martedì 24 gennaio 2012

Last days - Recensione


Last days di Gus Van Sant - Genere: drammatico - USA, 2005

Blake alter ego di Kurt Cobain, negli ultimi giorni della sua vita. La cronaca lirica e monotona della sua solitudine esistenziale interrotta da un venditore di Pagine Gialle che gli pone quesiti inserzionistici, da un detective che rivela storie e aneddoti dimenticando il soggetto investigato e dalla madre di Blake che lo supplica di andare via con lei. Intorno alla casa, che lo contiene insieme alla sua musica, respira la natura, scorre l'acqua in cui Blake monda i peccati e fa scivolare il dolore. Circondato da giovani coinquilini indifferenti, Blake compone il suo requiem e si congeda dal suo corpo.

Gus Van Sant, nell'ormai lontano (parlando nei tempi del cinema) 2005, confeziona questo efficace video-ricordo del mito della musica Kurt Cobain. Punto terminale della parabola iniziata da Gerry e continuata con Elephant, Last days rappresenta l'epilogo di una virtuale "triologia della morte", in cui il momento culminante della pellicola coincide con quello dell'abbandono del corpo (o dei corpi). Il film è stato pesantemente criticato per l'assenza di una trama vera e propria; obiezione legittima, si potrebbe dire ma vorrei ricordare che qui - come altrove in Van Sant- la trama non si basa sulla narrazione di fatti, quanto più sulla pura esplorazione dei tipi umani coinvotli (cfr. Elephant). L'occhio attento di un regista che ha un elevatissima coscienza di sé, percorre in maniera disincantata e tagliente le vicende della varia umanità che si muove brulicando sotto i suoi occhi. E' in questo contesto che deve essere letta l'apparente mancanza di impianto narrativo del film in questione, che comunque è strettamente connesso alla vicenda del protagonista.

Van Sant realizza qui un procedimento ardito. Il film non può essere caratterizzato né come una biografia, né come una riproposizione fedele degli ultimi giorni di Cobain. Quello che il regista fa (dantescamente parlando) è rendere i suoi personaggi "figure" dei loro corrispettivi reali. Michael Pitt non è Kurt Cobain; è Blake (il quale, però, è figura in senso auerbachiano di Cobain stesso). Si realizza così un complesso gioco a tre fasi in cui l'attore, nella sua azione performativa, interpreta una figura la quale a sua volta interpreta un referente; potremmo quindi parlare di "recitazione a due livelli".

Dal punto di vista tecnico-registico il lavoro svolto da Gus è - come al solito - ottimo e si caratterizza, in questa specifica realizzazione, per un abbondante uso del pianosequenza e per dei ritmi meno rapidi è più pacati rispetto a quanto accaduto in lavori precedenti. Anche qui come in Elephant Van Sant gioca con la frammentazione della storia e si diverte a mostrarci gli eventi da diversi punti di vista, provocando un piacevole effetto straniante. La colonna sonora, ottima, è composta da tracce tutte molto adatte alla vicenda che si innestano bene al tessuto della narrazione. Buona la performance di Micahel Pitt, credibilissimo in un ruolo non facile (il personaggio di Blake, peraltro, riprende molto la figura del gringo di Mala Noche), mentre sorvolerei sulla prestazione incolore della Argento.

VOTO: 7.50/10

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