giovedì 27 febbraio 2014

Pacific Rim


Pacific Rim di Guillermo del Toro - Genere: fantascienza - USA, 2013

Guillermo del Toro non è un grande regista, o almeno non è uno degli autori più interessanti e importanti della contemporaneità. Vedendo il suo ultimo lavoro però si ha l'impressione di un cinefilo attento, appassionato alla cultura anime giapponese e alla fantascienza vecchio stile, quella di Godzilla, delle grandi battaglie cittadine fra il mostro venuto dall'altrove e il robot, ultimo ritrovato della tecnica umana ed estrema difesa contro la nuova minaccia. Intendiamoci, questo tipo di fantascienza ha avuto il suo massimo sviluppo in un filone di titoli sotterraneo, quelli che di solito si chiamano con un tono un po' spregiativo b-movies. E il nome non è del tutto sbagliato, trattandosi di film che sono pensati e realizzati solo per intrattenere il pubblico, recuperando quella dimensione immersiva e trasparente così legata all'età d'oro del cinema. Pacific Rim insomma è un film che dev'essere guardato per quello che è, un americanissimo e abbastanza tamarro titolo commerciale, tutto esplosioni e con lunghe sequenze di combattimento.

Eppure, giusto per ricordare che anche i prodotti di genere, se inquadrati nel loro ambito e contestualizzati come prodotti di intrattenimento, il lavoro che propone del Toro è senza dubbio meritevole. Il film è lungo (dura più di due ore), ma si lascia guardare con piacere, proponendo un buon ritmo che finisce col non annoiare lo spettatore, soprattutto quello in cerca di una serata disimpegnata. La trama funziona ed è costruita in maniera intelligente, anche se nella seconda parte è possibile individuare qualche piccola smagliatura. Gli effetti speciali, dato il tenore della produzione, sono di buon livello. Conseguenza diretta dell'impostazione commerciale che ho brevemente ricordato è una gestione piuttosto romanzesca dell'intreccio, con la classica storia d'amore fra i protagonisti e la riproposizione di una serie di stereotipi per nulla innovativa. Certamente non siamo di fronte al grande cinema d'autore, ma per essere un film di svago si può tranquillamente dire che Pacific Rim raggiunge il suo obiettivo con sicurezza.

Nel complesso un film ben poco interessante, ma ben realizzato e adatto per chi voglia staccare la spina per un po'. Credo che soprattutto gli appassionati del genere potrebbero trovarlo particolarmente piacevole.

VOTO: 5/10 

mercoledì 26 febbraio 2014

Shutter Island



Shutter Island di Martin Scorsese - Genere: thriller - USA, 2010

Leonardo di Caprio è idolatrato da tutti (o quasi) come uno dei maggiori attori della sua generazione. Per interessi personali non mi dedico molto a questo genere di analisi e il ruolo dell'attore nel film, anche nelle mie recensioni, occupa sempre un ruolo marginale in relazione allo spazio che do alla fotografia, alla sceneggiatura e al montaggio. Tuttavia, nel buon Shutter Island, felice parto della fervida mente di Scorsese, di Caprio da una buonissima prova di sé, e tiene in piedi la complessa architettura concepita dal regista. Scorsese crea un thriller intrigante e dal ritmo sostenuto, che cade un po' nel finale per quanto riguarda la gestione della risoluzione d'intreccio ma che tutto sommato riesce a tenere lo spettatore incollato allo schermo per le due ore buone di film. Di questi tempi è già un risultato più che apprezzabile.
 
Si parlava di di Caprio e in questo caso il discorso sulla sua performance è essenziale per comprendere la chiave del film, gigantesca macchina a specchi concepita apposta per disorientare lo spettatore. Scorsese gioca con il proprio pubblico, chiamato ad inquisire il suo stesso film per tentare di dirimere prima del protagonista una trama tanto complessa. Il risultato è che i personaggi e lo spettatore sono irretiti dentro un gioco di specchi e rimandi che frustra continuamente le aspettative che questo stesso sistema contribuisce a generare. Quello che ci si aspetta non è mai quello che accade, sino agli ultimi turning points che vengono sparati con violenza e ritmo progressivamente crescente verso un fruitore ormai catturato dalla tela drammatica e senza più possibilità di fuga.
 
Tutto questo si sposa bene con lo stile sorvegliatissimo di Scorsese, che si lascia ricordare in questo caso specifico per la bellezza della fotografia e delle ambientazioni, nonché per un efficace cromatismo che oscilla continuamente fra il registro della veglia(sanità) e quello del sonno/sogno(follia). A un certo punto sembra quasi insensato cercare di trovare il piano di verità all'interno del film, tanto si fa capziosa e complessa la struttura di Scorsese. Il merito del regista, allora, sta proprio nella sua capacità di non lasciarsi fagocitare da un monstrum spinto al parossismo, e che si riece in qualche modo a domare, nel finale.
 
Coronano il tutto riferimenti sotterranei, ma non troppo ai grandi incubi dell'America postbellica (i campi e la bomba) e le buone interpretazioni di quasi tutti gli attori coinvolti. Nel complesso un prodotto decisamente buono e sicuramente di un livello più alto rispetto alla media attuale. Scorsese ha lasciato il suo tocco; e si sente.
 
VOTO: 8/10 

martedì 25 febbraio 2014

Silent Hill Revelation



Silent Hill Revelation di Michael J. Bassett - Genere: horror - USA, Canada, 2012

Fare un film tratto da un videogioco è un'impresa difficile, quando non destinata a fallire in partenza. E' oltremodo complesso cercare di mimare sul grande schermo un prodotto pensato per essere fruito da un altro medium; nel caso specifico, oggigiorno, data la grande capacità simulativa degli ambienti videoludici, un tentativo di questo genere risulta ancora più complesso. Devo ammettere che, al di là delle pesanti bocciature avute dalla critica, sono uno dei molti che fra il pubblico ha apprezzato la prima traduzione cinematografica di Silent Hill, ad opera di Christophe Gans, nell'ormai lontano 2006. Già in quel primo tentativo c'erano alcuni problemi non marginali, come la scarsa qualità delle performance attoriali, ma il film si salvava sicuramente per la bella fotografia e per la capacità di trasmettere almeno una parte delle sensazioni legate alla fruizione del videogioco. Tutto questo (e non era già molto, nel senso che il film si lasciava guardare ma senza troppe pretese), viene disilluso sistematicamente da Bassett, regista peraltro poco celebre (e ora capisco il perché).

Tralasciando la scelta del 3D, che non condivido a priori ma che quanto meno qui ha una sua elementare ragion d'essere (anche se davvero troppe scene sono evidentemente fatte apposta per attirare spettatori con questa fandonia del rinnovato realismo, cantilena che si sente ciclicamente nella storia del cinema), Bassett realizza un'opera anonima, che annulla i pregi del suo predecessore e ne incrementa i difetti. Al riguardo c'è davvero poco da dire: la trama è lineare e attinge senza nessun tentativo di contestualizzazione da alcuni stilemi classici del genere e non solo (alcuni passaggi sembrano estrapolati direttamente dal già non imperdibile Twilight). A livello di sceneggiatura non si può non notare una povertà di contenuti che viene senza dubbio ingigantita dalla prova non buona del cast; almeno nel film di Gans, se anche gli attori non davano una buonissima interpretazione, c'era il personaggio di Cristabella che, con la storia (forse troppo?) articolata che le stava intorno, riequilibrava le sorti del prodotto. Al contrario Bassett svuota di ogni interesse e profondità il personaggio di Alessa e con Claudia raggiunge il minimo storico della caratterizzazione.

Senza dubbio un film da dimenticare. Noioso e sul quale non vale la pena di spendere tempo o parole ulteriori.

VOTO: 3/10 

lunedì 24 febbraio 2014

Bastardi senza gloria



Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino - Genere: drammatico/storico - USA, Germania, 2009

Bastardi senza gloria è da molti considerato il capolavoro di Tarantino. Se si interpreta in senso metacinematografico l'ultimissima battuta del film, come credo si debba fare, è probabile che anche lo stesso regista lo consideri tale. A ragione: se in un film come Pulp Fiction ho apprezzato la libertà stilistica e in un lavoro come Kill Bill non ho potuto non notare con ammirazione la capacità di gestire un prodotto profondamente intermediale, davanti a questa produzione del 2009 non posso certo esimermi dal riconoscerne l'assoluta straordinarietà. Tarantino riesce a riscrivere la storia in modo originale e non ingenuo; la cosa ha dell'eccezionale proprio considerando che la Seconda Guerra Mondiale è uno degli eventi cardine del Novecento, essenziale anche per comprendere la nostra condizione attuale. Narrarla conduce quasi sempre alle sterili semplificazioni o al sentimentalismo esasperato: entrambi pericoli da evitare, sopratutto in ambito cinematografico, se si vuole creare un prodotto di un certo livello. Tarantino ci riesce, utilizzando come suo solito uno stile eclettico e originale che, pur radicandosi all'interno di una discorsività ben collaudata, riesce a risultare piacevole e sempre nuovo per quanto riguarda la ricombinazione degli stilemi utilizzati. Quando mi trovo di fronte a film come questi emerge in tutta la sua evidenza il problema della recensione che, per sua natura, dovrebbe suggerire al lettore una serie di elementi di giudizio che possano indirizzarlo prima della sua visione o guidarlo a un'occasione di confronto dopo averla effettuata. Il problema con un prodotto come Inglorious bastards sta proprio nel fatto che è difficile scegliere un punto di vista che possa riassumere la complessità del lavoro tarantiniano: si potrebbe parlare del discorso metacinematografico, del ruolo del film all'interno del percorso espressivo del regista o di molte altre cose. Ogni approccio sarà comunque parziale; l'invito, prima di procedere nella lettura, è quello di vedere il film, bellissimo.

Per parte mia vorrei proporre un breve spunto di riflessione che, lo ripeto, temo esorbiterà dal tono e dall'ambito caratteristico della recensione. Guardando le immagini sapientemente orchestrate da Tarantino è difficile non richiamare alla mente le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, significativamente scritte poco prima del suicidio dell'autore, avvenuto proprio per evitare il rischio di cadere in mano ai nazisti. In una ventina di pensieri criptici e a tratti quasi epigrafici, Benjamin compendia la sua filosofia della storia, opponendo alla visione progressista che aveva dominato la modernità (e che - per inciso - aveva portato alle due Guerre), la necessità di una storiografia della discontinuità, diremmo quasi dell'intervallo. "Spazzolando la storia contropelo" Benjamin cerca di dare un senso alle macerie generate dalla follia dello storicismo e dall'ubriacatura tecnocratica che ha caratterizzato i primi decenni del Novecento. Ai racconti trionfalistici dello storicismo post-hegeliano Benjamin oppone una nuova linea di ricerca, che ribaltando le gerarchie e le prospettive prevalenti riscrive la storia indagandone i recessi e gli episodi marginali. Allo stesso modo Tarantino riscrive la storia, ribaltando non solo i canoni narrativi attuali, ma anche le caratterizzazioni dei personaggi, arrivando anche ad inserire frammenti grottesco/parodici entro una materia tanto delicata (la commozione di Gobbels, alcune battute di Hitler). A differenza di quanto si potrebbe pensare, non si tratta di una semplice provocazione (anche se una componente di polemica è sempre presente in Tarantino), ma di una nuova e lucida capacità di condurre un interessante discorso sul senso della storia, in un'epoca dove ormai la memoria sembra essersi appannata. Ma questo è solo un suggerimento. 

VOTO: 10/10

American Psycho



American Psycho di Mary Harron - Genere: thriller - USA, 2000

Tratto da un fortunato e omonimo romanzo, American Psycho, dominato dal gigantismo attoriale di Christian Bale (che da qui una buona prova di sé, ben prima della serie nolaniana) è senza dubbio uno dei film più controversi dello scorso decennio anche se, almeno in alcuni punti, si potrebbe meglio considerare uno degli ultimi prodotti anni '90. Significativamente la vicenda si situa ancora più indietro riscrivendo (o descrivendo?) l'immaginario yuppies anni '80. I favolosi anni Ottanta, l'epoca dei consumi sfrenati, della corsa azionistica di Wall Street, l'età d'oro dell'America prima della caduta e - sopratutto - l'epoca del riflusso. Siamo nel momento in cui la spinta propulsiva che aveva animato la contestazione giovanile con i suoi postumi politicizzanti si arresta e lascia spazio ad un'epoca passiva, dove il cittadino diventa spettatore e consuma merci e immagini ad un ritmo prima impensabile. Lo si vede bene nel film della Harron, dove la televisione e i telefoni cellulari, insieme alla musica registrata e portatile diventano i simboli di un certo status sociale. 

Anche Bale, nei panni di Patrick Bateman (l'assonanza con Norman Bates non è certamente casuale, credo), rappresenta l'americano tipo del periodo, o meglio il modello a cui tutti volevano ambire. Ricco, ben vestito, ossessionato dalla cura del corpo e dalla rimozione della più piccola traccia di impurità da sé e dal suo ambiente, Bateman rappresenta perfettamente l'uomo metrosexual (l'insistenza sul fisico statuario di Bale non è derto casuale) e schizofrenico che, risucchiato dal flusso della droga e degli stimoli allucinanti, finisce con il non sapersi più controllare. Tutta la vicenda di American Psycho ruota attorno al tentativo, sempre più difficile e meno riuscito, di nascondere la polvere sotto il tappeto (o i cadaveri nell'armadio): la follia omicida di Bateman, che significativamente agisce senza motivo, sembra essere guidata soltanto dalla sua incapacità di cogliere il reale nel suo farsi, vittima com'è di uno sguardo insincero nei confronti del mondo esterno.

Bateman è folle perché, chiuso nel suo narcisistico isolamento individualista, non è più in grado di comunicare con l'esterno se non attraverso le immagini. Solo con dei surrogati di realtà il nostro protagonista riesce ad avere un dialogo almeno in qualche misura efficace, che non si assesti cioè su frivole successioni di pranzi eleganti. In questo Bateman è figlio della sua epoca, di un momento storico nel quale per la prima volta, si consuma in maniera più forte che nel passato, quello scollamento realtà/immagine a cui la contemporaneità ci ha così profondamente abituato. Nel complesso il film della Harron è bello e interessante, per quanto non rappresenti certo una delle stelle assolute nel firmamento cinematografico; mi dispiace che sia stato snobbato ingiustamente da molti.

VOTO: 7/10 

domenica 23 febbraio 2014

Cantando sotto la pioggia



Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen e Gene Kelly - Genere: musical - USA, 1952

Capolavoro assoluto del genere musical e film quotatissimo da Mymovies, con lo straordinario risultato di 4.9/5, Cantando sotto la pioggia è senza dubbio uno dei lavori che più di tutti segnano l'epoca d'oro di Hollywood, con le sue contraddizioni e le sue caratteristiche formali. All'interno di una struttura drammatica piuttosto prevedibile, com'era caratteristica delle produzioni dell'epoca, il film della coppia Donen/Kelly si caratterizza soprattutto per la presenza di una dinamica interessantissima fra i meccanismi della linearità classica e i prodromi di una insorgenza antitrasparente che porterà, nel giro di dieci anni e dietro gli impulsi provenienti dall'Italia (Neorealismo) e dalla Francia (Nuovelle Vague) al sorgere dello stile cosiddetto moderno. In particolare nella composizione dei bellissimi numeri coreografati, Cantando sotto la pioggia propone - all'interno di un meccanismo strutturale ben definito - dei momenti di discontinuità che si ricollegano, per un certo gusto nella disposizione delle forme, ad alcune esperienze delle Avanguardie storiche (cosa notata molto sagacemente da Federico Vitella nel suo libro sullo sviluppo delle forme di montaggio). 

Ma la grande genialità di Cantando sotto la pioggia, il motivo per cui probabilmente si tratta di uno dei pochi film classici che si potrebbero rivedere sino all'ossessione (insieme a pochi altri, come Psycho, Scarface: lo sfregiato etc.) ritrovandoci sempre qualche elemento nuovo, è il carico metacinematografico che sottende il discorso frizzantemente intervallato da canzoni divertenti che sono entrate nella memoria collettiva (a parte Singin' in the rain, ovviamente, ricordiamo quanto meno Good morning). Il film è in grado di ricostruire, con un'evidenza icastica e con la simpatia di una parodia non esente da una fredda autocoscienza, il delicato passaggio dal cinema muto al cinema sonoro (avvenuto, come si sa bene, con Il cantante di jazz della Warner). Un cambiamento epocale, ancora più pervasivo (forse?) di quello dall'analogico al digitale, che ha cambiato il modo di fare i film, la struttura delle pellicole e le aspettative del pubblico.

Il tutto viene narrato da Kelly/Donen con una freschezza esemplare e una capacità di racconto che fonde efficacemente la trasparenza e la piacevolezza del racconto e un discorso dotato di una pregnanza e rilevanza critica veramente profonda. Questo rende Singin' in the rain un capolavoro veramente multilivello (altro che double coding postmoderna!), nel quale qualsiasi spettatore può trovare almeno un motivo di interesse. Sicuramente da vedere!

VOTO: 8.50/10 

mercoledì 19 febbraio 2014

Carrie: Lo sguardo di Satana



Carrie: Lo sguardo di Satana di Brian de Palma - Genere: thriller - USA, 1976

La sterminata produzione di Stephen King ha sempre dato origine a diverse trasposizioni cinematografiche, più o meno riuscite (da Misery non deve morire a Grano rosso sangue, tutt'altro che imperdibile). Essendo uscito il remake di questo film di de Palma non molto tempo fa, ho deciso di guardarmi l'originale per poter eventualmente farmi un'idea più precisa della riuscita della cover di Kimberly Pierce. Come sempre, anche se bisognerebbe farlo per essere veramente "professionali", non tratterò dei rapporti fra testo di partenza e film, perché non conosco il lavoro di King e perché questo fuoriesce dai miei interessi attuali. Cercherò quindi di proporre una serena valutazione del lavoro cinematografico proposto, senza addentrarmi nei meandri della variantistica romanzo/film. Come spesso accade per i film tratti dai testi di King, o almeno come mi è capitato di vedere in quelli che ho analizzato, l'inizio è stato tutt'altro che promettente: anche in de Palma si percepisce senza difficoltà il tentativo di rendere un'atmosfera ben precisa, ansiogena e che permea dall'interno le immagini e la vicenda. Il problema è che qui come spesso accade altrove il tutto si rivela abbastanza macchinoso e aneddotico: nel caso specifico una trama veramente troppo prevedibile viene amplificata da una recitazione non certamente imperdibile e soprattutto da uno stile troppo limpido e chiaro. 

Stavo già per gettare la spugna quando, dopo un'ora buona di film, il tocco registico di de Palma si fa vedere e sentire. A partire dalla scena del ballo fino alla fine della pellicola, lo stile sembra subire un cambiamento radicale  e si avvia con grande efficacia verso un uso più libero degli elementi filmici, sopratutto per quello che riguarda fotografia e montaggio. Nella scena culminante del film, quella che segue lo scherzo del ballo studentesco, de Palma si riprende grandemente, utilizzando la luce in maniera espressiva (o espressionistica?) per dare perso e spessore alla situazione, aiutato anche da un uso non ingenuo dello split screen (che, in ogni caso, forse non aveva molto senso di essere in questo prodotto). In ogni caso, al di là di personali valutazioni di gusto, direi che tutta la seconda metà del film ne risolleva fortunatamente le sorti di un lavoro altrimenti destinato (giustamente) al macero.

Il risultato complessivo non è eccessivamente spiacevole, ma si percepisce un po' la frizione fra le due parti. Per ragioni di ritmo, peraltro, escluderei che si sia trattato di una scelta intenzionale realizzata per comunicare il cambiamento dello stato emotivo di Carrie, peraltro recitata molto bene da Sissy Spacek. 

VOTO: 5.50/10

lunedì 17 febbraio 2014

Dredd



Dredd di Pete Travis - Genere: fantascienza/azione - USA, 2012

Nel lontano 1995 usciva Dredd: La legge sono io, science fiction con Sylvester Stallone basata su un personaggio partorito nel mondo dei fumetti. Gli ingredienti della fantascienza classica c'erano tutti: un futuro distopico creato da una catastrofe nucleare, entro il quale un'umanità priva di punti di riferimento si raccoglieva in un'unica grande città (MegaCityOne, versione neanche troppo fantasiosa delle odierne megaregions di cui ci parlano molti sociologi) entro cui la criminalità dilagava come un malessere incurabile e dove l'unica speranza di giustizia era rappresentata dai Giudici, dei quali il Dredd protagonista faceva parte. Su questo nucleo narrativo di base il regista Danny Cannon aveva costruito una trama che sembrava ritagliata sul personaggio Stallone, tanto che alla fine Dredd non era molto più che una riedizione futurista di Rambo. Nonostante questo, al di là del suo essere un film spettacolare e commerciale fino al midollo, aveva rapito il mio interesse di bambino e Dredd rimane ancora oggi, con la sua moralità inattaccabile, un personaggio decisamente interessante. 

Pete Travis rilancia questo fascino, smarcandosi saggiamente dalla (ingombrante per quanto scarsamente utile) eredità di Cannon e confezionando un prodotto che perdendo le caratteristiche stalloniaane ci restituisce un'immagine del Giudice più vicina a quella originale. A differenza di quanto accadeva nella pellicola del '95 qui Dredd non è messo sotto accusa ed è il protagonista assoluto di una trama thriller/poliziesca piuttosto tipica, nella quale riesce a risaltare appieno il suo armamentario futuristico e la sua etica inoppugnabilmente manichea. Ovviamente, è bene ricordarlo, l'operazione di Travis è smaccatamente commerciale e si inserisce in un filone di aggiornamento nostalgico che sta interessando un buon numero di prodotti precedenti. Stilisticamente quindi, tutto molto controllato, lineare e spettacolare: esplosioni a profusione e uso continuo (soprattutto nella prima parte del film) dello slow motion per mimare, in modo neanche troppo originale, gli effetti di una droga stile bullet time (Matrix qui la fa da maestro). 

A conti fatti il lavoro di Travis non è per nulla spiacevole e riesce a intrattenere lo spettatore senza difficoltà, soprattutto se come mi si aveva amato l'impianto di base del film originale, magari storcendo un po' il naso per il protagonismo eccessivo di Stallone (che, intendiamoci, era perfetto per Dredd; solo che aveva finito con il fagocitarlo). Film piacevole, non esente da difetti e troppo colluso con il 3D (gli effetti in bullet time sono evidentemente inseriti solo a quello scopo o quasi), per meritarsi la sufficienza. Consigliato però per una serata disimpegnata.

VOTO: 5/10

domenica 16 febbraio 2014

Lady Vendetta



Lady Vendetta di Park Chan-Wook - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2005

Leoncino d'oro a Venezia 62 e conclusione della Trilogia della Vendetta, di cui ho già recensito recentemente Oldboy, Lady Vendetta è l'estremo sviluppo delle tematiche del lavoro precedente, presentate però da un'ottica fondamentalmente diversa. Dopo aver raccontato nel film del 2003 un sovraccarico di odio, di livore distruttivo che rischiava di tramutarsi in sostanza autodistruttiva (il finale di Oldboy da questo punto di vista è estremamente significativo e colpisce proprio per la sua crudeltà nei confronti del protagonista e delle attese dello spettatore), Lady Vendetta racconta il desiderio di vendetta di una immateriale creatura femminile, che - come apprenderemo per la verità piuttosto presto - si è immolata per il bene della propria figlia e ora, spinta da un atavico desiderio di redenzione, ricerca il mezzo per espiare le proprie colpe. Soprattutto nella prima parte del film, per introdurre la vicenda, Park Chan-Wook utilizza gli stilemi registici già presentati nella sua fatica precedente, scompaginando la sequenzialità narrativa in un gioco di specchi che si richiamano a vicenda, entro una struttura a mosaico policroma e quantomai aperta. In un continuo andirivieni temporale lo spettatore ricostruisce in gran parte grazie a uno sforzo mentale la vicenda pregressa agli eventi raccontati nel film, per poi seguire in tutta la seconda parte di questo lavoro di circa 120 minuti, la ricerca del colpevole e il consumarsi della vendetta.

Personalmente avrei preferito che lo stile del film fosse più uniforme, anche considerato che il risultato era comunque molto piacevole. Nonostante questo, anche quando il dettato registico si fa più lineare e meno aperto Park Chan-Wook si mantiene su livelli di ricerca elevatissimi e riesce a coniugare senza difficoltà la presenza di una narrazione forte con un lavoro sull'immagine di grande impatto. La scelta dell'inquadratura è funzionale, soprattutto nei momenti più concitati, a veicolare un contenuto che integra o ripete metonimicamente quello dell'intreccio drammaturgico, facilitando al contempo la digestione della vicenda che, soprattutto nella sezione incipitaria potrebbe altrimenti risultare difficoltosa. Come sempre l'aspetto che si fa più apprezzare del film è senza dubbio quello "filosofico", anche se questo termine non mi piace particolarmente. La vendetta come mezzo di espiazione che la protagonista incarna getta una nuova luce sui concetti eticamente condivisi (è giusto punire un omicida al di fuori della giustizia istituita?), una luce che è quella che promana proprio dal viso della Lady, attraverso un espediente dal sapore quasi surrealista (ne avevamo visti parecchi anche in Oldboy). Il risultato è che alla morale dell'uomo sembra sostituirsi quella "dell'angelo (della morte)", per la quale anche agire in deroga all'ordine costituito è legittimo, se il risultato è la purezza. 

Non è allora un caso se il colore principe delle sequenze terminali del film è il bianco, quello della neve che cade, coprendo le cose pur evidenziandole e quello del tofu, moderno "pane del perdono" che la protagonista sbrana voracemente, quasi a contraltare del "rito di smembramento" che si era consumato poco prima. Il bianco diventa il colore della cancellazione, del nuovo inizio, della firma conclusiva ma non annullante posta a suggello di un film che - ancora una volta - marchia col sangue la sua immagine nella mente dello spettatore, che finisce con l'essere morbosamente attratto dal suo fascino avvolgente e, perché no, un po' malato.

VOTO: 8/10

Persona



Persona di Ingmar Bergman - Genere: drammatico - Svezia, 1966

Del cinema di Bergman ho già avuto modo di occuparmi parlando dei suoi film probabilmente più celebri. Sia ne Il posto delle fragole che negli apocalittici arrocchi de Il settimo sigillo il regista svedese ha messo in forma una riflessione disillusa ma sensibilissima sull'ontologia umana, sul senso dell'esistenza e sulla nostra destinazione ultima. Sono elementi che ritroviamo puntualmente anche in Persona, spinti fino all'eccesso anzi ed inoltre arricchiti da tutta una serie di suggestioni che nei due lavori precedentemente citati rimanevano secondarie o in stato di latenza. Tanto basta per qualificare Persona come il mio preferito fra i film di Bergman visti fin'ora. Scegliendo ancora una volta Bibi Andersson come protagonista, Bergman compone un dramma psicologico di notevole complessità narrativa che, nonostante questo, si regge solamente sulle capacità espressive dei volti: la figura stilistica più utilizzato è il primo piano, che ritaglia squarci drammaturgici intensi e giocati tutti sul cromatismo b/n. Attraverso uno stile à la Dreyer, Bergman ci regala un'opera penetrante, che non contraddice i presupposti della sua poetica, ma anzi li rafforza pur ponendosi al limite anche dello stile moderno di cui lo svedese è uno dei massimi rappresentanti.

Tutto il film è costellato da continui riferimenti alle avanguardie artistiche e ai loro stilemi tipici, che si percepiscono soprattutto in alcune parti ben circostanziate della pellicola. Sono gli spazi della mente, gli stessi occupati dal sogno ne Il posto delle fragole. Luoghi di un'indagine più libera da vincoli narrativi, dove l'immagine ha lo spazio e la forza di poter parlare di per sé, svincolandosi finalmente dalle esigenze dell'aneddoto (già non troppo presenti in Bergman, per la verità). Attraverso un ricorso continuo alla discontinuità di montaggio e tramite l'inserzione di frammenti quantomai eterogenei nella trama delle immagini, il tessuto di Persona diventa straniante e defamiliarizzante, destabilizzando il nostro rapporto con l'immagine così come lo è quello della Andersson con sé stessa. La storia terapeutica dell'attrice interpretata da un'efficacissima Liv Ullman (veramente dreyeriana in quanto autoreclusasi nel mutismo) diventa il pretesto per una riflessione sulla natura della nostra personalità e sulle possibilità della sua contaminazione, entro un periplo vertiginoso che non senza riferimenti metacinematografici porta alla fusione/irriconoscibilità dei due personaggi.

Una nota di sincera ammirazione la meritano a questo riguardo proprio l'incipit e la conclusione, veri e propri momenti in cui l'immagine viene accesa e spenta attraverso un'autodenuncia della natura porosa e ultrastratificata della cinematografia. Così la rapida successione di frammenti del cinematografo serve ad azionare il meccanismo di immersione nell'immagine, che sarà però costantemente frustrato dalle scelte stilistiche e narrative di Bergman. Persona rimane un film complesso e affascinante, che vale senza dubbio la pena di guardare se si cerca un cinema di qualità, in grado di parlare allo spettatore a più livelli e, (soprattutto?) di parlare di sé stesso.

VOTO: 10/10

giovedì 13 febbraio 2014

Duel



Duel di Steven Spielberg - Genere: thriller - USA, 1971

Il nome di Spielberg, nella coscienza collettiva dello spettatore medio della mia generazione, non è senza dubbio legata al suo debutto alla regia. Molto più celebre per film come ET o Jurassick Park, si ritiene che Spielberg sia un grande narratore, capace di creare mondi fantastici resi credibili e vicini ma che comunque non rinunciano alla loro carica di esotismo. Oppure come dimenticare un film favola come Hook, riscrittura divertente e briosa di Peter Pan? Eppure Spielberg non è nato come un autore della Terza Hollywood, non come un rappresentante di quel ritorno alle narrazioni forti che ha caratterizzato il cinema dagli anni Ottanta in poi. Duel, dei primissimi anni Settanta, lo testimonia molto bene. Spielberg è una persona che conosce molto bene il cinema e, in questa sua prima stagione creativa, utilizza uno stile molto più interessante e libero rispetto a quanto non fa nei suoi film di fiction. 

Duel effettivamente è il tipico prodotto da New Hollywood: una trama esile, quasi banale nella sua semplicità, raccontata con un'attenzione alle forme plastiche della filmicità, con un uso attento dell'inquadratura che privilegia punti di vista inconsueti e anticlassici. Non sappiamo nulla della vicenda che sta dietro alla folle corsa del nostro protagonista, che anche della sua vita precedente non ci racconta alcunché. Tutto il film è fondato sul dubbio, sul non detto, ci si chiede se la cisterna che tenta di uccidere il nostro sprovveduto viaggiatore sia animata da qualche desiderio preciso ma tutte le speculazioni che il pubblico può fare sono destinate a rimanere senza risposta. Lo stile semplice, lucido e chiaro di Spielberg è in netto contrasto con quella che sarà poi la sua poetica narrativa matura, tutta fondata sulla linearizzazione del racconto e sull'allontanamento della narrazione dallo spettatore. 

La genialità di Spielberg gli ha permesso, appena venticinquenne, di confezionare questo piccolo cult in una decina di giorni, tempo veramente irrisorio se si considera la notorietà e il valore quasi auratico che questo film hanno assunto con l'andare del tempo. In Duel, per quanto si possano riscontrare dei difetti non indifferenti a livello di sceneggiatura e di dialoghi (che, duole ammetterlo, sono piuttosto imbarazzanti!), c'è una freschezza stilistica che poi non si ritroverà più nella produzione più avanzata di Spielberg. Un peccato, che forse rende ragione alla definizione di questo autore come di uno dei grandi traditori della Seconda Hollywood. 

VOTO: 7/10 

mercoledì 12 febbraio 2014

A History of Violence



A History of Violence di David Cronenberg - Genere: thriller - USA, 2005

Di Cronenberg ho visto alcuni film, di cui ho dato notizia su questo blog, ma senza soluzione di continuità. Contrariamente a quanto si dovrebbe pretendere da ogni buon critico non ho affrontato la sua opera in maniera completa, ma quantomai discontinua, privilegiando i capolavori (Videodrome) o i film più noti che mi avevano incuriosito (Cosmpolis). Forse l'idea di colmare le lacune continuando in questa peregrinazione disordinata non è ottimale, ma in fin dei conti ogni film, per quanto legato alle altre opere del medesimo autore, è qualificabile anche come un'opera singola, con le proprie specificità. E per fortuna, A History of Violence, pluricandidato film del 2005 che ha portato a casa in realtà ben poco per quanto la critica lo abbia elogiato, mi sembra un prodotto abbastanza atipico nel panorama cronenbergeano (che pure non conosco troppo nel dettaglio, come dicevo) per essere analizzato senza troppe difficoltà. 

Devo dire che rispetto a film come Il pasto nudo, Crash o altri, ho trovato A History of Violence molto convenzionale nell'impianto stilistico e nel tipo di narrazione. Ho ritrovato Cronenberg certamente nelle atmosfere un po' stranianti nelle sue inquadrature e nell'efficacissima scelta di far partire il film "in sordina", con un efficace ritratto del sogno americano su cui irrompe (richiamo a Cosmpolis, ovviamente a posteriori) l'inquietante profilo della limousine nera. La vicenda si sviluppa piuttosto linearmente in luoghi che si fanno progressivamente più freddi e defamiliarizzati anche dal punto di vista cromatico (gli ambienti si spengono, diventano lividi e mortiferi, come di riflesso alla riemersione di Joy dalle profondità di un buon Viggo Mortensen). Tutto il film in effetti, come altri titoli di successo degli anni zero, orbitano attorno alla scissione psicologica, alla duplicità intrinseca dell'individuo, che esplode in comportamenti potenzialmente pericolosi di cui il protagonista sembra essere inconsapevole. 

Tutto molto interessante, sviscerabile sino alla nausea con le armi affilate della critica psicanalitica. Eppure ho trovato infelici le scelte di ritmo (tutta la seconda parte del film, quella che segue il riemergere della personalità nascosta del nostro "eroe americano" viene condensata in una conclusione che ha un che di affastellato) e l'ultimissima sequenza del film, che si vuole forzatamente irrisolta ma il cui esito possiamo facilmente intuire dalle movenze dei personaggi. Se tutto è così chiaro, perché negarne la logica conclusione solo per il gusto di insinuare nello spettatore un dubbio? Personalmente, per quanto non ami Lynch, ho trovato molto più interessante la soluzione da lui adottata in Mulholland Drive per la gestione del cambio di registro narrativo/di personalità; quello che fa Cronenberg invece mi sembra decisamente più accademico, forse troppo.

Di fatto il film è piacevole e ben realizzato entro uno stile che però non lascia ampio margine alla ricerca formale. Senza dubbio un thriller buono, che non tiene molto con il fiato sospeso ma si lascia guardare senza difficoltà. Eppure da Cronenberg mi sarei aspettato molto di più.

VOTO: 6.50/10

martedì 11 febbraio 2014

The Blair With Project



The Blair Witch Project di Daniel Myrick e Eduardo Sanchez - Genere: thriller - USA, 1999

I motivi per cui riprendere in mano il fortunatissimo film di Sanchez e Myrick sono molteplici. Il principale è senza dubbio la sua pervasività: un'analisi neanche troppo accurata della produzione di genere dal 2000 ad oggi non potrà non confermare che, se nella prima parte dello scorso decennio, a tenere banco nei film horror sono stati soprattutto gli stilemi mutuati dai capolavori di Nakata, è fuori discussione che dalla metà degli anni zero in poi le caratteristiche formali di The Blair Witch Project hanno generato un vero e proprio stile horror unificato, per quanto spesso utilizzato in prodotti di dubbia qualità. Senza Blair non avremmo avuto Paranormal Activity, R.E.C. etc; forse sarebbe stato meglio, ma non è questa la sede per deciderlo. Non va poi neanche sottovalutata la genialità sottesa a un prodotto del genere: grazie all'impiego di una strategia promozionale virale che per la prima volta o quasi ha utilizzato le potenzialità offerte da un sistema mediale convergente, i realizzatori del film non sono solo riusciti a guadagnare una cifra assolutamente incredibile di denaro (soprattutto se commisurata ai costi di produzione) ma - obiettivo ben più ambizioso - sono riusciti per un po' a far credere che ciò che si vede nel film fosse realmente accaduto. Non è niente di paragonabile all'ondata di panico collettivo causata dallo Welles de La guerra dei mondi, ma considerando l'epoca già disillusa in cui Blair è stato prodotto, il risultato merita la giusta attenzione.

Fin qui tutto bene. Lo stile del film è ovviamente in presa diretta, la qualità delle immagini è imprecisa, scarsa, tremolante; segue insomma tutte le caratteristiche tipiche della ripresa a mano. Interessante anche notare come un film del genere contenga verità profonde sul cinema e sul suo significato: i riferimenti potrebbero essere molteplici, ma basterà ricordare come con una semplicità di mezzi disarmante Myrick e Sanchez siano riusciti a rendere visibile il famoso fuori quadro di Aumont, proprio perché in un prodotto come questo non c'è nessuna distinzione (o quasi) fra produzione e fruizione. Il problema di fondo che ritrovo nel film è sostanzialmente di ritmo. Intendiamoci; ho apprezzato molto che i registi si siano sforzati in tutte le maniere di non visualizzare la minaccia che opprime i tre protagonisti, forse anche per questioni di budget, ma l'estremismo produttivo di questa pellicola segna in un certo senso il suo limite: l'estrema amatorialità del tutto ne rende quasi indecidibili le sorti. Il risultato è paradossale, perché un film pensato come una trovata commerciale e promosso come tale finisce con lo sconfinare nel film-saggio che non riesce assolutamente a intrattenere. 

Forse in tutto questo c'è un che di geniale, ma io non ne sono del tutto convinto. Rimane il fatto che si tratta di un lavoro interessante proprio perché nel '99 si trattava di una novità assoluta, ma che non mi convince appieno. Certamente da vedere per chi vuole cercare di capire da dove si origina la direzione imperante dell'horror attuale. Mi chiedo se in Blair si possa trovare anche un punto di ripartenza, dato che ormai si sente da qualche anno il bisogno di una novità forte in materia. 

VOTO: 5.50/10 

lunedì 10 febbraio 2014

Pulp Fiction



Pulp Fiction di Quentin Tarantino - Genere: thriller, drammatico - USA, 1994

Questo è il primo film di Tarantino che recensisco sul mio blog. Sacrilegio? Forse, visto che ho amato follemente i due Kill Bill ancor prima di sapere qualcosa di come funzionasse il linguaggio cinematografico. Ma la verità è che a me Tarantino non piace, lo trovo una persona fastidiosa e il suo stile non corrisponde a quello che preferisco e ricerco costantemente quando guardo un film. Il senso della critica però, almeno per come la intendo io - e non per tutti è così a quanto sembra -, è quello di formulare giudizi motivati che preludano almeno in parte dalle preferenze personali. E allora, così come i quadri di Monet rimangono assoluti capolavori pur non piacendomi, non posso non riconoscere (forse con un po' d'umiliazione, perché Tarantino alla fine ha vinto?), che Pulp Fiction merita un posto di diritto nella storia della cinematografia mondiale.

I motivi sono molti e su Tarantino e questo suo film sono stati spesi fiumi d'inchiostro reale o digitale, considerando anche che la sua personalità particolare ha favorito l'emergere di fenomeni di fidelizzazione assolutamente significativi. Secondo me una delle ragioni profonde del successo e della genialità di questo film stanno nel fatto che è riuscito a divenire un fantastico trait d'union fra due momenti fondamentali del cinema: il postmoderno come cifra stilistica in qualche modo definita da una unità di intenti chiara e riconoscibile e il variegato emergere di tendenze non banalizzabili sotto un comune denominatore che costituisce una delle cifre più caratteristiche della contemporaneità (o forse della nostra visione di quest'ultima, visto che la distanza storica ci offusca in qualche modo la vista). In Pulp Fiction, crogiuolo citazionista intessuto di rimandi ultrastratificati a formare un arazzo affascinante e inestricabile, sono contenuti in potenza buona parte dei capolavori del passato (un po' di western all'italiana, Easy rider etc.), la produzione futura del regista (il riferimento a Carradine e la sequenza della katana non possono non richiamare Kill Bill) e una buona parte delle tendenze di genere attuali (Hostel, di cui Tarantino è stato non a caso produttore esecutivo). 

Lo stile registico gestisce questo complesso mosaico in maniera fresca e vivace ma sorprendentemente controllata, non c'è niente che sia fuori posto e tutto torna magicamente anche all'interno di una struttura narrativa che scompagina qualsiasi linearità narrativa molto prima di Nolan (e Nolan è un altro autore che non amo, ma questa è un'altra storia). E' difficile scrivere una critica di Pulp Fiction che non ne sia un'analisi dettagliata e non è questo lo scopo di una recensione, probabilmente. Qui più che altrove vale la pena di invitare tutti a confrontarsi con questo capolavoro (un po' mi duole ammetterlo); anche gli scettici non rimarranno delusi.

VOTO: 10/10 

Lo Sconosciuto del Lago



Lo Sconosciuto del Lago di Alain Guiraudie - Genere: drammatico, thriller - Francia, 2013

Senza dubbio uno dei film più discussi dello scorso anno. Presentato nella sezione Un certain regard di Cannes, ha dato scalpore già al momento della diffusione della sua locandina, sulla quale è possibile vedere senza troppi ricami una scena di sesso orale che sarà poi puntualmente riproposta nel film. Sorprendentemente, e dopo averlo visto posso dire con mio enorme piacere, il film di Guiraudie è stato in programmazione persino a Bergamo, segno che forse anche in Italia qualcosa del grande cinema internazionale di qualità filtra. Per fortuna. Su questo film è stato detto più o meno di tutto e ripeterlo in questa sede sarebbe in più di un senso intuile. Da un punto di vista generale non possiamo che concordare con il premio alla miglior regia dato a Cannes, meritato grandemente per la bellissima fotografia e la capacità del regista di creare un racconto attraverso le inquadrature: nei campi profondi o ravvicinati composti dalla macchina da presa riusciamo a capire molto di quello che succederà nel film, a tal punto che forse, se il film fosse stato muto, non ne avrebbe perso in leggibilità. E questo, oggigiorno, è già un risultato straordinario.
 
Ma l'aspetto che più mi ha colpito de Lo Sconosciuto del Lago, quello su cui vorrei soffermarmi perchè mi pare che la critica non lo abbia attenzionato a sufficienza, è lo spazio. Tutta la vicenda orbita attorno a un lago, placida superficie misteriosa lambita ciclicamente da barche in passaggio. E' il lago a dominare sul film, creando un ritmo narrativo fortemente cadenzato e a volte volutamente "ripetitivo". Questo non è assolutamente un difetto di regia, come pure molti utenti della rete hanno sostenuto, ma la naturale conseguenza di quello che io ritengo essere uno "spazio qualsiasi" nell'accezione deleuziana del termine. Ne L'immagine-movimento Deleuze parla della possibilità di creare degli spazi qualsiasi, luoghi che per quanto mantengano una riconoscibilità fenomenica (quegli spazi sono lì, esistono), hanno perso il loro carattere di agibilità e diventano quindi degli spazi dell'Essere più che dell'accadere. E' il caso del sistema lago/bosco nel film di Giraudie. Esso è lì, si presenta ai nostri occhi, eppure per i protagonisti della vicenda così come per noi, è uno spazio quasi mostruoso, irriconoscibile perché non utilizzabile, uno spazio che non si lascia ricomporre in un'immagine unitaria nella nostra mente.

Così l'acqua diventa un luogo perturbante nel quale il nostro sguardo si sovrappone in soggettiva a quello di Franck, spaventato dall'omicidio che vi è stato compiuto e tutto si fa più irregolare e impreciso. Allo stesso modo la secca boscaglia dove si consumano gli incontri sessuali occasionali perde qualsiasi connotato reale e si risolve, soprattutto nell'ultima parte del film, in una costruzione labirintica dai risvolti quasi mentali. Significativo che, proprio nell'ultima sequenza, il corpo di Franck sembri quasi scomparire nel buio della notte, come assorbito da un ambiente divenuto deleuzianamente irriconoscibile, altro da sé. Tutto questo fa da sfondo (la parola però è inadatta, perché l'ambiente partecipa del tutto come un protagonista assoluto) a una vicenda che, al di là della contingenza narrativa da thriller che rimane assolutamente secondaria, a una vicenda di profonda umanità raccontata con un lirismo fuori dal comune.
 
Lo Sconosciuto del Lago è stato salutato con favore perchè è un'opera che parla senza giri di parole e con sensibilità del mondo gay. Giusto, ma se fosse solo questo non sarebbe così penetrante e a tratti quasi commovente. In realtà la storia di Franck, del suo misterioso amante e di Henri, troppo timoroso per essere conoscibile perfino da sé stesso, ci dice qualcosa di profondamente vero riguardo tutti noi, andando a indagare quel luogo liminale sospeso fra l'amore, l'amicizia e il sesso. Il tutto con una capacità assolutamente fuori dal comune di comprendere la connessione atavica fra Eros e Thanatos che costituisce la cifra veramente intima di questo genere di rapporti. Nel complesso un film assolutamente meritevole, che per una volta si è davvero guadagnato i riconoscimenti vinti.
 
VOTO: 9/10

sabato 8 febbraio 2014

I Guerrieri della Notte



I Guerrieri della Notte di Walter Hill - Genere: azione - USA, 1979

Film culto degli anni Ottanta, di cui riprende lo stile e le movenze narrative, I Guerrieri della Notte è un film decisamente interessante, che riprendendo spunti da un certo cinema colto, li riconfigura entro una cornice più pop ma non per questo meno efficace. Mymovies ha dato alla pellicola di Hills un voto altissimo (4.2/5), cosa che viene fatta di rado. In realtà non condivido il giudizio eccessivamente entusiastico che i recensori hanno dato della pellicola, ma rimane il fatto che I Guerrieri della Notte merita un'attenzione particolare, anche grazie alla vasta pervasività che ha avuto (non molti anni fa gli è stato addirittura dedicato un videogioco per console, segno della sua grande capacità di rimanere incastonato nella mente delle generazioni che ha formato). 

Mutuando senza dubbio numerosi spunti dal capolavoro kubrickiano Arancia Meccanica, datato 1971, Hill è riuscito a creare un prodotto di grande impatto visivo ambientato in una scura notte di una New York trasfigurata, attraverso una grande capacità stilistica, in un vero e proprio non-luogo di augeana memoria. Le inquadrature ritagliano spazi isolati, insicuri e fatiscenti, dove le relazioni umane sono sempre pericolosamente a doppio fondo. Nulla è sicuro e la fuga dei Guerrieri, accusati ingiustamente di aver sovvertito un ordine a sua volta faticosamente costruito e segnato dalla fragilità, assume la forma di una movenza anabatica attraverso la quale, con un fare dal sapore quasi tragico, si giungerà alla fine alla risoluzione dell'intreccio tramite l'intervento di un autentico deus ex machina. Il mondo diegetico ne esce impoverito: se è pur vero che alla fine la moralità dei Guerrieri li ripaga scagionandoli dalle accuse in cui si erano trovati invischiati, non si può non notare come lo spazio di manovra dei singoli sia fortemente schiacciato da uno schema superiore che ne preordina i movimenti e ne inibisce almeno parzialmente le capacità.

In tutto questo l'occhio visionario di Hill installa una visione quantomai moderna del genere distopico (che qui si tinge fortemente di tinte agoniche), ritagliando spazi visivi di sicuro impatto e certa memoria, come la riuscitissima e giustamente famosa sequenza dello scontro con i Baseball Furies, dove il regista è riuscito a dare vita a dei personaggi veramente perfetti per il mondo in cui si muovono (a tal punto che questa può essere considerata la vera e propria scena clou nella memoria collettiva del film). Una nota ulteriore la merita senza dubbio la colonna sonora, quanto mai adatta allo stile visivo ed emotivo del film e anche al di là di questo di per sé davvero apprezzabile.

VOTO: 7/10 

venerdì 7 febbraio 2014

Nightmare Man



Nightmare Man di Rolfe Kanefsky - Genere: horror - USA, 2006

Pensare che, cercando la locandina di Nightmare Man per questa recensione ho trovato un poster dove il film viene elogiato grandemente e valutato con il massimo del punteggio possibile, mi sconvolge veramente. E' vero che molto spesso si cercano dei prodotti disimpegnati che ci facciano divertire senza troppe pretese, ma penso che a tutto ci sia un limite. Senza esagerare, posso dire di essere stato davvero in dubbio sulla possibilità stessa di scrivere queste righe, perché con prodotti di questo genere è veramente difficile dare un giudizio. E' un po' come dare zero a un compito scritto di italiano, una cosa piuttosto ridicola. Eppure, in questo caso, la tentazione è veramente forte: si tratta di un lavoro talmente brutto che in certi momenti ho seriamente pensato di essere di fronte a un prodotto della Asylum: magari! Almeno in quel caso sai a che cosa vai incontro, guardando un film che si autodenuncia sin dal titolo come un apoteosi del b-movie. Nightmare Man invece appartiene a quella categoria di film (i più fastidiosi) che si spacciano per titoli "seri" e poi ti lasciano a bocca aperta per la loro completa mancanza di qualità.

Lo ripeto, il genere horror è costellato di questi prodotti e la maggior parte dei film commerciali attuali sono comunque piuttosto bruttini. Ma se un Insidious poteva essere considerato come un prodotto banale e noioso ma nulla di più, Nightmare Man è veramente realizzato male, girato peggio e recitato in una maniera assolutamente inqualificabile. La cosa sconcertante è che a volte sembra quasi di trovarsi davanti a una parodia del genere, alla Scary Movie e se il film fosse tutto così sarebbe senza dubbio più riuscito. Invece lo spettatore è sballottato da una parte all'altra senza capire quasi nulla, dentro una trama tanto banale da poter essere ricondotta a quella di alcuni film della serie Piccoli brividi... L'apoteosi dell'emozione insomma. Per il resto in realtà non c'è molto da dire su una lavorazione del genere, se non che sarebbe meglio dimenticarla. Sulla questione del voto torno a ripetere che sono stato a lungo combattuto, ma considerando i giudizi dati a Twilight e Dracula 3D (i film fra i peggiori di tutto il mio blog) penso di aver raggiunto un buon compromesso.

VOTO: 1/10 

giovedì 6 febbraio 2014

Crash



Crash di David Cronenberg - Genere: thriller, erotico - Canada, Regno Unito, 1996

Sulla locandina di Crash si legge che il Premio della Giuria a Cannes dell'anno in cui venne presentato è stato conferito per l'originalità e l'audacia del film. Niente di più vero; più ancora di Videodrome che stilisticamente è sicuramente migliore, Crash propone una struttura interessante e profondamente disturbante per quello che riguarda i temi. Il concetto basilare ha a che fare - come spesso in Cronenberg - con le tematiche dell'ibridazione corporea e del rapporto uomo-macchina (dove macchina ha in generale il senso di elemento artificiale); rimane sottaciuto l'altro grande tema di Cronenberg che è quello dell'immagine video come elemento perturbante (e, ancora una volta, corporeo; Videodrome docet). Un lavoro che si qualifica senza dubbio come innovativo e che si lascia apprezzare per la spregiudicata disinvoltura con la quale tratta l'elemento sessuale, presentissimo (addirittura il film è catalogato spesso come erotico, e a questa interpretazione ci uniformiamo nella dicitura che diamo poco sopra, per quanto la questione sarebbe meritoria di una discussione un po' più ampia) e ben lontano dall'essere mascherato. Ciò nondimeno non si può fare a meno di notare come perfino in Cronenberg agisca una sorta di sguardo (auto)censurante, per cui molto spesso queste sequenze assumono un'aria di artificialità quasi fastidiosa.

Stilisticamente la pellicola si lascia guardare senza difficoltà, anche se devo dire che da un autore interessante come Cronenberg mi aspettavo qualcosa di più. Anche un film anonimo e non molto interessante come Cosmopolis si lasciava apprezzare per il colorismo algido delle sue inquadrature; in Crash invece non sembra essere presente alcun elemento che esorbita "dalla media", manifestando una forma decisamente tradizionale. Ben realizzata, certo, ma per nulla innovativa. Quantomeno, rispetto al film con Pattinson, non possiamo non notare come la struttura drammaturgica sia meno cavillosa e più agevole: per quanto disturbante e disorientante, la storia di Crash evita il rischio di rinchiudersi in una torre d'avorio di presunta filosofia, al di fuori della quale lo spettatore non può che rimanere un po' confuso e annoiato. 

Rimane senza dubbio un prodotto abbastanza valido, ma che mi ha lasciato con l'amaro in bocca perché un film del genere non sembrerebbe prodotto da uno dei più visionari registi della generazione che ha contribuito a rinnovare il cinema americano. 

VOTO: 6/10 

lunedì 3 febbraio 2014

Profondo Rosso



Profondo Rosso di Dario Argento - Genere: thriller - Italia, 1975

Il fatto che io non ami Dario Argento è risaputo e senza dubbio non condivido i giudizi entusiastici di quanti lo considerano l'erede "nostrano" di Hitchcock. Alla sua poetica ho sempre preferito quella di altri maestri, come Lucio Fulci, interprete efficace delle istanze romeriane; su questa linea vanno lette le mie recensioni fredde nei confronti di molti suoi film: lo stesso Suspiria, da molti considerato un piccolo capolavoro non mi ha colpito particolarmente. Non vale neanche la pena di parlare degli ultimi suoi lavori, che definire indecenti è ancora eufemistico. Eppure Profondo Rosso è veramente l'eccezione che, in questo caso, conferma la regola. Senza dubbio questa è la più alta realizzazione dell'Argento degli anni d'oro, un film efficace e costruito con sapienza che dipana una diegesi interessante su due ore di pellicola che scorrono senza annoiare minimamente. Vero e proprio fiore all'occhiello di questo lavoro è senza dubbio la colonna sonora dei Goblin, con il notissimo tema principale ma anche con tutto il resto dell'accompagnamento, bellissimo anche se non sempre perfettamente adatto a quanto si andava raccontando.

La grande differenza che ho riscontrato fra questo film e le altre pellicole argentiane dell'età aurea è senza dubbio un uso più sbrigliato del montaggio, meno legato ad esigenze di continuità e narrazione. In tutto questo la fotografia assume una qualità nel contempo più evocativa e tattile, capace di rendere fisiche delle atmosfere oniriche e profondamente legate al mondo della psicologia dei personaggi. C'è effettivamente un che di hitchcockiano nei continui riferimenti alle motivazioni psicanalitiche che stanno dietro la trama delittuosa, ricostruita progressivamente fino all'individuazione di un colpevole sbagliato. Un'altra caratteristica mutuata dal cinema del Maestro del Brivido, questa volta veramente presente in diverse pellicole di Argento, è l'inversione di gender che lega i protagonisti: in Profondo Rosso come in Suspiria, come in molte altre produzioni, sono le donne a tenere le redini del gioco, cosa che nel caso specifico si vede bene anche attraverso il rimando a tutta una serie di situazioni che sembrano mutuate dal grande comico d'autore.

Questo non faccia credere che il film sia esente da difetti: permangono senza dubbio alcuni stilemi registici che io non riesco ad apprezzare, come il colore eccessivamente pop del sangue oppure una certa modalità di scrittura della sceneggiatura, che rende alcuni passaggi singhiozzanti e faticosi. Nonostante questo però il prodotto si fa nel complesso apprezzare per il trattamento più libero dell'immagine cinematografica, in una prospettiva meno attaccata all'economia della trama.

VOTO: 7/10