lunedì 31 marzo 2014

Captain America: Il Primo Vendicatore



Captain America: Il Primo Vendicatore di Joe Jonhston - Genere: azione - USA, 2011

Senza dubbio i supereroi sono una delle mode degli ultimi anni da un punto di vista cinematografico. E' vero che ci sono stati i vari Batman, a partire da quelli di Tim Burton e che l'Uomo Pipistrello è stato il primo a imporsi sul grande schermo, ma ultimamente praticamente tutti i beniamini della Marvel e della DC stanno avendo il proprio lungometraggio, anche con audaci crossover come quello proposto nel recente The Avengers. Capitan America, didascalicamente il più americano di tutti i figli di Stan Lee, ha trovato il suo posto piuttosto tardi, grazie alla regia di Joe Johnston, ricordato dai più per uno dei film cardine dell'infanzia della mia generazione, il in verità non imperdibile, Jumanji. Così Steve Rogers, supersoldato impegnato durante la Seconda Guerra Mondiale a debellare la minaccia della divisione scientifica nazista dell'HYDRA e il suo capo, Johann Schmidt altrimenti noto con il famigerato nome di Teschio Rosso.

Chris Evans, già visto nei panni del protagonista del recente Snowpiercer, si riconferma un interprete adeguato per il ruolo ma insopportabilmente legato allo stereotipo (qui purtroppo praticamente obbligato) dello sterile eroismo all'americana, dell'eroe incredibilmente buono e privo di lati oscuri come Capitan America in effetti è. Non è un supereroe che amo molto, proprio per questo motivo. Batman, soprattutto nella trilogia di Nolan, si è dimostrato invece (come già Spider-man), un personaggio dotato di una profondità infinitamente maggiore, capace di confrontarsi con la propria oscurità pur senza riuscire a raggiungere con essa una sintesi sempre efficace. 

Riguardo al film in sé c'è purtroppo piuttosto poco da dire: Johnston compone un titolo intrattenente che si lascia guardare senza troppe pretese per tutta la sua durata ma che, in ogni caso, non riesce a convincere sino in fondo. Al di là di una sceneggiatura piuttosto blanda, che mi pare non lasci nessuno spazio di gestione per le dinamiche profonde dei diversi personaggi (penso ovviamente a Capitan America e agli altri buonissimi) e di una regia troppo lineare, che non utilizza neppure gli effetti speciali in chiave spettacolarizzante come si sarebbe senza dubbio potuto fare grazie alla parte "fantasy" derivante dalle tecnologie futuristiche sviluppate dall'HYDRA, la parte veramente carente del film è la prima, quella in cui si fa la conoscenza di Rogers, sfigatello di periferia che vorrebbe arruolarsi in guerra per vivere il sogno americano. Tutta questa sezione d'apertura, dilatata all'infinito in modo molto poco utile, si risolve in un pasticcio registico e di scrittura, dove spunti da generi diversi vengono affastellati con qualche spunto di fantasia ma poca intelligenza.

Perfino il Teschio Rosso, il cui make-up è senza dubbio l'elemento visivo migliore dell'intero lavoro di Johnston, si presenta come un nemico piuttosto anonimo, poco caratterizzato e ridotto in realtà a una macchietta steampunk del "povero" Hitler. Un peccato perché sulla carta poteva essere l'elemento di spicco di un film per il resto piuttosto anonimo, anche se non del tutto spiacevole.

VOTO: 4.50/10 

domenica 30 marzo 2014

Non si sevizia un paperino



Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci - Genere: thriller/horror - Italia, 1972

Che Lucio Fulci sia uno degli autori più amati del thriller all'italiana è assolutamente indubbio. Apprezzato per alcuni lavori anche dalla critica, che comunque non sembra mai avergli tributato le lodi che avrebbe meritato (forse per un disamore pregresso nei confronti del genere o del cinema di genere), ha fatto la sua fortuna presso il pubblico con lavori di indiscusso pregio come Zombi 2, ideale sequel del capolavoro romeriano. Su questo blog ho avuto modo di recensire solo Black Cat, piuttosto bruttino e di certo non adeguato a parlare dell'importanza di Fulci per il nostro cinema. Non si sevizia un paperino è uno dei classici lavori fulciani in questo senso, ritenuto abbastanza mediocre dalla critica (due stelle sul Farinotti) e molto ben riuscito dal pubblico. Nell'impossibilità di stare completamente nel mezzo devo dire che a conti fatti il film è piacevole per quanto non esente da difetti e sotto il profilo formale risponde bene alla necessità di riconoscere al compianto regista romano i suoi meriti.

Scegliendo di ambientare il suo dramma in un retrogrado paesino del Meridione, Fulci compie una scelta originale e azzeccatissima; pur con un'ombra di classismo geografico, questo gli permette di inserire piuttosto bene l'elemento della superstizione magica e popolare all'interno dello sviluppo della vicenda, grazie al personaggio della Maciara interpretata magistralmente da Florinda Bolkan. Gli intenti sociologici, per quanto non forti o preponderanti, sembrano ben presenti e tratteggiati con sicurezza e profondità dalla mano esperta del regista, che articola un discorso visivo coerente fatto di inquadrature ricercate e insistenti piani ristretti sugli occhi che diventano davvero lo specchio della caratterizzazione dei personaggi. Interessante e ben scritto anche il personaggi di don Avallone (Marc Porel), mentre decisamente minoritario appare il contributo del "divo" del cinema di genere italiano Tomas Milian, che qui interpreta un giornalista che per la maggior parte della vicenda se ne sta tranquillamente sullo sfondo.

Solido a livello di sceneggiatura e dialoghi, arricchito da una ricercatezza d'immagine che è propria ai grandi maestri, Non si sevizia un paperino scade inevitabilmente - come molti prodotti a lui assimilabili - quando si fa viva la volontà di shockare il pubblico con effetti sanguinolenti e macabri. Al di là della fattura degli effetti stessi, che dipende anche dall'anno di realizzazione, la necessità quasi fisiologica di scadere nel registro del macabro mi è sempre sembrata inutile e poco funzionale, sopratutto quando il film si regge bene sulle sue gambe come in questo caso. Un lavoro da (ri)scoprire per rendere a un mezzo genio come Lucio Fulci il posto che merita nella storia del cinema italiano.

VOTO: 6.50/10 

sabato 29 marzo 2014

Cure



Cure di Kiyoshi Kurosawa - Genere: thriller - Giappone, 1997

A partire dagli anni Novanta e per buona parte del decennio immediatamente successivo l'estremo Oriente ha regalato alla cinematografia mondiale una serie di titoli assolutamente fondamentali per il rinnovamento del genere horror, a partire dal meraviglioso Ring di Hideo Nakata. Cure, film di cui ero a conoscenza ma che ho rivisto con molto piacere grazie al consiglio di Roberta Novielli, si inserisce decisamente in questo filone estetico, seppure con un aroma più thriller e legato al leitmotiv dell'indagine poliziesca. A partire dalle ricerche del detective Takabe su una serie di strani omicidi si sviluppa una trama incredibilmente originale per l'epoca, orbitante intorno al problema del mesmerismo e della suggestione ipnotica. Ma se Kurosawa si fosse limitato a svolgere - seppure con precisione e dovizia - un compitino già scritto il film sarebbe decisamente mediocre. La capacità registica di Kurosawa, invece, riesce a garantire a questo Cure un alto livello di ricercatezza formale, che si traduce in uno stile visivo: inquadrature permeate di un malessere interiore che sembra promanare, come un'aura, direttamente dai personaggi si articolano in lunghi e agonizzanti piani-sequenza che ritagliano campi oblunghi e carichi di un'ansia atavica.

C'è molto Fincher in tutto questo e lo stesso Kurosawa ha ammesso di essersi ispirato a Seven oltre che a Il Silenzio degli Innocenti, anche se in questo caso i riferimenti mi sembrano più estemporanei e contingenti, meno pregnanti insomma. Lo stesso consegnarsi (seppure involontario) alle autorità del responsabili dei crimini ricorda molto più John Doe che non Hannibal Lecter, del cui fascino - purtroppo - non c'è alcuna traccia in Cure. La cosa straordinaria comunque è proprio che Kurosawa sia riuscito a integrare gli stimoli provenienti da questo cinema tipicamente americano filtrandoli, grazie alla sua cultura di origine, sino a creare un prodotto completamente originale e stilisticamente quasi agli antipodi del modello. Kurosawa ricerca un'antispettacolarità intimista e a tratti lirica, basata molto più sulla sottile interazione psicologica che sull'evidenza del macabro (seppure a tratti questo registro diventi evidente, come nel momento in cui la dottoressa viene colta nell'atto di privare la sua vittima del proprio volto). 

Per tutti questi motivi Cure è senza dubbio un film consigliato, da rivedere anche solo per una questione storicistica o per godere di un buon thriller, ben scritto e ancor meglio girato. Astenersi patiti della truculenza gratuita e delle sceneggiature senza spessore, che privilegiano un'inutile esasperazione della violenza visiva.

VOTO: 7.50/10 

venerdì 28 marzo 2014

Il Ricatto



Il Ricatto di Eugenio Mira - Genere: thriller - Spagna, 2013

Nella recensione de The Woman in Black ho parlato del destino degli attori che sono fortemente legati a una saga cinematografica, facendo l'esempio di Daniel Radcliffe, il quale rischiava di essere marchiato per tutta la vita con il segno del maghetto più famoso della letteratura (e del cinema). Mi sembra che lui sia riuscito a smarcarsi piuttosto bene da questo pericolo e anche in questo thriller spagnolo il cui titolo originale è assai più significativamente Grand Piano (purtroppo gli adattamenti a volte soffrono di alcune peculiari difficoltà) il ben noto Elijah Wood (il Frodo de Il Signore degli Anelli) ce la mette davvero tutta per liberarsi dall'ingombrante ruolo che grazie a Peter Jackson gli ha garantito un grande successo. Come per Radcliffe dico subito che la performance tutto sommato mi è sembrata decisamente accettabile e il giudizio almeno in parte negativo che ho riservato a The Woman in Black e che ho intenzione di comminare a questo Il Ricatto dipendono in larga misura da altri aspetti.

Eugenio Mira, il regista che ha partorito il film, è noto soprattutto per essere il compositore di tutta una serie di altre pellicole; a quanto mi risulta questo è il suo esordio dietro la macchina da presa. Lodevole il tentativo di tenere assieme due grandi passioni, quella per la musica e per il cinema, ma a mio modesto avviso non troppo riuscito. Al di là di un'idea originale che aveva tutti i presupposti per funzionare, dando corpo a un film che quanto meno riuscisse a intrattenere senza grosse pretese, mi sembra che Mira abbia perso la direzione nel momento in cui ha cominciato a prendere sé stesso e la propria opera troppo sul serio: tutta la vicenda che sta dietro al ricatto che fa da sfondo alla composizione mi sembra pretestuosa e poco credibile, senza considerare che da un punto di vista visivo è resa in maniera quasi dilettantesca. 

Sotto il profilo del ritmo il film tiene abbastanza bene, sviluppandosi agilmente in un crescendo di colpi di scena che però complicano ulteriormente la struttura, appesantendola fino ad approvare al finale assolutamente sproporzionato rispetto al materiale di base. Anche a livello di sceneggiatura si riscontrano diverse ingenuità evitabili, culminanti nella figura della coppia di amici di Wood e della moglie: per quanto siano proprio loro a dare al film la prima importante svolta narrativa in senso risolutivo, la loro caratterizzazione è del tutto fuori contesto e lascia pensare più ad American Pie che a un thriller degno di questo nome.

Complessivamente Il Ricatto è un titolo che, per quanto non del tutto spiacevole sotto il profilo dell'intrattenimento, deve scontare la presenza di diversi errori tecnici e di struttura che ne compromettono grandemente la godibilità. 

VOTO: 5/10 

giovedì 27 marzo 2014

Le Cinque Leggende



Le 5 Leggende di Peter Ramsey - Genere: animazione - USA, 2012

Ho spiegato nella recensione di Toy Story che io non sono un grande amante dell'animazione occidentale, né di quella Pixar né di quella DreamWorks come in questo caso. Ho visto sia Shrek che alcune altre produzioni di questo studio e non mi hanno colpito molto positivamente. Questo Le 5 Leggende però è piaciuto più o meno a tutti e così ho deciso di cimentarmi nella visione, stuzzicato anche dalla trama che sembrava decisamente interessante. Dai tempi di Nightmare Before Christmas ho sempre trovato molto stuzzicanti i film che avessero come tema la concretizzazione degli "spiriti" e dei mondi delle festività. Così questo film si prospettava un lavoro gradevole ma ammetto che è riuscito a stupirmi. Considerando che alla regia c'è l'anonimo Peter Ramsey (praticamente alla sua prima produzione impegnativa, a quanto mi risulta) mi sembra che il risultato finale sia decisamente alto, di gran lunga il migliore proposto dalla Dreamworks ad oggi. 

Al di là di un buonismo di fondo insito nella trama, ma decisamente perdonabile in un film di intrattenimento per famiglie, la struttura narrativa è definita in maniera efficace e i personaggi, sfruttando anche la conoscenza che praticamente qualsiasi spettatore potenziale ha, risultano ben caratterizzati e divertenti. Per quanto alcuni punti della diegesi mi sembrino piuttosto deboli (ad esempio tutta la questione dell'Uomo della Luna) devo dire che il film scorre con agilità e si lascia guardare senza alcun problema. Forse si sarebbe potuto sperare in un antagonista meglio caratterizzato o più carismatico, ma tutto sommato anche Pitch Black non fa troppo storcere il naso.

A completare il tutto concorre la qualità assolutamente elevata delle animazioni, impostate in maniera tale da conferire alle scene che coinvolgono Pitch la monumentalità che manca al suo personaggio a livello di caratterizzazione. La cavalcata degli Incubi è davvero qualcosa di visivamente attraente e anche la costruzione delle ambientazioni (come il palazzo della Fata dei denti) risulta azzeccata e d'impatto. Nel complesso dunque Le 5 Leggende è una produzione decisamente interessante e concorrenziale rispetto alle forse più note realizzazioni Pixar. Anche a fronte di alcune perplessità di gusto personale si tratta di un film che mi sento di consigliare a livello visivo e per la cura riservata in molti aspetti della resa tecnica.

VOTO: 7/10 

mercoledì 26 marzo 2014

Amore e Guerra



Amore e Guerra di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1975

Devo ammettere, anche se ormai sarà piuttosto palese, che sono un vero e proprio amante del cinema del primo Allen; per quanto i suoi titoli più recenti non mi entusiasmino (mi manca Blue Jasmine, di cui ho letto molto bene; faccio allusione ad esempio a To Rome with love) è innegabile riconoscere a questo autore una straordinaria capacità comica e un'intelligenza e cultura cinematografica assolutamente fuori dal comune. Come autore di punta dell'ondata di rinnovamento promossa dalla Nuova Hollywood, Allen ha riempito i suoi primissimi film con una serie di citazioni erudite (è evidente il motivo del bergmanismo in questa e in altre opere), che si intrecciano a doppio filo con un uso più libero e sbrigliato degli stilemi moderni messi a disposizione dal nuovo cinema europeo. Così Allen piega una struttura filmica più libera alle sue esigenze comiche, che molto spesso (come accade anche in questo Amore e Guerra) si rifanno ancora una volta a elementi facilmente riconoscibili del comico d'autore. 

Amore e Guerra è a mio avviso uno dei più riusciti film comici di Allen. Pur senza raggiungere il lirismo romantico e disincantato che costituisce la cifra fondamentale dei suoi due capolavori (Io e Annie e soprattutto Manhattan), mi sembra che a partire da qui Allen si allontani almeno parzialmente dalla strada smaccatamente umoristica che aveva caratterizzato ad esempio Prendi i soldi e scappa. La sua comicità si evolve in forme più sofisticate e parodisticamente filosofiche, cosa che si vede molto bene nei dialoghi assolutamente surreali fra Allen e la straordinaria Diane Keaton, qui in una delle sue migliori prove secondo me. Operando una sistematica decostruzione dei miti del romanzo russo dell'Ottocento (penso ovviamente a Guerra e Pace, ma anche a Dostoevskij, con i titoli delle cui opere viene composto un dialogo a mio avviso assolutamente geniale) e di tutta la pomposa stagione del patriottismo anti-napoleonico grazie all'inserimento di parodici anacronismi all'interno della struttura narrativa. L'effetto è ingigantito dalla capacità di Allen di rovesciare di senso anche i più seriosi riferimenti alla storia del cinema, come quelli al cinema muto e in particolare alla poetica di Ejzenstejn (spesso e forse giustamente presa di mira dai film comici realizzati con intelligenza; penso ovviamente alla celeberrima sequenza de Il Secondo Tragico Fantozzi). 

Questa complessa nebulosa di elementi fortemente interrelati fra di loro costituisce secondo me una delle massime espressioni della comicità alleniana, non ancora approdata alle vette dei due capolavori già citati, ma comunque sgrossata dagli elementi ancora incerti delle sue prime produzioni (è da escludere Che fai, rubi? per la particolarità della sua ideazione e messa in opera).

VOTO: 8/10 

martedì 25 marzo 2014

Drive



Drive di Nicolas Winding Refn - Genere: drammatico/thriller - USA, 2011

A partire dal visionario e non sempre compreso Valhalla Rising: Regno di Sangue, Winding Refn si è dimostrato uno dei registi più interessanti attualmente in circolazione, cosa confermata anche dal suo ultimo Solo Dio perdona. E' stato però proprio con Drive che il regista ha visto aumentare vertiginosamente le sue quotazioni, a partire dal conferimento del premio alla miglior regia al Festival di Cannes. Premio decisamente meritato, per fortuna, perché Drive è un vero e proprio gioiello della cinematografia contemporanea, un film talmente ben elaborato da destare meraviglia, pur in presenza di una struttura narrativa lineare e fortemente americana. La regia di Refn riesce infatti nell'incredibile impresa di sposare in maniera perfettamente riuscita due registri stilistici e narrativi assolutamente diversi, come quello del dramma romantico (dominante nella prima parte del film) e quello del gangest movie con alcuni momenti abbastanza truculenti (che prende forma a partire dalla manifestazione della minaccia alla vita dei protagonisti).

All'interno di questo doppio sistema narrativo che nel finale tenta una sintesi non del tutto riuscita, Refn sfrutta la buonissima prova attoriale di Ryan Gosling per confezionare un personaggio estremamente affascinante, caratterizzato dalla paradossale qualità di essere incredibilmente profondo e molto poco descritto. Sappiamo molto poco del nostro protagonista (addirittura non ne conosciamo il nome!), ma tanto basta per garantirgli uno spessore più che sufficiente a reggere praticamente il peso dell'intero film. A fare da collante a questa straordinaria interpretazione concorre un comparto tecnico decisamente buono, soprattutto per quel che riguarda la fotografia e le inquadrature: in tutte le scene in auto Refn sceglie punti di vista inusuali che raccontano con efficacia pur senza annoiare; questo garantisce alle scene d'azione (come quella dell'inseguimento dopo la rapina) una buona riuscita tecnica, pur senza rinunciare all'intrattenimento, che pure in questo film ha ovviamente un peso piuttosto limitato. Vero fiore all'occhiello da questo punto di vista è però la colonna sonora, costruita con intelligenza per integrarsi nella trama e favorire, anche attraverso il ricorso a sonorità elettroniche piuttosto ricercate, la definizione delle situazioni e dei personaggi. Meritatissima quindi anche la nomination agli Oscar per il miglior montaggio sonoro.

Seppure in misura minore che nel successivo Solo Dio perdona, mi pare che Refn abbia cominciato a definire già in questo Drive una interessante direttrice d'indagine cinematografica, senza dubbio foriera di approfondimenti e piccoli perfezionamenti, che mi sembra siano stati apportati nel film già citato e recensito su questo blog. In ogni caso Drive rimane certamente un prodotto raro per forza visiva e coerenza narrativa; l'unico punto debole che si può evidenziare è forse proprio l'eccessiva linearità della trama, elemento che però - come dicevo - è stato ampiamente revisionato da Refn nelle sua fatica successiva.

VOTO: 8/10 

lunedì 24 marzo 2014

Alien vs Predator



Alien vs Predator di Paul W. S. Anderson - Genere: fantascienza - USA, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Germania, Canada, 2004

L'esempio dell'abbastanza infelice Freddy vs Jason mi aveva già convinto della natura spesso pretestuosa e poco riuscita dei crossover fra saghe cinematografiche. Tuttavia, da buon amante della fantascienza e avendo visto sia lo straordinario Alien che il discreto Predators (nella versione originale e nell'atroce remake del 2010) ho deciso di avventurarmi in questa pellicola firmata da Paul W. S. Anderson, regista che pare avere una predilezione per i film fantascientifici collusi a vario titolo con i videogiochi. Il titolo in esame non è l'adattamento da un titolo videoludico, ma  vale almeno la pena di notare che esiste un videogame omonimo del 1999 che si ispira alla stessa storia di base del film. 

Il tentativo che il regista compie nel comporre questo film è quello di rendere quantomeno credibile la compresenza delle due creature aliene entro la trama diegetica del film, questione che viene risolta postulando un primigenio e antichissimo conflitto fra le due specie di organismi. Questo si porta dietro una architettura piuttosto farraginosa, che viene ulteriormente appesantita dalle performance non certo imperdibili del cast (a costo di sembrare didascalici vale la pena ricordare che uno dei protagonisti altri non è che Raoul Bova, forse uno dei peggiori attori che abbiano mai calcato la scena in Italia). Così, fra indagini ben poco credibili in una specie di piramide Alien e improbabili alleanze formulate fra la protagonista femminile e i Predators, il film oscilla pericolosamente sul baratro dell'horror, pur senza raggiungerlo mai. A livello di ritmo si riscontrato i problemi peggiori proprio perché il regista dispiega in maniera piuttosto prevedibile gli artifici di genere che servono a ritardare il palesarsi della minaccia; il problema è che in questo caso si tratta di uno sforzo piuttosto inutile, dal momento che i protagonisti sono proprio i mostri e che la loro essenza è spiattellata senza troppe difficoltà nella stessa locandina del film.
Tutto questo contribuisce a costruire un film di livello decisamente basso, per cui la candidatura ai Razzie Awards 2004 è decisamente meritata. Il ricorso insistente agli effetti speciali in maniera becera e la caratterizzazione praticamente assente dei personaggi donano a tutta la composizione un'aria da B-movie che certamente non contribuisce a risollevare le sorti del prodotto. Incredibile che ne sia stato prodotto perfino un sequel, del 2008.

VOTO: 3/10 

domenica 23 marzo 2014

Snowpiercer



Snowpiercer di Bong Joon-ho - Genere: fantascienza/azione - Corea del Sud, USA, Francia, 2013

Snowpiercer è senza dubbio uno dei film di punta della programmazione cinematografica delle ultime settimane. Film di fantascienza e azione denso di effetti speciali, esaltato dalla critica come uno dei migliori rappresentanti nel suo genere, è stato paragonato addirittura a Blade Runner e Matrix per l'impatto che si pensa potrebbe avere sulle successive produzioni sci-fi. Pur riconoscendo che il film del coreano Bon Joon-ho ha senza dubbio le carte in regola per diventare un capostipite piuttosto fortunato non mi sento di sposare un giudizio così entusiastico. Il film mi è piaciuto, senza dubbio ma non sono del tutto d'accordo coni  giudizi così' sperticati di molti critici. Andando con ordine voglio premettere innanzitutto che il film non è piaciuto proprio a tutti e credo che, un po' come era stato per lo Stoker di Park Chan-wook, gli estimatori puristi o quasi del cinema del Sol Levante potrebbero senza dubbio storcere almeno un po' il naso. Questo perché senza dubbio l'elevatissimo budget per Snowpiercer, che lo ha qualificato come il film coreano più costoso mai realizzato, ha permesso di giocare molto di più su toni americaneggianti anche a livello figurativo e di narrazione, tradendo almeno in parte quel cinema di sensazione e atmosfera che l'Oriente ci ha sempre saputo regalare. Ciònondimeno credo che una serena presa di coscienza della natura di questo prodotto dovrebbe essere sufficiente a evitare che la sua bocciatura diventi uno sterile tentativo isolazionista.

Bong Joon-ho, regista famoso soprattutto per il suo The Host (2006), da non confondere con l'omonimo e più recente film ispirato dagli scritti dell'autrice di Twilight, mette in scena un mondo distopico dove l'azione dell'uomo diventa (come spesso accade) il motore di un inarrestabile meccanismo distruttivo. Nel 2031 i pochi sopravvissuti viaggiano su un treno, sorta di Arca dell'Alleanza, per tentare di preservare la propria specie. Il tentativo del giovane Curtis (Chris Evans, alias la Torcia Umana e Capitan America...!) sarà dunque quello di cambiare le cose, arrivando in testa al treno. Già il nome di Evans dovrebbe dare l'idea del cast stellare o quasi coinvolto nel film: al di là del Vendicatore, che interpreta un personaggio smaccatamente americano, quasi stalloniano e dunque incredibilmente fastidioso, segnaliamo almeno la buona prova di John Hurt, forse non sfruttato abbastanza e la fascinosa interpretazione di Tilda Swinton, vero e proprio fiore all'occhiello del film. Una serie di nomi importanti dunque, che impreziosisce il buon lavoro alla regia fatto dal coreano Joon-ho, coadiuvato proprio da quel Park Chan-wook che abbiamo già citato in precedenza.

Lo stile di Park si fa sentire chiaramente nella scelta dei colori e dello stile di regia. Il cromatismo grigio e pesante è senza dubbio il dato visivo più efficace dell'intero film, sopratutto considerando che esso viene progressivamente a trovarsi in compresenza con tinte diverse a mano a mano che si procede nella scalata al treno. Per il resto, per quanto Snowpiercer sia senza dubbio ben realizzato dal punto di vista tecnico, ci si sarebbe forse potuti aspettare qualcosa di più a livello di sperimentazione, ma è probabile che l'alto budget abbia portato anche ad alcune ingerenze da parte della produzione. Il risultato è dunque un oggetto decisamente concorrenziale e interessante, per quanto forse un po' troppo visivamente legato a stilemi americaneggianti. Anche la costruzione della trama e il ritmo della vicenda, che si dipana su poco più di due ore di durata, reggono abbastanza bene la prova, seppure con alcuni tempi morti che una limatura più attenta avrebbe senza dubbio potuto evitare. 

Per tutti questi motivi Snowpiercer è senza dubbio un film piacevole che vale la pena di guardare anche per la sua capacità di sposare, seppure non sempre in maniera efficace, due diverse modalità di utilizzo dell'immagine filmica. Dal mio punto di vista mi pare che il film di Bong Joon-ho non possa essere paragonato a quello di Scott o dei Wachowski, non essendo riuscito a dire in maniera pienamente convincente qualcosa di nuovo sul genere che indaga. E' pur vero che, fra i molti cloni che ci aspettano nel futuro, qualcosa di interessante potrebbe venir fuori, in mani esperte e forse (paradossalmente?) non americane.

VOTO: 7/10 

sabato 22 marzo 2014

La casa dalle finestre che ridono



La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati - Genere: thriller - Italia, 1976

Come spesso succede nello scrivere queste brevi recensioni che, mi rendo conto, spesso hanno più la fisionomia di appunti piuttosto sconnessi il cui scopo sarebbe quello di indirizzare la visione dei lettori, devo confessare la mia ignoranza. Ammetto infatti che non conosco bene Pupi Avati come regista e che, anzi, questo è il suo primo film che mi capita sottomano. Ciò nonostante devo dire che per quello che si legge in giro La casa dalle finestre che ridono mi aveva molto incuriosito; considerata da molti uno dei migliori film di Avati si presenta sin da subito come un classico giallo/thriller all'italiana, con la peculiare caratteristica di essere ambientato nella provincia ferrarese. Questo aspetto, che avrebbe senza dubbio potuto far sconfinare tutta la composizione nel ridicolo, è gestito da Avati in modo tanto convincente che alla fine la caratterizzazione padana risulta vincente, arrivando ad assurgere al rango di vero e proprio elemento qualificante del film. L'orgoglioso provincialismo dei personaggi non si riduce a una successione di situazioni macchiettistiche, ma anzi conferisce spessore e credibilità a una vicenda che, almeno per tutta la prima parte, appare giocata su temi meno sanguinolenti di quelli a cui un certo cinema del genere ci ha abiutato, soprattutto in Italia.

Così La casa dalle finestre che ridono si promette come un film più di sensazione, almeno per la buona prima metà della proiezione. I personaggi di Avati, non ridicoli ma fortemente caratterizzati in senso grottesco, rappresentano una sorta di eco ai Freaks di Brownings, seppure calati in un contesto robustamente italiano che, come dicevo, impreziosisce e rende caratteristico tutto il film. Nel complesso, soprattutto dal punto di vista visivo, c'è dunque ben poco da imputare al lavoro di Avati che procede con sicurezza attraverso inquadrature dai tagli insoliti ma fortemente espressivi che ben si sposano con il cromatismo un po' umido e palustre degli ambienti scelti. Purtuttavia sopratutto nella gestione della trama tutta la seconda parte del film appare piuttosto faticosa e carente, per quanto persistano alcuni sprazzi interessanti soprattutto nell'ultimissima sequenza. Questo a mio avviso deriva dal fatto che proprio nella parte caudale della pellicola Avati si lascia prendere dal desiderio del sangue, minando tutto il lavoro che aveva sviluppato precedentemente (improponibile, ad esempio, la versione "zombie" del pittore Buono Legnani; veramente una caduta di stile).

Complessivamente un film decisamente interessante, pieno di spunti stilistici e formali davvero meritevoli, purtroppo minato da alcuni errori piuttosto importanti di formulazione. Nonostante ciò mi pare si tratti di un titolo che andrebbe riscoperto e, azzardo, a sicuro discapito di certi lavori - molto meno riusciti - che godono di maggiore popolarità.

VOTO: 6/10 

venerdì 21 marzo 2014

47 Ronin



47 Ronin di Carl Rinsch - Genere: azione/fantasy - USA, 2013

 Che speranza di successo potrebbe mai avere un film ambientato in Giappone, che si presenta almeno apparentemente come estremamente compromesso con la cultura del Sol Levante e che è stato prodotto interamente negli Stati Uniti? Quanto può essere credibile un film che saccheggia senza pietà un immaginario condiviso denaturandolo attraverso il richiamo fuorviante a luoghi comuni abbastanza riconoscibili e che - in aggiunta - punta molta della sua comunicazione pubblicitaria su un personaggio (l'uomo tatuato che si vede anche in questa locandina), che in realtà è poco più di una comparsa? Evidentemente, molto poco. E così per la regia dell'anonimo Carl Rinsch (non ha neppure una pagina wikipedia...) arriva sui nostri schermi la trasposizione cinematografica della bellissima vicenda dei 47 Samurai senza padrone, vicenda abbastanza nota della storia giapponese (per chi non sa di cosa si stia parlando c'è, di nuovo su wikipedia, una pagina abbastanza precisa in merito). In sé la storia avrebbe potuto essere molto ben realizzata, se chi si è messo dietro la macchina da presa avesse almeno cercato di adottare uno sguardo sul mondo e sulle cose d'impronta nipponica. 

Sì, perché la grande difficoltà di questo film - e il motivo principe per cui è un mezzo fallimento - è la completa incapacità di Rinsch di abbandonare lo schema spettacolarizzante d'impronta americana e di fare almeno un tentativo nella direzione di un racconto più calzante rispetto alla sensibilità che si cerca di riprodurre. Al di là delle reminiscenze visive di alcuni topoi piuttosto comuni della cinematografia giapponese (potrebbe essere una mia impressione ma ho trovato diversi echi a Ran, capolavoro di Akira Kurosawa e addirittura ad alcuni elementi dell'animazione di Miyazaki). In realtà quindi Rinsch tenta di entrare all'interno del mondo che vuole mettere in scena ma lo fa male, soprattutto appoggiandosi a questi echi che fanno leva per l'appunto più sulla memoria visiva del pubblico che su un vero interesse di questo genere. Lo confermano anche la struttura narrativa, che sembra modellabile più sul videogame che sul film, e l'insistenza su elementi romantici e lacrimevoli della trama, tipicamente americani.

Se a questo aggiungiamo un comparto tecnico non certo indimenticabile per quanto dignitoso, il risultato finale è piuttosto noioso e in generale poco riuscito. Ed è un peccato, perché in mani esperte la storia dei quarantasette Ronin avrebbe senza dubbio potuto originare un film assolutamente degno e affascinante. 

VOTO: 4/10 

giovedì 20 marzo 2014

Nymphomaniac: Volume I



Nymphomaniac: Volume I di Lars von Trier - Genere: drammatico - Danimarca, Germania, Regno Unito, Belgio, 2013

E' più o meno impossibile dire quanto si sia parlato dell'ultima fatica di Lars von Trier negli ultimi mesi, da quando sono circolate le prime locandine che raffiguravano i diversi protagonisti del film in preda all'orgasmo. Due versioni diverse (di 240 e 330 minuti) per un film diviso in due parti a loro volta frazionate in episodi  o capitoli (scelta non nuova per il regista, che aveva già utilizzato questo artificio in Dogville, uno dei suoi indiscussi capolavori). Questa recensione prende in considerazione il primo volume della versione breve (essendo la versione lunga e non censurata ancora irreperibile, cosa che sarà vera almeno fino al tardo 2014, stando a quanto detto dagli incaricati). Come sempre nel caso di un film di Lars mi trovo in grande difficoltà: dai tempi di AntiChrist devo ammettere in tutta sincerità che i suoi film hanno sempre messo a dura prova le mie capacità ermeneutiche, facendole davvero esplodere nel caso del film appena citato. In senso generale mi pare che Nymphomaniac, per quanto sia senza dubbio un film profondo e connesso a più livelli a una serie di tematiche assai ampie e complesse, sia meno ermetico dei precedenti (penso anche a Melancholia) e, mi azzardo a dire, costituisca quasi una summa del percorso artistico compiuto sin'ora da Lars (cosa che mi sembra confermata anche dall'impianto monumentale dell'opera). 

Riguardo alla trama in questo come negli altri casi c'è veramente poco da dire, se non che lo spettatore segue, attraverso una sorta di "confessione" (ma il termine non è esatto), le vicende di una donna ninfomane (ancora una volta Charlotte Gainsbourg) che si racconta ad un anziano e gentile individuo con la passione per la pesca da lenza (cosa che, peraltro, consentirà una catena di affascinanti associazioni per tutta la durata del film). Dunque il sesso è senza dubbio la cifra caratteristica del film e non si tratta di un campo inedito per il regista: al di là della sequenza fin troppo esplicita di AntiChrist, riferimenti del genere erano presente anche nel meraviglioso Le onde del destino e nell'altrettanto bello Idioti. In tutto questo von Trier fu accusato spesso di misoginia e fino a tempi recenti pare non si fosse impegnato troppo a smarcarsi da queste voci. Ma nelle sue ultime opere e in particolare con questa è evidente come in realtà von Trier abbia un rapporto di amore/odio con la figura femminile, dal quale è morbosamente attratto eppure (pare) continuamente inquietato: sorta di madre fallica, la Gainsbourg oscilla qui continuamente fra la volontà predatoria (emblematica in tal senso la sequenza del "sei il primo che mi abbia mai fatto provare un orgasmo) e il completo e passivo abbandono (di cui ci parla, seppure in modo per nulla sciocco, il personaggio di Jerome, ben interpretato da Shia LaBeouf, protagonista del certo non imperdibile Transofmers). 

Tutto questo prende la forma di un gigantesco e fittissimo arazzo nel quale lo spettatore si trova avvinto suo malgrado, seguendo il racconto e i dialoghi con l'anziano Seligman. Il risultato è un pastiche di grande spessore nel quale il regista riesce a fondere con sapienza scene sessuali realistiche guardate quasi voyeuristicamente (ma aspetto la versione non censurata per cogliere le differenze e ragionarci sopra meglio), riflessioni erudite, citazioni letterarie e molto altro ancora. Anche stilisticamente il cambiamento è ben percepibile sia nel modo di gestire i brani filmici, sia per quanto riguarda fattori più evidenti come la scelta del b/n nel capitolo Delirium o l'utilizzo sciolto e libero di segni grafici che si inscrivono sull'immagine o la sostituiscono (vedi Dogville), senza dimenticare l'elegante citazione della cronofotografia verso la fine del film. 

Questa complessa strutturazione ci regala un film a mio avviso straordinario (ma l'errore è dietro l'angolo? Nel caso di questa recensione gli eventuali commenti saranno ancora più graditi), che come sempre sembra dire qualcosa che viene smentito progressivamente, senza che lo spettatore se ne accorga. E dunque cosa resta dopo due ore di proiezione che hanno saputo raccontare attraverso una vasta pluralità di registri le cose più diverse? Alla fine, avvinta nell'abbraccio di Jerome, la Gainsbourg dice "non riesco a sentire niente". Non c'è definizione più adatta - mi sembra - per un film del genere, che racconta il vuoto di un'esistenza ossessivamente in cerca di un senso (di un completamento, potremmo dire con un gioco di parole forse un po'infelice, di uno riempimento) che approda in un vicolo grigio e freddo, in maniera quasi incomprensibile (almeno finché non avremo per le mani il Volume II). Prima di concludere e di invitare ovviamente alla visione del film (qui più che mai raccomandata), una nota di merito va senza dubbio a Uma Thurman, che con il suo personaggio ci regala uno dei momenti migliori dell'intero film (e forse uno dei monologhi più belli degli ultimi anni?).

VOTO: 9/10 

martedì 18 marzo 2014

Cruising



Cruising di William Friedkin - Genere: thriller/drammatico - USA, Germania Ovest, 1980

E' indubbio che né William Friedkin né Al Pacino siano ricordati per il film Cruising. Mentre il primo è noto ai più solo come il regista del pur bellissimo L'Esorcista, Pacino è senza dubbio alla storia per interpretazioni ben più memorabili, come quelle de Il Padrino, Scarface o L'avvocato del Diavolo. Questo si giustifica almeno in parte se consideriamo il fatto che Cruising è stato per lungo tempo considerato un film di scarsa qualità in conseguenza delle critiche che si sono levate impietosamente contro di esso da parte della critica gay, cosa che ha senza dubbio influito anche sul suo scarso successo commerciale. Ci sono voluti più o meno dieci anni perché al lavoro di Friedkin venisse riconosciuto il giusto merito; intendiamoci: non si tratta certo di un capolavoro, ma Cruising è comunque un film ben fatto e che sta in piedi sulle sue gambe con forza. Le critiche sostanzialmente si sono appuntate sul fatto che il film presenterebbe una visione distorta della comunità gay e arriverebbe addirittura a proporre una poetica di stampo omofobico. 

Come spesso succede con gli attivisti di qualunque risma, mi sembra che in questo caso si siano persi di vista alcuni degli elementi necessari alla comprensione del prodotto, che sono peraltro consegnati al testo stesso. Sin da subito appare chiaro che la ricerca del nostro agente di polizia non sarà legata alla vita omosessuale mainstream ma lo porterà ad addentrarsi nei circoli sadomasochistici della città. Questo effettivamente gli permette di vedere con icastica evidenza un mondo fortemente connotato, ma non credo in maniera negativa. Friedkin mostra allo spettatore quanto può, censurando il proprio sguardo pur senza risparmiare nulla in fatto di sensazioni e sollecitazioni visive. Friedkin, a mio parere, non giudica. L'unica scena che poi potrebbe permettere di leggere Cruising in chiave omofobica ha a che vedere con l'omicidio del giovane Ted, che viene commesso verso la fine del film. Senza dubbio si tratta di una scena cardine per comprendere la psicologia del nostro protagonista, ma per quanto rappresenti una sorta di cliff-hanger, non mi pare che alla sua sola lettura si possa affidare un significato così netto e che per giunta coinvolga tutto il film.

Siamo dunque di fronte a un film ostracizzato, che addirittura ricevette tre nomination per i Razzle Awards (gli anti-Oscar, per capirci; ne ho parlato nella recensione di After Earth), a mio avviso del tutto immeritate. Ho già precisato che senza dubbio non siamo di fronte a un film indimenticabile, ma il talento registico di Friedkin è assolutamente fuori discussione, soprattutto se si considera la sua straordinaria modernità nel raccontare alcuni brani specifici del suo racconto, come l'effetto degli stupefacenti sul corpo e sulla percezione sensoriale dell'agente di polizia infiltrato ben interpretato da Al Pacino. Credo che tutto sommato si tratti di un film che vale la pena di riscoprire, quantomeno (come nel mio caso) per farsi un'idea diversa del lavoro cinematografico di Friedkin, associato sempre e solamente al suo indubbio capolavoro. Senza dubbio, questo è bene precisarlo, non è il film adatto per gente becera o che non è in grado di distinguere la rappresentazione dal giudizio morale. 

VOTO: 6/10 

lunedì 17 marzo 2014

Dallas Buyers Club



Dallas Buyers Club di Jean-Marc Valée - Genere: drammatico - USA, 2013

Uno dei film più discussi delle ultime settimane, vincitore di tre premi Oscar fra cui quello per il miglior attore, che ha visto Matthew McConaughey contrapposto a Leonardo di Caprio, con la vittoria del primo. Non so dire che a confronto con The Wolf of Wall Street l'assegnazione del premio abbia reso giustizia alle parti in causa, ma senza dubbio la straordinaria forza che promana da questo film (ultimo lavoro nella non sterminata filmografia del canadese Valée) poggia senza dubbio sulle spalle del duo McConaughey/Leto (lo stesso Jared Leto è stato insignito del premio come migliore attore non protagonista, cui si aggiunge quello al miglior trucco e acconciatura per completare il tris). Parlando di Gravity ho avuto modo di precisare come, secondo me, agli Oscar si cerchi sempre di premiare dei titoli che siano al tempo stesso smaccatamente hollywoodiani ma ben realizzati dal punto di vista formale. Anche Dallas Buyers Club risponde a questa esigenza, seppure in modo certamente diverso rispetto a quanto ha fatto Cuaròn. Il grande pregio del film di Vallée sta nella capacità di legare lo spettatore alla storia, avvincendolo attraverso un vincolo empatico che gioca da una parte sulla rievocazione dello spettro mai completamente abbattuto del virus HIV e dall'altra sulla conoscenza condivisa che quella raccontata è una storia vera. Questo vale per tutti ma, a maggior ragione, per la generazione che l'AIDS lo ha vissuto come un vero e proprio male collettivo, la generazione dei nostri genitori o dei nostri parenti un po' più giovani che hanno avuto modo di verificare come la diffusione della malattia appia portato (anche) a un decisivo cambiamento nella topografia dei corpi e della loro sessualità (a tal proposito sono sempre molto pregnanti le riflessioni che Judith Butler propone in molti suoi testi). 

Dunque abbiamo dispiegati tutti gli elementi di un efficace dramma hollywoodiano e, almeno in una certa misura, Dallas Buyers Club lo è; ad esempio è presente il tratto di critica all'establishment (in questo caso a quello delle case farmaceutiche) che costituisce uno dei leitmotiv più diffusi all'interno dell'industria cinematografica americana mainstream. Una vicenda forte ed empatica viene raccontata con immagini di grande qualità formale e coloristica, dove l'abbandono delle tinte forti annuncia e accompagna il manifestarsi della malattia nel corpo e nella vita dei protagonisti. Si è letto molto in giro (e a ragione), che tutto il film si regge sull'interpretazione dei due attori premiati con la statuetta d'oro. Senza dubbio; ma la più grande trovata del regista è stata sicuramente quella di inscrivere questa capacità di racconto all'interno dei loro corpi, nella loro materialità di individui. L'elemento straordinario allora non è tanto la loro interpretazione in sé, quanto più il realismo ai limiti dell'autenticità che i due sono riusciti a esprimere grazie a un lavoro sulla loro fisicità, di cui il dimagrimento innaturale è senza dubbio la più eloquente e tragica manifestazione.

Nel complesso Dallas Buyers Club è senza dubbio un film da Oscar, per i motivi che ho cercato di specificare più volte qui e altrove. Ben recitato e realizzato, sopratutto attraverso uno sfruttamento intelligente di alcune figure di montaggio meno narrative del solito, il lavoro di Vallée si lascia ricordare senza dubbio come uno dei migliori della passata stagione cinematografica.

VOTO: 9/10 

domenica 16 marzo 2014

#AngoloTrash: Atlantic Rim



Atlantic Rim di Jared Cohn - Genere: fantascienza/trash - USA, 2013

Una delle mie passioni sono da sempre i B-Movies, quei film brutti che vengono distribuiti magari solo in cassetta (oggi DVD/BlueRay) e che, fatti con un budget ridicolo cercano di cavalcare l'onda dei film di successo al botteghino. Molti li considerano giustamente dei prodotti di scarto ed è evidente che film come Atlantic Rim sono solo delle enormi trovate commerciali senza alcun fine estetico. Ma è innegabile che lavori come questo abbiano la capacità di intrattenere e divertire, per quanto siano densi di errori e orrori di varia natura. Quando uno decide di vedere un film come questo può scegliere di criticarlo punto per punto, facendo capire dove stanno tutti i motivi per cui non avrebbe mai dovuto essere girato, oppure può prenderlo così com'è e, spegnendo il cervello per i soliti novanta minuti, farsi quattro risate in barba a qualsiasi tentativo di critica cinematografica. Proprio per questa mia insana passione per i film brutti ho deciso di inaugurare la prima (e credo unica) rubrica del mio blog, #AngoloTrash, nella quale - a scadenza del tutto irregolare - farò una sorta di recensione di titoli come questo. Mi rendo conto che anche alcuni film già recensiti dovrebbero rientrare in questa categoria, ma non vale la pena di aggiungerli a posteriori. E' altrettanto evidente che la valutazione non potrà essere basata sulla bellezza del film e proprio per questo motivo aggiungerò in fondo un indicatore a stelline che spiegherò alla fine. 

Dunque quale film migliore per inaugurare questa rubrica che Atlantic Rim, squallidissimo capolavoro targato The Asylum che non è altro che un'imitazione malriuscita di Pacific Rim. Per chi non sapesse di cosa sto parlando quando mi riferisco allo studio The Asylum, sappia che si tratta di una notissima casa produttrice americana, specializzata in B (o Z?) Movies realizzati "ispirandosi liberamente" ai titoli di maggior successo in circolazione. Mi chiedo come facciano a non aver ancora chiuso i battenti, ma senza dubbio si tratta del riferimento imprescindibile per tutti gli amanti di film squallidi. Tutto il fascino malato del film si può vedere senza difficoltà in questa inquadratura che oserei definire esemplare.


La storia è molto semplice e evidentemente ricalcata su Pacific Rim: creature dal profondo attaccano il genere umano e si utilizzano dei robot per tentare di ucciderle. In teoria. Peccato che il film sia un vero e proprio disastro della computer grafica, nel quale le scene di azione sono rese con tecnologie che sembrano venute fuori dai videogiochi di quasi una decade fa. Anche nella costruzione dei robot non c'è nessun fascino e tanto i mecha quanto i loro piloti sembrano un incrocio inquietante e molto poco riuscito fra i Power Rangers e le Superchicche... Ammetto che per trattarsi di un Asylum, mi aspettavo anche di peggio, infatti il film raggiunge il suo apice (negativo, ovviamente) a livello di sceneggiatura e regia. Una vera e propria miniera d'oro per gli estimatori dei film trash: inquadrature sbagliate, ripetute più volte, incoerenze temporali e narrative, salti logici a profusione e molto altro ancora. Anche i tre protagonisti (i Power Rangers di cui sopra) sono qualcosa di impagabile: abbiamo il capo belloccio (ma neanche troppo), la sua donzella decerebrata che non serve praticamente a nulla e il ragazzo di colore con la coscienza combattuta (cliché!). Se tutto ciò non bastasse, aggiungete un militare che lancia attacchi nucleari più facilmente dei confetti a un matrimonio (è venuto fuori da Il Dottor Stranamore?!?!) e una ricercatrice che come sempre usa oggetti che nessuno si è mai sognato di testare.

Dunque la valutazione. Come dicevo è impossibile giudicare la qualità del prodotto da un punto di vista filmico. Quindi qui come nei prossimi casi mi limiterò a esprimere un'indicazione di massima sulla capacità di intrattenimento del film (che di solito indica quanto ti fa ridere...!). Nel caso di Atlantic Rim purtroppo mi pare che non si sia puntato abbastanza sulla parte più interessante (quella degli effettacci grafici) e quindi il tutto risulta un po' noioso. Un peccato!

VOTO: 

sabato 15 marzo 2014

Amen



Amen di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2011

Ho sempre ritenuto Kim Ki-duk uno dei registi più interessanti dell'attuale panorama cinematografico e chi segue questo blog lo sa fin troppo bene. Pure, temo che la mia stima per questo cineasta mi abbia condotto a valutare in maniera troppo ottimistica Pietà, film che gli valse il Leone d'Oro nel 2012, cui ha fatto seguito il mezzo insuccesso di Moebius. Penso che dovrei riconsiderare il giudizio dato a quel film, come a molti altri su queste pagine, ma non è la sede giusta per pensarci. Amen è un film minimale ed esteticamente molto difficile, che richiede un grandissimo sforzo allo spettatore. Gioverà ricordare che viene subito dopo Arirang, ultimo lavoro veramente valido di Kim secondo me, che entro una cornice nudamente documentaria mette in scena il disagio e la crisi creativa dell'autore. Se come credo ho bene interpretato Arirang, alla sua conclusione Kim si era dato due strade: smettere per sempre di fare film oppure tentare un nuovo inizio, ricominciare dal grado zero. E la risposta è proprio questo Amen.

Girato con uno stile impreciso, tremolante e spesso amatoriale, tutto il film è stato realizzato con una "troupe" di sole due persone: lo stesso Kim, che interpreta l'uomo misterioso che porta una maschera antigas e l'attrice Kim Ye-Na, vera e propria protagonista del film. Attraverso una struttura che richiama alla mente almeno un po' il Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, Kim mette in scena una non-storia fatta di casualità, di ricerca, di mancati incontri, di elementi insoluti. E' evidente che Amen apre a un'ampia gamma di speculazioni che vanno dal filosofico al matecinematografico e per me è questo secondo aspetto il più interessante. Senza dubbio l'anonima ragazza abbandonata all'aeroporto di Parigi, che poi comincerà un viaggio in Francia (con una capatina perfino a Venezia!) è uno dei molti alter-ego di Kim, come ne ritroviamo diversi nella sua cinematografia (così ho interpretato, ad esempio, anche il Tae-Suk di Ferro 3). Interessante, se tutto questo è vero, che questa volta il portavoce delle istanze registiche nel film sia una donna, non a caso incinta. 

La ragazza, che si reinventa per sopravvivere diventando una sorta di artista di strada, ci parla degli esordi di Kim, di quel mondo oscuro che è la sua vita prima dell'esordio alla regia. Non sarà allora un caso che l'ultimo gesto che la Nostra compie prima della conclusione del film sia quello di guardare in camera, "inquadrandoci" con le mani: è una chiara dichiarazione di intenti, il desiderio di tornare al cinema poi confermato tanto da Pietà quanto da Moebius. Il senso di questo Amen allora è davvero quello di un ritorno, di una ricerca ossessiva dell'arké cinematografica di Kim e lo stile ce lo conferma: niente di più diverso dalle eleganti inquadrature dei suoi capolavori, da quella capacità quasi pittorica di racconto che portava il campo sonoro quasi fuori dal film, creando spazi sospesi e di eterna suggestione. 

Quello che il regista sempre chiederci è allora uno sforzo, il tentativo difficile e complesso di dargli ancora fiducia, di entrare nel suo mondo e in questo suo nuovo inizio. E' appunto una sfida difficile, che personalmente non mi sembra vincente. Come Moebius, forse anche come Pietà (che a questo punto potrei non aver capito e letto nella maniera giusta), questo Amen è un film riuscito a metà, che si spinge probabilmente troppo oltre sul sentiero della semplificazione, senza garantire quell'empatia quasi commossa che ancora si poteva offrire in Arirang.

VOTO: 5/10 

giovedì 13 marzo 2014

Il Corvo



Il Corvo di Alex Proyas - Genere: thriller/horror - USA, 1994

Tratto da un fortunato fumetto underground, il film di Proyas è senza dubbio uno di quei titoli che, pur non possedendo delle indubbie qualità estetiche o tecniche, è penetrato fortemente all'interno dell'immaginario collettivo fino ad assumere un autentico valore cultuale. Per motivi diversi un discorso simile lo abbiamo fatto nel caso de I guerrieri della notte. Il Corvo è in effetti un film che ha avuto un grandissimo successo e, spiace un po' ammetterlo, forse almeno una parte di quest'ultimo deriva dalla tragica morte del povero Brandon Lee, ucciso per errore proprio durante le ultime riprese del film. Come l'Eric protagonista della pellicola anche Brandon è morto in modo del tutto inaspettato, come per conseguenza di una inarrestabile e generalizzata entropia. 

Riguardo al film, come dicevo, non c'è di per sé troppo da dire. Trovo che il lavoro del regista non sia del tutto negativo e per esempio da un punto di vista visivo riesca a rendere molto bene le atmosfere goticheggianti e degradate che fanno da sfondo al mortifero volo del corvo. Da questo punto di vista la caratterizzazione dei luoghi e degli ambienti è forse troppo fumettistica e quindi debitrice al testo di partenza, ma il salto di qualità avviene per fortuna nel caso dei personaggi: sia Eric che il suo principale antagonista interpretato da Michael Wincott sono raccontati molto bene anche se, soprattutto quest'ultimo, si riduce spesso a una sorta di parodia pseudo-filosofica di sé stesso. I difetti maggiori del film emergono però a mio avviso a livello di sceneggiatura, soprattutto nel caso di alcuni dialoghi che vedono protagonisti la giovane Sarah e il detective Albrecht (il personaggio forse più stereotipato dell'intero film). In questi casi emerge una ingenuità eccessiva a livello di resa drammatica, che stona completamente con alcuni punti ben più efficacemente costruiti e messi in bocca al cattivo/filosofo. 

Nel complesso mi sembra che il film intrattenga molto bene e senza dubbio gli va riconosciuto, quantomeno da un punto di vista storico, un ruolo senza dubbio importante a livello di cultura pop. Per quanto riguarda il lato più eminentemente cinematografico il lavoro di Proyas poteva riuscire senza dubbio meglio, anche se - bisogna dirlo - l'accompagnamento offerto dalla colonna sonora è davvero qualcosa di raro. 

VOTO: 5/10 

mercoledì 12 marzo 2014

Toy Story: Il mondo dei giocattoli



Toy Story: Il mondo dei giocattoli di John Lasseter - Genere: animazione - USA, 1995

Io non sono mai stato un grande amante della Disney; è vero che da piccolo ho consumato la videocassetta de Il Re Leone e ho imparato a memoria tutte le canzoni di Nightmare before Christmas ma non ho mai avuto la passione sfrenata che molti pure hanno per film come La Sirenetta, Pocahontas etc. Meno ancora per i film Pixar, di cui ho visto giusto Alla ricerca di Nemo e molto più recentemente Monsters University. Essendomi trovato più o meno costretto a vedere Toy Story, primo film Pixar e capostipite dei lungometraggi di animazione realizzati completamente in digitale, non ho potuto fare a meno di rimanerne piacevolmente colpito per almeno un paio di motivi fondamentali, che cercherò di sintetizzare qui sotto attorno alla definizione di postmoderno. Va da sé che il termine è inflazionatissimo a partire da quando ne ha parlato il buon Lyotard, ma mi sembra che per un'opera come quella di Lasseter non ci siano indicazioni migliori, che abbiano la capacità di metterne in risalto le caratteristiche precipue pur inserendole all'interno di un panorama più o meno riconoscibile. Ben più e ben prima di Matrix, Toy Story è un'opera profondamente connessa alla "condizione postmoderna".

La caratteristica principale dei film Pixar, che si vede molto bene già da questo primo lavoro (per quanto un po' incerto a livello di animazione) è la capacità di trattamento delle forme digitali. In tutti i film di questa casa produttrice si registra infatti un pregevole tentativo di rendere attoriali le performance dei corpi digitali sintetizzati al pc. I movimenti e le azioni dei giocattoli di Andy mimano senza difficoltà le caratteristiche di un'interpretazione filmica e anche a livello linguistico inquadrature, fotografia e montaggio cercano di emulare effetti di spiccata cinematograficità, riuscendoci quasi sempre in modo certo soddisfacente. Tutto questo si fonde con una colonna sonora che, nel caso dell'edizione italiana, ammetto candidamente di non aver gradito molto: a differenza degli altri film Disney classici mi sembra che anche a livello testuale siano piuttosto carenti. 

L'altro grande pregio del film è senza dubbio la sua capacità di connettersi a un tessuto di conoscenze condivise, citando (anche qui in maniera pienamente postmoderna) tutta una serie di altre pellicole ben sedimentate all'interno della memoria collettiva: Il Re Leone, Shining, Star Trek, Alien sono solo alcuni dei titoli che vengono inseriti nella fitta rete di riferimenti messa in scena da Lasster. E' vero che la citazione si risolve in un semplice gioco di individuazione, ma il tutto - data anche la natura del film - è comunque divertente e raggiunge il suo scopo. Tutto questo rende Toy Story un film ben riuscito nel suo intento, così come meritato è l'Oscar a Lasseter: un autentico premio speciale per la sua capacità registica nel primo film completamente digitale.

VOTO: 7.50/10 

lunedì 10 marzo 2014

Gravity























Gravity di Alfonso Cuaròn - Genere: fantascienza - USA, Regno Unito, 2013

Presentato alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia, il film di Cuaròn (già regista de Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) ha fatto incetta di premi all'ultima edizione degli Oscar. Prevedibilmente, vorrei aggiungere. Sì perché ora che ho potuto vederlo mi sembra che Gravity sia un'opera davvero degna dell'Academy. Mi spiego: è risaputo che questa cerimonia tende a premiare film mediamente commerciali e di successo e spesso non sanziona in modo adeguatamente positivo titoli che si impegnano maggiormente sulla ricerca espressiva (per quello, pare, ci sono già i Festival). Ebbene Gravity riesce a fondere perfettamente i due elementi, presentandosi come un campione d'incassi al botteghino che, al di là dell'apparenza smaccatamente spettacolare (il 3D e gli effetti speciali aiutano giocoforza da questo punto di vista), si lascia apprezzare anche per delle indubbie qualità tecniche. 

L'americanismo di Gravity lo si vede bene già dal cast: i protagonisti del film (meglio, gli unici due personaggi, visto che uno viene liquidato prima della conclusione del primo sontuoso piano-sequenza) sono Clooney e la Bullock, nomi di punta del cinema americano in particolare della scorsa decade. Entrambi interpretano in modo più o meno convincente (ho trovato migliore Clooney, lo ammetto; la Bullock per me era troppo, quasi kitsch) due personaggi estremamente tipizzati: l'uno l'astronauta eroico pronto a sacrificarsi per la buona riuscita della missione, l'altra la donna forte con alle spalle un passato difficile. Questo di solito è abbastanza per abbassare le aspettative di chi guarda un film, ma nel caso di Cuaròn (e qui acquista senso la mia affermazione di prima), questo canovaccio estremamente inflazionato viene condotto attraverso una capacità registica davvero fuori dal comune, che si sposa con una fotografia eccellente. Ho accennato prima al piano-sequenza: tutto il primo brano del film è condotto attraverso un'unica, lunghissima e movimentata inquadratura che ha davvero dell'incredibile: per più di quindici minuti Cuaròn disegna peripli vertiginosi sullo schermo, muovendosi circolarmente attorno ai suoi personaggi, come se anche la macchina da presa fosse libera dal peso della gravità. Una perizia tecnica del genere varrebbe da sola il prezzo del biglietto.

Ammetto che ci sono anche degli aspetti del film che non ho gradito molto e non a caso sono i più "americani". A parte alcuni momenti morti della sceneggiatura che erano evidentemente dei pezzi di transizione per le parti più spettacolari e coinvolgenti, non ho gradito molto l'epilogo lacrimevole che ha portato all'happy ending conclusivo. Ma in questo caso, per quanto non si tratti di elementi di secondo piano, la capacità registica riesce da sola a risollevare il film. Non che fare un film commerciale sia un male di per sé: ce ne sono di diversi molto belli. Se però non fosse stato per la maestosità delle inquadrature e della fotografia l'Oscar non sarebbe stato meritato. Invece, almeno per quanto riguarda gli elementi citati, il riconoscimento è davvero stato opportuno a mio avviso.

VOTO: 8.50/10 

Inferno



Inferno di Dario Argento - Genere: horror/thriller - Italia, USA, 1980

Chi mi conosce sa che non amo i film di Argento e che in linea di massima lo trovo un regista sopravvalutato. Ho apprezzato Profondo Rosso per la particolarità dello stile, l'intricata struttura drammatica e la bella interpretazione della Calamai, ma non amo la poetica di questo autore e il suo modo usuale di raccontare. Peraltro, anche al di là del mio gusto personale, è innegabile che già da Il Cartaio Argento abbia subito una inflessione involutiva veramente sconfortante, a tal punto che Dracula 3D è praticamente inguardabile. Tuttavia ho un ricordo abbastanza preciso di Suspiria, capostipite della Trilogia delle Tre Madri che si è conclusa solo in anni recenti con il tragico La Terza Madre, che non vale un soldo bucato. Inferno è il secondo episodio di questo ciclo ed ha l'indubbio merito di portare a chiarezza gran parte delle questioni che in Suspiria restano poco chiare (il che di per sé non è spiacevole, anzi Suspiria è probabilmente il film, dei tre, meglio riuscito e che ha più senso di esistere anche scorporato dal progetto triadico). 

La diegesi rispetta i classici canoni argentiani: morti misteriose che fanno capo ad una forza oscura (materiale o "fantastica", come nel caso in esame) verranno spiegate e risolte nel finale attraverso le indagini del/della protagonista, sempre caratterizzate da un forte elemento di casualità (non si capisce bene come si arriva allo scioglimento dell'enigma e questo di solito avviene in maniera indipendente dalle azioni indagatrici). Nel nostro caso questo sviluppo non certo originale soprattutto per chi conosce l'opera del regista, porta in primo piano tutta una serie di cliché narrativi fortemente standardizzati e - più ancora - mutuati senza troppa fantasia da un gusto gotico piuttosto fortunato nel cinema italiano. All'interno di scenografie anche ben fatte e dominate dal rosso quasi iridescente di molte superfici, vediamo dispiegarsi i luoghi classici di questo immaginario: il bosco paludoso e nebbioso, la caverna sotterranea, l'antro alchemico etc. La stessa figura della Strega, che qui viene a sovrapporsi a quella della Morte risponde a questo orizzonte di pensiero. 

Stilisticamente il film è anche interessante, fors'anche più di Suspiria, ma devo ammettere in tutta onestà che questa costante evocazione quasi favolistica dell'immaginario oscuro non mi piace assolutamente. In aggiunta questa scelta da' al film un andamento eccessivamente lento, denso di scene inutili e caricato di un'insistenza eccessiva su momenti che avrebbero potuto essere sbrogliati in maniera più celere, favorendo invece una maggiore attenzione al finale, liquidato in fretta e troppo repentinamente. L'impressione che se ne ricava è quella di un film eccessivamente lungo, che non ha le forze di reggere per tutto il tempo di visione e in certi tratti finisce seriamente col risultare noioso.

VOTO: 5/10 

domenica 9 marzo 2014

The Butterfly Room: La Stanza delle Farfalle



The Butterfly Room: La Stanza delle Farfalle di Gionata Zarantonello - Genere: thriller - Italia, USA, 2012

Gionata Zarantonello, multiforme talento del cinema italiano, vicentino classe 1979, è riuscito nella difficile impresa di realizzare con The Butterfly Room un thriller/horror competitivo ed efficace, peraltro potendo contare su un cast di tutto rispetto. Le attrici protagoniste del suo lavoro infatti hanno interpretato ruoli di primo piano in numerosi film horror che hanno fatto la storia del genere: Nightmare, Non aprite quella porta, Halloween: La notte delle streghe e addirittura Fuoco cammina con me dello straordinario David Lynch. Dunque il film zarantonelliano ha un po' il fascino polveroso (stavo per dire imbalsamato) dei grandi titoli del passato, dal cui stile immediato si discosta però decisamente. Abbandonando la formula slasher, evidentemente ormai inefficace, il regista si lancia in un'operazione dal sapore hitchcockiano che propone una vicenda fortemente implicata con un'analisi di tipo psicanalitico. 

Barbara Steele da' corpo a un personaggio straordinariamente vitale, che sta tutto nel suo volto rugoso e segnato dal tempo e dalla patologia. Così Ann diventa la quintessenza della madre fallica, figura onnipresente e totalizzante che diventa l'incubo della figlia e dei surrogati successivi che la stessa Ann tenterà di crearsi. E qui, in questa breve spiegazione, c'è tutta la vastità del cinema di Hitchcock da Psycho a La donna che visse due volte. Tutto questo è raccontato da Zarantonello con una grande capacità registica, che scioglie la narrazione entro una struttura di rimandi e reminiscenze che riflettono in pieno il processo psicologico implicato nello sviluppo della storia. In questo mondo di sole donne, dove gli uomini sembrano essere banditi quasi del tutto (la stessa Ann dirà che nessun uomo ha mai messo piede nella stanza delle farfalle!), la maternità diventa un incubo più che una scelta e le conseguenze si preannunciano subito rovinose. Così tutta la drammaticità del film è contenuta nella sequenza dei titoli, dove una vasca da bagno si trasforma in un lago di sangue, con un evidente richiamo alla metafora amniotica come culla della vita, rovesciata di segno grazie alla comparsa "virale" del flusso mestruale. 

Tutto sommato il lavoro di Zarantonello mi sembra meritevole e soprattutto, internazionale. Pur in presenza di alcuni difetti tecnici come un uso abbastanza scontato delle transizioni temporali che spesso si risolvono in evitabili scene riempitive, il film è senza dubbio interessante e piacevole per quanto non eccessivamente innovativo dal punto di vista della trama: tutta la vicenda che porta all'escalation finale era facilmente intuibile e peraltro appare mutuata dal non imperdibile The Phone

VOTO: 6.50/10 

sabato 8 marzo 2014

Shame



Shame di Steve McQueen - Genere: drammatico - Regno Unito, 2011

Steve McQueen, reduce dalla cerimonia degli Oscar che lo ha visto premiato con il suo 12 anni schiavo, ha senza dubbio una predilezione per Michael Fassbender, che ha impiegato - oltre che per il titolo vincitore di ben tre Academy - anche in  Hunger e nel qui presente Shame. Il film, apprezzato dalla critica e dal pubblico, affronta il tema innovativo della ninfomania maschile, presentandoci un protagonista ossessionato dai desideri del sesso o per meglio dire dalla necessità irrefrenabile di soddisfare quella che si configura sempre più come una esigenza patologica. Così nei colori plumbei di una città anonima in ferro e vetro (la trasparenza ha un ruolo fondamentale nella definizione dell'intreccio drammatico del film, così come l'idea del vedere/passare attraverso una soglia), quello che sembrerebbe un normale business man dell'economia dei flussi viene dipinto con attenzione ai dettagli dalla perizia registica di McQueen, che ce lo presenta nella sua debolezza e fragilità. 

All'interno di un'orchestrazione attentissima delle immagini, in cui predomina la perfezione formale più assoluta, il tentativo di Fassbender di conquistare una agognata normalità è destinato a rimanere insoddisfatto e l'intera vicenda assume delle movenze quasi tragiche nella ineluttabilità di un destino a cui non sembra possibile sfuggire anche sbarazzandosi di tutto ciò che lo rende concreto (in questo senso è esemplare la scena in cui Fassbender si sbarazza delle riviste erotiche, fatte scorrere vertiginosamente davanti agli occhi dello spettatore con un effetto da flick-book). Molti hanno ritenuto che, per le diverse scene di sesso presenti nella pellicola e per l'assenza di pudore del regista, che mostra senza censure i nudi dei personaggi, il film potesse essere collocato sotto la categoria erotica. Niente di più sbagliato, mi pare: non c'è nulla di erotico nella spasmodica ricerca del protagonista che addirittura nel finale del film si ritrova perso in un locale d'incontri gay, raffigurato con cromatismi quasi demoniaci. Dunque più che una spinta all'eros nelle inquadrature ben realizzate da McQueen, che assumono soprattutto in esterna tratti paradossalmente plumbei e cristallini, non c'è una spinta alla vita, ma come un costante desiderio di morte.

Il film nel complesso è tecnicamente molto buono e anche la narrazione regge bene anche grazie alla ottima interpretazione del protagonista. Personalmente avrei preferito che lo stile di regia fosse a tratti meno controllato, paradossalmente più impreciso; forse avrebbe reso meglio l'idea del precipitare degli eventi e della psiche del protagonista. Certo è anche vero che questa stessa politezza formale potrebbe essere in contrasto con l'andare della narrazione, ma non mi sembra questo il caso. Senza dubbio Shame è un titolo interessante e molto ben fatto. Le poche critiche che ho potuto muovergli sono più che altro relative al mio gusto personale, che può incidere soltanto in parte sulla definizione del valore di un prodotto come questo, nel quale peraltro è presente un finissimo lavoro sul suono che impreziosisce una tessitura già molto meritevole.

VOTO: 8/10 

giovedì 6 marzo 2014

Capitan Harlock



Capitan Harlock di Shinji Aramaki - Genere: animazione/fantascienza - Giappone, 2013

Capitan Harlock, anime tratto da un felice manga di Matsumoto, è stato senza dubbio uno dei prodotti che ha fatto epoca e ha segnato la generazione nata negli anni Ottanta. Personalmente non conosco bene il personaggio di Harlock, avendo solo qualche vago ricordo dei pochi episodi visti in tv, ma senza dubbio la pervasività di questa serie è stata tale da renderla uno dei marchi di fabbrica del Giappone per la generazione che lo ha seguito nel suo concreto sviluppo. Probabilmente l'effetto di Harlock è stato simile a quello che ha avuto Neon Genesis: Evangelion su di me. Paragone non casuale, perché entrambe le serie prendono in prestito gli stilemi e le movenze retoriche della fantascienza per raccontare storie incredibilmente attuali, che gettano una luce intelligente e inedita sul nostro presente. Alla faccia di chi sostiene che l'animazione sia un genere secondario. Il rilancio di Aramaki andava dunque incontro ad aspettative altissime, soprattutto da parte di chi la figura del pirata spaziale la conosce bene, certamente meglio di me. 

Quello che balza subito all'occhio guardando Capitan Harlock è la straordinaria perizia tecnica dispiegata dalla produzione, che ha stanziato un budget enorme (più di dieci milioni di dollari) per la realizzazione del progetto. Questo ha consentito di realizzare animazioni convincenti e credibili, oltre ad aver garantito una qualità assolutamente straordinaria alle scene di battaglia campale e una evocatività senza precedenti alle ambientazioni dettagliate e credibili. Tecnicamente dunque nulla da segnalare: in particolare per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi è possibile apprezzare la qualità della progettazione, in particolare per quanto riguarda le figure femminili.

Da un punto di vista narrativo le cose si fanno più complicate, forse anche troppo. Aramaki attinge ampiamente alla saga dei Nibelunghi per realizzare un film di circa due ore nel quale sullo sfondo di una diatriba familiare che ruota (come sempre) attorno alla Terra e alla sua immagine, si staglia la figura ombrosa di Harlock, caratterizzata bene nelle sue ambiguità e certamente molto affascinante. Si potrebbe obiettare che forse il Capitano non è il protagonista assoluto del film, ma personalmente ho abbastanza apprezzato questa caratteristica, considerando che una maggiore definizione dei suoi tratti avrebbe rischiato di far venir meno quell'apparenza spettrale che lo contraddistingue; credo che sarebbe stato un peccato ben più grave. A livello drammatico però la storia è molto involuta e a tratti piuttosto stentata, sopratutto per quel che riguarda alcuni elementi del rapporto fra i due fratelli, sui quali registro un'insistenza eccessiva, che anche visivamente si traduce in un debito maggiore nei confronti di altri titoli non solo cinematografici (penso a Guerre Stellari, L'Impero colpisce ancora e al videogioco Final Fantasy XII). 

Nel complesso il film è ben riuscito e intrattiene senza difficoltà, lasciandosi apprezzare anche da chi (come il sottoscritto) non era un fan di Harlock. Non si tratta certamente di un capolavoro, ma penso che per come viene condotto il cinema di questi tempi si possa sposare il commento di chi sosteneva che la sola resa dell'Arcadia (l'incrociatore di Harlock) valga il prezzo del biglietto.

VOTO: 6.50/10 

mercoledì 5 marzo 2014

The Woman in Black



The Woman in Black di James Watkins - Genere: thriller - Regno Unito, Canada, Svezia, 2011

Daniel Radcliffe, fortunato protagonista della serie cinematografica di Harry Potter, si è trovato nella scomoda situazione di aver creato un'aspettativa attoriale troppo definita nei suoi fan e in generale negli spettatori. Lo stesso vale, ad esempio, per Emma Watson, che abbiamo visto impegnata nel bel Noi siamo infiniti e nel non certo imperdibile The Bling Ring. Ma tornando al protagonista della saga, questo ha portato senza dubbio alla volontà di forgiarsi e provarsi interpretando ruoli molto diversi fra loro e non solo nel cinema. The Woman in Black è il primo film in cui Radcliffe veste i panni di un personaggio non partorito dalla penna della Rowlings e quindi ha il senso di un secondo debutto. Per non fare in modo che il resto della recensione si occupi solamente di questo aspetto (anche se senza dubbio il film ha attirato molto pubblico solo per vedere come se la sarebbe cavata l'attore), dirò subito che secondo me è andata bene: Radcliffe è riuscito a scucirsi di dosso il suo vestito e ha dato prova di qualche buona qualità. Questa non è ovviamente una promozione a priori del film, il quale anzi ha senza dubbio alcuni punti deboli.

Dal punto di vista visivo, però, il lavoro di Watkins è decisamente buono: anche grazie alla bellezza delle scenografie, che riescono a ricreare bene l'idea della campagna inglese dell'epoca, allo spettatore sembra veramente che i fatti abbiano una certa concretezza. Qualche riserva ce l'ho sull'abbigliamento, ma ammetto anche di non essere un esperto di storia del costume, perciò è un elemento che non ho intenzione di prendere in considerazione. Visivamente dunque il prodotto è interessante e la regia sfrutta bene le potenzialità offerte dall'ambiente attraverso inquadrature spesso ampie che esaltano il cromatismo dei luoghi, senza dubbio l'elemento vincente della pellicola.

Il grosso problema di The Woman in Black è secondo me a livello narrativo. Watkins parte da una sceneggiatura non originale che non conosco, perciò non posso valutare il suo lavoro in base alla fonte. In sé e per sé però la sceneggiatura è anche passabile per quanto non originale, ma la resa visiva e drammaturgica di questo intreccio lascia molto a desiderare. Per intenderci manca qui il motore principe di ogni film thriller/horror, cioè la paura. I meccanismi di gestione della suspence sono pressoché inesistenti, con il risultato che il film seppure non noioso finisce con il risultare poco "divertente" e prevedibile. Non che mi aspettassi grasse risate o gag divertenti, ma c'è un modo di intrattenere anche dei film horror (così come esiste per i film sci-fi o per i fantasy) e secondo me il film di Watkins trascura completamente questo aspetto.

Il risultato è quindi abbastanza deludente. Non che il film sia brutto o non meriti di essere visto in senso aprioristico; semplicemente è un prodotto abbastanza inutile e - dati alcuni elementi eminentemente visivi - penso che sia un gran peccato.

VOTO: 5/10 

lunedì 3 marzo 2014

Brazil


Brazil di Terry Gilliam - Genere: drammatico/grottesco - Regno Unito, 1985

Terry Gilliam, membro dei Monty Phyton, realizza nel 1985 uno dei miglior film di fantascienza della storia del cinema, secondo alcuni il migliore in assoluto. Non saprei dire se questa affermazione è troppo entusiastica o no, ma sta di fatto che Brazil è veramente un film interessante e originale. Personalissima rivisitazione del capolavoro orwelliano 1984, il mondo che Gilliam mette in scena appare la tragicomica attualizzazione del mondo del Grande Fratello. In una città lacerata dal terrorismo ma in cui non v'è traccia di rovine, il mondo appare dominato dall'esigenza irrefrenabile della burocrazia, dei moduli da riempire, dei timbri e delle procedure tanto lunghe quanto complesse e inutili. Con la sagacia e la pungente ironia che contraddistingue anche i surreali cartoni dei Pyhton, il regista ci racconta il tentativo progressivamente più efficace di un impiegato come tanti altri, perso nei cunicoli labirintici di un archivio, che si sottrae alla routinarietà asfissiante delle sue mansioni in un sogno, dove si figura come un angelo tecnologico in grado di volare al di sopra delle scartoffie e anche di coltivare un sogno d'amore. Scoprirà con piacere che il suo sogno è a portata di mano, ma comporta delle conseguenze non certo secondarie, nella società opprimente di Brazil

Da un punto di vista visivo siamo di fronte a un lavoro di bricolage assolutamente pregevole: Gilliam costruisce un mondo vibrante, vivo e brulicante nella sua eterogenea acefalia a partire dagli spunti più interessanti di tutta un'altra serie di testi, di cui Metropolis e Blade Runner non sono che la punta emergente. L'idea di quanto certosino e geniale sia il lavoro che Gilliam fa sulle citazioni si può avere considerando il fatto che nella parte finale del lungo film il regista riesce addirittura a mimare la celeberrima sequenza della scalinata di Odessa, da La Corazzata Potemkin di Ejzenstejn. Altro riferimento erudito che vale certamente la pena di ricordare ha a che fare con l'architettura della sala delle torture nel Ministero dell'Informazione, che rende visibile il celeberrimo meccanismo pan-ottico teorizzato da Michel Foucault nelle pagine di Sorvegliare e punire

Gilliam ci regala un mondo attualissimo che, al di là delle punte di science fiction, ha degli evidenti e drammatici rimandi alla nostra condizione attuale. A differenza di quanto accade nel romanzo di Orwell e nella sua discreta trasposizione cinematografica, il bilancio complessivo di Brazil, per quanto l'ultima scena dica esplicitamente il contrario, non è per me completamente negativo. Certo, il finale riprende in maniera piuttosto palese quello orwelliano, frantumando le aspettative dello spettatore sull'happy ending. Ma la genialità di Gilliam sta forse soprattutto nell'aver saputo mixare con sapienza e intelligenza la linea distopica e quella grottesco/comica, ponendo un'attenzione particolare ed attualissima sul tema del corpo e delle sue modificazioni. Sorrentino ha vinto ieri l'Oscar per La Grande Bellezza, film meritevolissimo in cui c'è una scena che mette a tema proprio la chirurgia estetica. Ebbene, con uno stile diverso e personalissimo, Gilliam quasi vent'anni fa, raggiungeva un risultato forse anche di maggior impatto.

VOTO: 8.50/10 

Prank



Prank di Yiuwing Lam - Genere: thriller - USA, 2013

Yiuwing Lam, anonimo regista al suo primo lungometraggio (IMDB lo accredita come autore di altri tre corti e gli accredita anche qualche performance attoriale nel corso degli ultimi dieci anni circa), realizza con Prank l'ennesima variazione sul tema della vendetta e sulle sue conseguenze. In particolare in questo caso la vicenda va a colpire uno dei nodi scoperti della teen-culture americana, quella dell'emarginazione da liceo, vera e propria bestia nera del cinema e leitmotiv caratteristico anche di diverse produzioni televisive. Il film è molto breve, durando poco più di ottanta minuti, ma riesce nello straordinario compito di annoiare lo spettatore; a tal proposito è bene fare una specifica, che mutuo da una recensione vista tempo fa su youtube di un qualche film altrettanto poco interessante. Si diceva che un film è noioso quando lo spettatore non vede l'ora che la proiezione finisca; ebbene questo può accadere per due ragioni antitetiche: se non accade nulla o se al contrario succedono troppe cose che non riescono a ricombinarsi in una immagine unitaria conclusiva. E il caso di Prank è il secondo.

Utilizzando uno stile in presa diretta Lam compone la sua vicenda attraverso una serie di brevi riprese effettuate con una videocamera amatoriale. La conseguenza diretta di questa scelta è da una parte la continua interruzione della linearità narrativa e l'emersione di intervalli a schermo nero e, dall'altra, la presenza - nel tessuto dell'immagine - di riverberi e disturbi tipici di questo genere di filmati. Ora, su questo tipo di scelte si potrebbe costruire una interessante e coerente estetica, ma l'impressione che si ricava da Prank è solo quella di una volontà (un po' egocentrica?) di mostrare con insistenza stilemi in cui lo stesso regista sembra non credere. Al di là di tutto, infatti, le immagini del film sono girate con una certa pulizia, che mal si sposa con il preteso realismo delle riprese amatoriali. La scelta di regia qui presente ha finito col rivoltarsi contro chi l'aveva pensata, visto che non è stata seguita con coscienza in tutte le sue profonde implicazioni. 

Anche la trama si vorrebbe complessa e sorprendente, ma da un punto di vista ritmico il tutto si risolve in un iniziale senso di stupore che si traduce molto (troppo) presto in prevedibilità e scontatezza, che esplodono nella sequenza finale in cui tutte le previsioni dello spettatore trovano puntuale conferma. Nel complesso Prank non è un film da bocciare completamente di per sé, ma senza dubbio si tratta di un prodotto incredibilmente anonimo, che non si lascia ricordare per nulla in particolare e - addirittura - avrebbe potuto esserci risparmiato senza alcuna perdita. 

VOTO: 4.50/10 

domenica 2 marzo 2014

After Earth



After Earth di M. Night Shymalan - Genere: fantascienza - USA, 2013

Sembra che dopo La ricerca della felicità Will Smith abbia deciso di lanciare nello show business anche il figlio Jaden. Peccato che questo After Earth sia stato un fiasco completo, guadagnandosi una sfilza di Razzle Awards (Peggior attore protagonista, Peggior attore non protagonista, Peggior coppia), più una serie di nomination in quella stessa gara degli orrori. Effettivamente, per una volta, critica e pubblico sono stati d'accordo nello stroncare senza appello un film pretenzioso e insipido, mal diretto da Shymalan, regista non certo di punta, ma capace almeno di una prova interessante con il notissimo Il sesto senso. C'è veramente da chiedersi, dopo aver visto i circa cento minuti di film, se questo non film non fosse stato pensato e realizzato apposta per dare un'occasione di protagonismo a Jaden Smith, pupillo del padre ma che evidentemente del suo illustre genitore non ha le capacità recitative, come si vede bene qui. Anche Smith senior, bisogna riconoscerlo, da una pessima prova di sé, confezionando un personaggio banale e senza personalità. A condire il tutto, peggiorando il risultato complessivo, è il doppiaggio italiano che nel caso di Jaden regala al personaggio una voce talmente fastidiosa da arrivare subito a noia. 

Al di là di una trama per nulla innovativa (cosa che si potrebbe facilmente accettare e che non sorprende neanche troppo nel caso di un film sci-fi come questo), la cosa più sconcertante dell'intero film è senza dubbio la gestione delle componenti digitali, talmente finzionali da far cadere qualsiasi presunta sospensione volontaria dell'incredulità. Meglio non spendere ulteriori parole sulle interpretazioni dei protagonisti, considerando che si tratta di due personaggi piatti, banali e prevedibili che senza alcuna fantasia da parte del regista reiterano continuamente gli stereotipi classici del cinema americano più becero e commerciale. La sensazione che si prova guardando After Earth non è quella di un prodotto con buone potenzialità sprecato dalla incompetenza di un regista, quanto quella di un film inutile voluto da un padre megalomane per il proprio figlio prodigio. C'è solo da sperare che dopo il fallimento assoluto di questa prova il figlio di Smith si prenda un periodo di congedo dallo schermo, se questo deve essere il livello delle sue performance.

Per una volta, un film che non vale davvero la pena di guardare; l'espressione non mi piace perché di solito anche nei peggiori lavori è possibile trovare qualche elemento divertente, che se non ti tiene incollato allo schermo, almeno ti fa fare una risata per la sua ingenuità. Niente di tutto questo qui. Decisamente da evitare.

VOTO: 3/10