccio il lettore strattonandolo a tratti violentemente fra le pieghe della mente di un bambino un po' troppo dotato per la sua età. La vicenda è molto complessa e, pur legandosi perfettamente ai due volumi precedenti, si situa all'esterno, come se si volesse ottenere un punto di vista distaccato e in un certo qual modo superiore rispetto a quanto sperimentato nei primi due volumi. L'uscita dal mondo di Ring segna l'epitome della ricerca autoriale di Suzuki che mette il lettore di fronte ai dubbi della Propria esistenza.

Qual'è la nostra origine? E' pensabile che le nostre percezioni siano fallaci e il nostro mondo in realtà non sia che il gioco di un'entità superiore che ci guarda distrattamente tramite un'interfaccia di qualche tipo? Fondendo sapientemente scienza, filosofia della persona e misticismo, l'autore riesce a creare un melange narrativo che scorre velocemente, pagina dopo pagina, fra gli impervi ambienti intellettuali tratteggiati dal suo creatore. A tratti un po' specialistico quando si smarrisce per le strade della genetica, Loop è un testo visionario e avanguardistico, che gode di una sua dignità testuale pur appartenendo a una storia già narrata. 

Il viaggio di Kaoru è il viaggio dell'Uomo che cerca che le sue radici e che, volente o nolente, sarà costretto a interrogarsi sui confini della propria identità e sulla linea di demarcazione fra realtà e illusione. Sarebbe interessante capire se Suzuki, laureato in lettere e docente scolastico, abbia approfondito le ricerche della filosofia analitica, in particolare quella dell'antropologia filosofica. 
Comunque un testo complesso, a tratti un po' pedante, ma che non dispiace per qualità letteraria e anzi conduce piacevolmente a interrogarsi su questioni di un certo peso, senza annoiare grazie a una struttura narrativa coinvolgente e ben studiata. 

lunedì 16 luglio 2012

Psycho (di Gus van Sant) - Recensione


Psycho di Gus Van Sant - Genere: thriller - USA 1998

Marion Crane è un'impiegata modello in un'agenzia immobiliare. Quando il suo capo le consegna una busta piena di soldi da depositare in banca, la donna decide di rubarli e fuggire. Durante una notte di pioggia deciderà di fermarsi al Bathes Motel, scelta che le costerà molto...

Nel 1998 la cosiddetta Terza Hollywood muove i suoi primi passi e iniziano a fioccare i remake dei film di successo. Van Sant, che in quel periodo decide consapevolmente di prestarsi ai giochi delle grandi case di produzione, sceglie a sua volta di girare un remake, quello del grande capolavoro di Alfred Hitchcock. Pur realizzando in maniera ineccepibile il suo compito, il regista non rinuncia a porre la propria firma sul lavoro che sta componendo, creando un prodotto innovativo e profondamente incompreso, vicino al regno delle videoinstallazioni più che a quello della cinematografia propriamente detta. Quello che van Sant decide di fare è rigirare da capo il film, copiando fedelmente le inquadrature del regista e ripetendo la lezione "a memoria" si potrebbe dire. Tutto è profondamente hitchcockiano, in un film che sembra essere quasi senza padre.

Questo a una prima lettura, neanche troppo superficiale. Bisogna scavare un po' fra le immagini, ma con un po' d'occhio e non senza fatica si possono trovare i molti "easter eggs" che van Sant ha posizionato nei fotogrammi della sua pellicola. Da un punto di vista macroscopico, invece, van Sant tradisce il dettato di Hitchcock inserendo in due punti cruciali del film (la scena della doccia e la morte di Arbogast) il suo marchio di fabbrica, le nuvole. Le nuvole come corpi metamorfici che si trasformano continuamente, come un velo che impalpabile si appoggia sui corpi e sulle immagini, permeandoli. In quel breve istante, quando le nuvole in evoluzione interrompono la fluidità della sintassi filmica, noi siamo con van Sant dietro la macchina da presa, partecipiamo di un divenire produttivo e artistico che ci mette di fronte a un problema metacinematografico di proporzioni titaniche. 

Come analizzare un film come quello di Van Sant? Apprezzato dalla critica, ma stroncato dal pubblico, il film-fotocopia diverge dall'originale per il colore. L'aggiunta però sembra stonare, come se quei colori non appartenessero alle immagini, non calzassero loro in modo adeguato. Il regista sceglie colori accesi, metallici e materici per riportarci negli anni Sessanta, gli anni di Hitchcock, di Warhol e della Pop Art, dove tutto era stroboscopico e sovrabbondante. 

Non è possibile fare un'analisi tecnica di un film dove un regista ne copia un altro, dove sceglie consapevolmente di ridurre al minimo i propri spazi di manovra, di darsi una libertà di movimento infinitesimale per mettere alla prova le armi di un linguaggio che verrà poi fatto esplodere in Gerry. Psycho è il passaggio obbligato, il superamento di un totem troppo ingombrante per essere ignorato, l'ultima sfida da Hollywood prima dell'abbandono e della sperimentazione più pura e metafisica. Van Sant, che ribalta abilmente lo stereotipo sessuale in più punti, è un impagliatore così come lo è il folle Norman del film, prende il corpo del lavoro di Hitchcock e lo mummifica, mettendolo dietro una vetrinetta, o uno schermo da esposizione. 

Uccidere il proprio padre per passare oltre. Non una copia, ma una splendida meditazione sul linguaggio del cinema.

VOTO: 8/10

venerdì 15 giugno 2012

E ora parliamo di Kevin - Recensione


E ora parliamo di Kevin di Lynne Ramsay - Genere: drammatico - UK, USA, 2011

Eva ha messo da parte le sue ambizioni professionali e il suo amore per New York per crescere Kevin in provincia e in tranquillità, ma il rapporto tra madre e figlio è sempre stato complicato, fin dal principio. Da neonato non smetteva mai di piangere, da bambino non parlava, poi non ha mai fatto altro che disobbedire. Tutto contro la madre, per provocarla e addolorarla. A 16 anni, infine, Kevin ha premeditato e commesso il peggio: una strage, a scuola. Due anni dopo, Eva ripercorre i ricordi, in cerca delle proprie mancanze, delle proprie responsabilità e di un perché. 

Film controverso, esteticamente potente e tragicamente attuale, E ora parliamo di Kevin - pellicola adattata da un romanzo -, terzo lungometraggio del regista Ramsay appare come una sorta di grande oggetto magmatico e misterioso, che pulsa sotto i nostri occhi e - parzialmente - al di fuori del nostro controllo. Un film controverso e complesso, che merita tutta l'attenzione possibile per essere compreso fino a fondo. 
Il motore della vicenda è la mente di Eva, che elucubra a posteriori la sua vita, quella del figlio e della sua famiglia. E' quindi un film che non rispetta una linearità narrativa, rifiutando anzi programmaticamente qualsiasi continuità spazio-tempo-causale. I frammenti della trama si disperdono come polvere, per poi ricomporsi (in maniera frammentaria e disordinata) solo grazie alla rielaborazione operata dalla mente-Eva, che cerca di trovare un senso alla questione. E' qualcosa di simile a quanto fa Gus van Sant in Paranoid Park, ma qui le potenzialità del sistema sono fatte esplodere sin dal principio, dove un incipit assolutamente visionario inaugura una vicenda filmica che vive non tanto dei fatti ma dell'estetica.

La narrazione procede attraverso liberi accostamenti, un montaggio spezzato e concettuale domina incontrastato sulla connessione delle sequenze. Non è il regista a operare i tagli di montaggio, ma la mente della protagonista; non è un film quello che stiamo vedendo, ma il flusso di coscienza di una madre che convive con la propria impotenza. Lungo la durata della pellicola ci muoviamo quindi fra un ricordo e l'altro, come se ci si volesse far entrare nel regno dell'inconscio di Eva, dove i ricordi si affastellano in fretta in base alle suggestioni del momento. E così, molto spesso, un suono del presente ci riporta al passato, causando un piacevole e destabilizzante slittamento di piani narrativi, che costituisce una delle migliori soluzioni di questa pellicola.

Le immagini sono potenti ed evocative; predomina - da un punto di vista cromatico - il rosso, riproposto costantemente e in una tonalità molto warholiana (richiamo fin troppo didascalico al sangue della strage, ma forse anche ad altri elementi). Le inquadrature hanno spesso una loro dignità plastica e pittorica, risultano ben costruite e piacevoli da guardare anche in versione "stop-motion". 
Abbondano in tutto il film le superfici riflettenti, che spesso ci permettono di vedere una scena da diversi punti di vista e che - in generale- contribuiscono alla moltiplicazione delle figure e dei centri d'attenzione dentro la figura. Lo specchio richiama il doppio e i vetri si ricollegano (anche qui, un po' didascalicamente) alla presenza di confini non valicabili, come quello fra Eva e Kevin. 

La colonna sonora è adeguata e conferisce a tutta la vicenda un tono vintage e a tratti vagamente country. In questo senso, probabilmente, va letta anche la continua riproposizione di un tema sonoro tipico delle scene di duello western che, nel nostro caso, incornicia i momenti di conflitto (anche solo di sguardi) fra madre e figlio. E' proprio di questo delicato rapporto psico-edipico che il film parla, in fin dei conti. E' vero, è un tema vecchio come il mondo (da "Psycho" in poi i titoli al riguardo non si contano), ma la caratteristica di E ora parliamo di Kevin sembra essere la completa permeabilità delle figure. In altre parole, Kevin appare in alcuni punti della vicenda come una proiezione di un desiderio frustrato di Eva, come se i più reconditi recessi della sua parte passionale e irrazionale avessero preso corpo e si fossero manifestati davanti a lei. In questo modo, credo, acquisterebbe maggiore pregnanza anche la presenza di superfici riflettenti e moltiplicatorie dentro le inquadrature. 

In ultimo, una nota su Tilda Swinton, che svetta su tutto il resto del cast (pure ottimo, s'intende) per la potenza e la tragica drammaticità della sua interpretazione. La nodosità delle sue mani, gli occhi scavati, l'ossessivo tentativo di cancellare le tracce del suo passato scrostando il rosso dai muri sono tutte azioni che fanno di Eva la quintessenza della maternità e allo stesso tempo un'eroina dotata di un phatos tragico con il quale non è possibile non entrare in empatia. Lo sguardo vuoto di Eva si può leggere e apprezzare appieno se messo in relazione con quello intrinsecamente folle e insensato di Kevin, incorniciato da un sorriso assolutamente perturbante, quale non si era mai visto dal Joker di Jack Nicholson, probabilmente. Un sorriso omicida, che conduce lo spettatore - per un attimo soltanto slegato dalla mente di Eva - a vedere (anche se con la dovuta decenza, evitando facili cadute verso il grottesco) la strage commessa a scuola. Una strage su cui il regista non da spiegazioni (cfr. Elephant di Gus van Sant), come se fosse frutto di un'altra mente.

Un film assolutamente da vedere; a mio avviso uno dei migliori prodotti degli ultimi anni per intensità drammatica e costruzione estetica

VOTO: 10/10

martedì 12 giugno 2012

Je t'aime, moi non plus - Recensione


Je t'aime, moi non plus di Serge Gainsbourg - Genere: drammatico - Francia, 1976


È la storia di una coppia di amanti omosessuali tra i quali si insinua una donna dall'aspetto decisamente mascolino. Dopo un tentativo di tornare normali, i due diversi si rimettono insieme.

Film manifesto della prima generazione cinematografica queer, Je t'aime, moi non plus (letteralmente "Ti amo, io no"), è una semplice ma drammatica storia d'amore con struttura triangolare, ambientata negli anni Settanta. Ricorda, ovviamente a rischio di commettere una forzatura, l'impianto narrativo di Les amours imaginaries, apprezzato film di Xavier Dolan di cui però la pellicola Gainsbourg non condivide le innovazioni formali e stilistiche, oltre che la cifra estetica. Ed è un vero peccato.

Da un punto di vista tematico la struttura risulta definita dopo poco dall'inizio del film e non ci sono mai stravolgimenti significativi o avanzamenti degni di nota nel tessuto narrativo. E' una continua agonia, che ricalca il desiderio d'amore che i personaggi sembrano perseguire incessantemente, desiderio che rimarrà (come ci si potrebbe aspettare) inappagato. E' un film che cerca di appianare le differenze, ma non ci riesce. E' un inno all'amore impossibile, impedito da forze che non si riescono bene a identificare, ma che agiscono sottocutanee e inesorabili.

Formalmente ineccepibile, il film ripete con il dovuto accademismo il repertorio stilistico dei film moderni (ripresa tremolante di luoghi degradati e realistici, montaggio spezzato etc.), ma non si riesce a trovare un filo conduttore, non ci sono delle suggestioni sufficienti a far respirare le immagini. La narrazione debole, unita a una struttura non particolarmente felice, che pur non avendo nulla di sbagliato non sembra completamente adatta alla vicenda, finisce per risultare stucchevole e noiosa.

Unici punti degni di nota di un film quasi completamente anonimo sono il comparto sonoro (dove, però, il tema principale ritorna con un'insistenza decisamente esagerata) e alcune pose fotografiche, in particolare nelle scene a sfondo sessuale, che danno ai corpi una plasticità quasi scultorea e molto suggestiva. Un film che avrebbe potuto sperare in molto di più, ma cade inesorabilmente nel dimenticatoio; peccato

VOTO: 5.50/10

giovedì 31 maggio 2012

Le onde del destino - Recensione


Le onde del destino di Lars Von Trier - Genere: drammatico - Danimarca, 1996

Film in un prologo, 8 capitoli e un epilogo. Bess ha deciso di sposare Jan, tecnico su una piattaforma petrolifera, nonostante il parere contrario degli anziani della comunità che non apprezzano l'ingresso di un 'estraneo'. Bess, che ha un dialogo interiore con Dio, ama Jan con tutta se stessa, corpo e anima. Un giorno lui rimane vittima di un incidente sul lavoro che lo immobilizza per sempre su un letto. Chiede allora a Bess di rifarsi una vita perché la comunità non le consentirà mai di divorziare: deve fare l'amore con un uomo e poi descrivere a Jan quanto accaduto. A lui sembrerà di rivivere sensazioni che non può più provare. Bess inizialmente oppone resistenza ma poi decide di cedere. Per amore.

Era il lontano 1996 e Von Trier non era ancora il regista anticonvenzionale e simbolista che tutti oggi conosciamo e (forse) apprezziamo. Eppure già in questo film, drammatica e vibrante storia dalla solida struttura narrativa (divisa appunto in capitoli, come sarà poi Dogville) si percepisce già il tocco di Von Trier, la sua cifra poetica e stilistica. E' una storia forte, drammatica, realistica ma al tempo stesso trascendente (simile forse a quella di Dancer in the dark per questo). La vicenda di Bess McNeil, elemento alieno in una società teocentrica e patriarcale di una dimenticata cittadina affacciata sul mare del Nord, si situa al di fuori di qualsiasi schema socialmente accettabile per il piccolo e ottuso assembramento umano in cui vive; diventa quindi figura dell'emarginazione, della difficoltà di relazionarsi (cfr. sempre Dogville) ma inizia già ad aprirsi sull'altro grande tema del cinema vontrieriano e cioè la critica agli istituti sociali, in particolar modo alla famiglia (cfr. Melancholia e Antichrist) e alla Chiesa.

E' un film quasi lynchiano questo che von Trier confeziona, un inno dedicato alla narrazione, con un repertorio tecnico che non esorbita dalla normale struttura di un film commerciale ma che ad ogni inquadratura presenta un elemento di tensione, una potente scossa sottocutanea che traccia un film parallelo, un itinerario di suggestioni e immagini che sgancia il film dalla mera narratività e lo eleva a vera e propria creatura artistica. 
La fotografia dai colori tenui traccia ambienti poveri e fatiscenti, modesti ed austeri. Eppure quest'austerità diventa presto stancante e appare fuori tono se messa a confronto con i folli movimenti sincopati di Bess, che pur perpetuando quegli stessi colori li mette in movimento con il suo incessante destreggiarsi fra gli ambienti e le situazioni. 
Il montaggio è lineare, si basa principalmente su figure piuttosto classiche e non cerca ossessivamente una scomposizione del piano narrativo o dell'immagine (cosa confermata anche dalla "rigida" divisone in capitoli, che non servono a estraniare lo spettatore ma a condurlo nella storia); fanno eccezione solo alcuni momenti in cui alla successione di raccordi si sostituisce una modalità di ripresa più concitata e indecisa, ma è un momento marginale; Von Trier si lega alla narrazione convenzionale e affida il suo messaggio alla forza delle pure immagini.

Immagini splendide da un punto di vista compositivo, che tracciano come abbiamo già ricordato un doppio movimento, come se l'universo diegetico si sdoppiasse e noi vivessimo la stessa storia da due punti di vista, quello di Bess e quello di tutto il resto del "mondo". Due prospettive diverse e apparentemente inconciliabili: da una parte il movimento ascensionale di Bess verso la santità e la salvezza di Jan, dall'altro il medesimo movimento, percepito da tutti gli altri come una caduta nel baratro. Le due pulsioni troveranno però la loro unione nel finale che, seppure un po' didascalico (le campane celesti ricordano vagamente il futuro avvicinarsi del pianeta Melancholia), garantisce allo spettatore una conciliazione con il film e una completa immedesimazione nel tessuto narrativo, nella storia di questa Maddalena contemporanea e così profondamente umana.

Nessuna sperimentazione estrema, nessuna provocazione spettatoriale, "solo" un film perfettamente riuscito, a metà fra il narrativo e il simbolico.

VOTO: 9/10

mercoledì 30 maggio 2012

Strade perdute- Recensione


Strade perdute di David Lynch - Genere: Thriller - USA, 1996

Fred, sassofonista di Los Angeles geloso della bruna moglie Renee, riceve una videocassetta dove lo si vede accanto al corpo della consorte assassinata. Lo arrestano per uxoricidio, ma presto nella sua cella le guardie trovano, al suo posto, il giovane meccanico Pete  che, scarcerato, torna al lavoro in officina e si fa paladino di Alice, pupa bionda di un gangster.

Considerato, a torto o a ragione, come uno degli imprescindibili capolavori della storia del cinema, Lost Highways rappresenta senza dubbio appieno la mentalità e lo stile del suo regista, il visionario Lynch ed è senza dubbio uno dei lavori più complessi che mi sia mai capitato di vedere da un punto di vista narrativo. Già a un primo livello di lettura la struttura della vicenda appare complessa, contorta ed ellittica, proponendo un sistema di ritorni che si fa sempre più evidente e perturbante nel prosieguo della vicenda. Così come il protagonista (o meglio i due protagonisti) si confondono fra loro e sono a loro volta confusi, lo spettatore intraprende un percorso nei meandri di una costruzione labirintica e pensata appositamente per imbrigliarlo in una spirale senza via di uscita. 
Quello che Lynch vuole fare è farci uscire dal nostro abituale rapporto con le immagini, farci intraprendere una strada perduta, appunto, perché sterrata e incerta, dove la navigazione si svolge a vista ed è affidata alla sensibilità del pilota più che ai cartelli stradali. Ecco, allo stesso modo il corpo del film si rifrange in una molteplicità di piani che sfumano l'uno dentro l'altro, impedendone una lettura chiara e definita e auspicando una decriptazione psicologica ad opera del singolo fruitore.

Come nel forse (ingiustamente?) più celebre Donnie Darko, che pure si basa sulla moltiplicazione dell'universo diegetico, qui i piani si contaminano sempre di più, ma mentre nel film culto degli anni Duemila le ambiguità si ricompongono in un finale che ancorché non conciliante appare parzialmente risolutivo, qui le perplessità rimangono immutate dopo poco più di due ore di film. 
Chi è davvero l'uomo del mistero, personaggio affascinante e perturbante almeno quanto il Soave di Blue Velvet?

Da un punto di vista tecnico-stilistico siamo ovviamente ad altissimi livelli per la qualità delle immagini anche da un punto di vista fotografico e plastico; troneggiano come sempre in Lynch gli oggetti stranianti, sui quali la macchina da presa indirizza con insistenza la nostra attenzione. I personaggi si caricano come da copione di un fascino morboso, che qui è ancora più accentuato dalla difficoltà di dirimere i nodi di Gordio che affliggono un tessuto narrativo quanto mai franoso. 
Sicuramente un'ottima prova di un David Lynch assolutamente visionario, ma probabilmente un film troppo complicato per essere apprezzato da tutti, al contrario di un Velluto blu, senza dubbio di più facile esegesi. 

VOTO: 8/10

giovedì 17 maggio 2012

La grande abbuffata - Recensione


La grande abbuffata di Marco Ferreri - Genere: grottesco - Italia, Francia, 1973

Quattro uomini piuttosto benestanti si chiudono in una bella casa nei sobborghi cittadini per consumare un enorme pasto di ottima qualità, con l'unico scopo di morire.

Marco Ferreri è senza dubbio (insieme a Pier Paolo Pasolini) uno dei registi più controtendenza, particolari e volutamente anticonvenzionali che l'Italia abbia mai avuto. Casi rari, che ormai sembrano aver abbandonato queste terre. Già nello splendido Dillinger è morto il regista, scomparso a Parigi nel 1997, aveva fatto esplodere con tutta la violenza possibile e immaginabile la bomba della critica sociale, qui riproposta e se possibile anche con maggior violenza. Ferreri raduna per questa fatica un cast d'eccezione, con un Mastroianni rubacuori, quasi l'altra faccia de La dolce vita felliniana e un Tognazzi veramente grottesco e pasoliniano nelle sua azioni, solo per fare qualche nome. 

Il film di per sé non ha una trama, non segue le portate di un pranzo tipo, anche se l'idea originale è quella. Presto la bellezza compositiva dei primi piatti cede il posto a un tripudio di cibi di ogni sorta, consumati in ogni stanza della casa, che diventa un enorme bordello, quasi una statua all'ingordigia rapace dell'uomo. C'è molto de L'angelo sterminatore di Bunuel in questo film, a partire dalla volontà di decostruire l'istituto della società borghese e benpensante. C'è almeno altrettanto di pasoliniano, in particolare faccio riferimento al capolavoro Salò che era forse più incentrato sui temi del potere e della bio-politica. 

E' un viaggio autodistruttivo, una parabola dell'autoannientamento umano che passa non a caso attraverso quelle azioni che secondo i teorici del comportamento (e della critica alla società occidentale), come Marcell Mauss che maggiormente risentono di una regolamentazione, vale a dire il cibo e tutte le attività che concernono gli orifizi (sesso, escrezioni etc.). E' proprio qui che emerge una memoria pasoliniana, con il celebre Girone della Merda che non può non tornare in mente. 

In generale un film difficile da descrivere, un enorme banchetto ai vizi umani, con una volontà di critica sociale che però non è mai pura demagogia antiborghese, anzi spesso si risolve in un puro gioco grottesco di corpi, cibo, sesso e liquidi, fino alla bellissima sequenza finale, dove Tognazzi si uccide mangiando il pasticcio di carne da lui stesso cucinato a forma di Santa Maria del Fiore.
Certamente, un film che mal si presta ad essere guardato prima o dopo i pasti.

VOTO: 7.50/10