giovedì 14 novembre 2013

Dillinger è morto

























Dillinger è morto di Marco Ferreri - Genere: drammatico - Italia, 1969
 
Adriano Aprà lo ha definito efficacemente il film della mia generazione ed in effetti il Dillinger di Marco Ferreri è senza dubbio una pietra miliare del cinema italiano e non solo. Accolto con entusiasmo dai Cahier e sistematicamente ostracizzato dalla grande distribuzione/trasmissione (rarissime volte è stato proposto in televisione) il lavoro di Ferreri è l'epitome di un nuovo modo di fare cinema, che sovverte nelle sue strutture fondamentali tutta la produzione precedente. In questo profondo rinnovamento delle strutture narrative e stilistiche della cinematografia pre-esistente l'opera di Ferreri viene spesso accostata, anche per alcune vicinanze di pensiero, a quella di Pasolini, forse non completamente a torto.
 
Dillinger è un film che sembrerebbe essere frutto del caso, come se la macchina da presa del regista si fosse trovata per errore a seguire il peregrinare notturno di un anonimo ingegnere industriale splendidamente interpretato da Michel Piccoli. Così la lunga attenzione che viene riservata alla preparazione della cena, oltre a prefigurare un interesse per il cibo che si connette puntualmente alla tematica della morte e dell'eros (cosa che sarà quantomai evidente ne La grande abbuffata), è rappresentata con una tale attenzione al dettaglio non funzionale che finisce con il risultare volutamente noiosa. Dopotutto, a chi interessa vedere la vita casalinga di una persona come le altre? Basta quest'idea di base a far tremare dalle fondamenta quel cinema dell'eroismo e dello spettacolo su cui Hollywood aveva costruito la sua retorica.
 
Così Dillinger è morto è un film che fa della manchevolezza narrativa il proprio cavallo di battaglia, tanto che la cosiddetta trama potrebbe essere riassunta in uno spazio minimo senza alcuna perdita dal punto di vista dell'intelleggibilità dell'immagine. Anche il linguaggio utilizzato è semplice, come se il regista volesse creare un'uniformità fra il suo film e quei video amatoriali che il protagonista guarda seduto in poltrona, mentre conclude la sua vera ricetta, che non consiste nella preparazione della cena ma nel "restauro" di una vecchia pistola, trovata avvolta in una pagina di giornale che recava notizia della morte proprio di John Dillinger (da qui il senso del titolo).
 
E' proprio nel rapporto con le immagini proiettate (e quindi, da un punto di vista meta-artistico, con il cinema), che il protagonista perde sé stesso, rendendosi conto di quale sia la sua condizione e decidendo di perdersi per sempre in quel mare di rappresentazioni illusorie. Per cercare di sfuggire alla vacuità routinaria della sua esistenza (da una nausea di sapore sartriano) alfine, in un ultimo quanto amaro slancio vitalistico, ucciderà la moglie, vista come concrezione materiale di quell'opprimente condizione. Ma dopo che il Nostro, imbarcatosi su una nave come cuoco, vede il cielo tingersi di rosso, lo svelamento della finzionalità dell'immagine rende lo spettatore consapevole che non c'è scampo all'umana condizione.
 
Dillinger è quindi un capolavoro di drammaticità, che sperimenta nuovi stilemi del linguaggio cinematografico entro una cornice narrativa quantomai debole, tratteggiando un tipo umano dai toni quasi sveviani, ripreso seppure in forma fortemente mutata, da altri personaggi coevi o successivi. Che cos'è il Fantozzi del 1975, se non una versione amaramente comica e forse più disillusa dell'individuo disegnato da Ferreri?
 
VOTO: 10/10 

martedì 12 novembre 2013

Alta Tensione


Alta Tensione di Alexandre Aja - Genere: horror - Francia, 2003

Considerando che High Tension era stato classificato da un noto sito di cultura contemporanea come uno dei cinquanta film più disturbanti della storia del cinema, devo ammettere che le mie aspettative erano piuttosto alte. In realtà il lavoro di Alexandre Aja, che ha firmato dopo questo film anche il remake de Le colline hanno gli occhi e il discutibilissimo Piranha 3D, a parte per alcuni aspetti che lo salvano almeno parzialmente, si rivela sin da subito piuttosto deludente. In effetti è possibile scorgere nella struttura della narrazione e nello stile di messa in scena dei dettagli che richiamano da una parte le atmosfere sporche e terrose tipiche di un certo slasher americano perfettamente rappresentato dal remake firmato da Nispel (e uscito proprio nel 2003) di Non aprite quella porta e dall'altra, soprattutto per un certo uso della fotografia e del colore, alcune ben più riuscite pellicole francesi come Martyrs di Pascal Laugier e A l'intèrieur di Bustillo e Maruy.

Se però i due film citati avevano degli indubbi meriti tecnici che sembrano per certi aspetti poter far parlare dell'emersione di un nuovo stile di genere nell'alveo del cinema francese, la presenza di elementi americaneggianti nella pellicola di Aja rende il procedere di Alta Tensione una semplice e prevedibile ripetizione di un canovaccio ormai trito e ritrito. E' pur vero che ci sono alcune modifiche attinte da altri titoli del genere che complessificano almeno in parte la semplicità del prodotto standard del genere, ma la scarsa innovazione che il regista propone nel mixare insieme questi elementi non può passare inosservata. Anche il finale a sorpresa, con ribaltamento percettivo e chiari risvolti psicanalitici è ben lontano dallo riuscire a convincere lo spettatore e, anzi, non fa altro che rivelare dei nodi scoperti all'interno dell'edificio filmico di Aja. 

Forse la volontà di strafare, cercando a tutti i costi di proporre un film che fosse in qualche modo innovativo ha spinto il regista troppo in là. A questo punto sarebbe stato preferibile un lavoro di puro intrattenimento che, pur senza eccellere nel suo genere, avrebbe soddisfatto senza dubbio l'obiettivo minimo di divertire lo spettatore disimpegnato. Il rischio di prendersi troppo sul serio finisce spesso, come succede in questo caso, colo portare a un lavoro approssimativo e di mediocre fattura, che si salva solamente da un punto di vista visivo per l'ottima scelta dei colori e di alcune inquadrature, elementi che mi hanno reso ancora più convinto delle buone possibilità (tutte potenziali) di questo lavoro (si veda ad esempio il modo in cui Aja rappresenta i corpi dei personaggi principali che, ancor prima di esse uccisi, sono avvolti da una luce mortifera che sembra farne prevedere il destino).

VOTO: 4.50/10 

domenica 10 novembre 2013

Kids



Kids di Larry Clark - Genere: drammatico - USA, 1995

Gli anni Novanta sono stati caratterizzati per larga parte da una nevrosi collettiva derivante dallo spauracchio dell'AIDS, come testimoniano egregiamente i numerosi documenti visuali e non solo dell'epoca. Entro questa cornice di riferimento sono letteralmente fioriti, anche sull'onda delle tematiche postmoderniste e poststrutturaliste, dei gender studies e di molti altri importanti filoni di ricerca, tutta una serie di realizzazioni artistiche che mettono al centro della loro indagine l'adolescenza come momento di passaggio e metamorfosi fisica e psicologica. Altri, come Gus van Sant, hanno cominciato ad indagare la figura dell'adolescente come un'entità non determinata, aperta alle possibilità della scrittura storica ma spesso condannata a non poter passare dalla potenza all'atto a causa di un destino incombente che l'occhio registico si limita a testimoniare. 

Kids, in concorso al 48° Festival di Cannes, fonde perfettamente queste linee di ricerca in un'opera visivamente violenta ma grandemente oggettiva, pur nei limiti concessi dal discorso filmico di stampo narrativo. Il regista Larry Clark, fotografo di professione, regala alle sue immagini un'aria solida e persistente; lo stile spesso impreciso e comunque ben lontano da una retorica della perfetta trasparenza rende la regia più simile a una documentazione che a una finzione: è come se lo spettatore si ritrovasse invischiato nel sottobosco sporco e brulicante della metropoli americana anni Novanta, all'interno della subcultura giovanile così spesso ritratta in maniera stereotipata dal medium televisivo. La ricerca visiva di Clark si sposa quindi in maniera perfetta con lo stile lirico di van Sant (produttore della pellicola) e trova un terreno fertile nella sceneggiatura scritta da Harmony Korine (di cui non si può non ricordare il ben più violento Gummo, primo lungometraggio del regista datato 1997, che sicuramente ha tratto un'ispirazione esasperata da questo lavoro di Clark). 

Il mondo di Kids è straniante, defamiliarizzante. L'immagine dei corpi dei protagonisti ci sconvolge anche oggi, a quasi dieci anni di distanza, in una società fortemente cambiata, perché quegli organismi oggettivamente sessuati (Clark disegna, seppure in maniera molto scolastica e autocensurata, scene di sesso abbastanza realistiche) appaiono non strutturalmente pronti all'atto che nonostante tutto stanno compiendo. Il fisico di Telly è asciutto, innaturalmente allungato, probabilmente frutto di una crescita non regolare e sembra che ad ogni movimento dell'atto di penetrazione la sua schiena si possa spezzare. 

Ma il grande lascito di Kids, proprio a partire dalla lezione vansantiana, è l'idea di una oscura causalità casuale che agisce a discapito delle intenzioni e dei progetti dei protagonisti. Così, quando Telly afferma di non poter vivere senza pensare e fare sesso, lo spettatore percepisce la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte a un defunto perché - a quel punto della storia - sa già quale sarà il suo destino e quello della ragazza che - inconsapevolmente e presumibilmente - ha appena infettato. In definitiva Kids racconta una dialettica interessante e vera fra il sesso visto come una ludica attività senza conseguente e il terrore giustificato ma almeno parzialmente condizionato dal discorso mediatico per l'AIDS, entro una prospettiva fortemente condizionata dall'epoca di realizzazione.

VOTO: 6.50/10 

giovedì 7 novembre 2013

Halloween: The Beginning



Halloween: The Beginning di Rob Zombie - Genere: horror - USA, 2007

Il remake è una strategia di rilancio ampiamente utilizzata all'interno del cinema di genere, soprattutto horror. Volendo tracciare un panorama generale che racchiuda gli ultimi 10-20 anni di cinema, potremmo facilmente trovare un minimo comune denominatore proprio nel ricorso continuo a questa forma di riscrittura che si è consolidata in forme ampiamente codificate insieme al remake. Eppure il film di Rob Zombie, pur all'interno di un panorama definito in maniera fin troppo archetipica, si ritaglia un proprio spazio di originalità e fa in modo che la sua produzione si distanzi dalla maggior parte di queste lavorazioni. 

Se dovessimo trovare un termine adatto a definire Halloween: The Beginning potremmo probabilmente parlare di antologia. Infatti Zombie confeziona un'opera che ha lo scopo primario di riabilitare l'immagine di Michael Mayers dopo le performance piuttosto scadenti degli episodi precedenti della saga (parliamo in particolare di Halloween: 20 anni dopo e Halloween: La Resurrezione), regalandoci un film che attinge a singoli episodi o movenze archetipiche dai film precedenti. Questo significa che Zombie, pur mantenendosi all'interno di uno stile pop e fortemente truculento, regala al pubblico un'opera in qualche misura innovativa che - almeno per questo motivo - merita senza dubbio un qualche tipo di riconoscimento. 

Fatta questa doverosa premessa dobbiamo però riconoscere che il film di Zombie è decisamente al di sotto di qualsiasi aspettativa, anche accantonando il fatto che non si tratta di un remake fede dell'opera (geniale per l'epoca) di Carpenter. La cosa è particolarmente evidente se si considera la sequenza iniziale, quella con il celeberrimo omicidio multiplo dei suo familiari da parte di Micahel Mayers. Anche se il regista decide saggiamente di non confrontarsi con l'immagine carpentierana per eccellenza (cioè la lunga soggettiva di Michael mascherato), tutta la sequenza - dilatata oltre il limite massimo di sopportazione - è infarcita di una retorica di buoni sentimenti e ambisce a una descrizione psicologica stereotipata che Carpenter aveva cassato in toto ed era riuscito a compendiare in poche semplici inquadrature.  

Il lacrimevole racconto del rapporto fra Michel e la madre fa parte di un registro altro, che non solo sembra del tutto alieno al personaggio che il regista vorrebbe riedificare (Mayers è il personaggio del silenzio per eccellenza), ma pare non essere in linea neanche con lo stile dello stesso Zombie, che in un film molto più riuscito come Le Streghe di Salem non indulge mai in questi sentimentalismi. Per il resto siamo di fronte a uno stile piuttosto accademico che utilizza il noto accompagnamento musicale del film in maniera assai prevedibile, così come accade per la fotografia (salvata solo dai colori a tratti interessanti) e per il montaggio. Fra i personaggi assume un'inedita rilevanza il Dr. Loomis, antagonista di Michael per eccellenza, ben interpretato da Malcom Mc Dowell.

Nel complesso si tratta di un'opera idealmente molto interessante per la sua inedita modalità di rapporto con il materiale filmico di base, ma che scade in una serie di errori concettuali e formali che ne minano profondamente la potenziale qualità. Su questo film ho letto numerose critiche di qualsiasi genere, dalle più negative a quelle accecate da una passione per il genere che impedisce una serena valutazione delle immagini. A mio giudizio rimane un film che, seppure con qualche trovata gradevole - in linea con lo stile sporco e disturbante di Zombie (che, comunque, rimane un musicista prima che un cineasta) -, finisce col prendersi troppo sul serio, a fronte di una natura eminentemente ludica. 

VOTO: 4.50/10 

mercoledì 6 novembre 2013

Zelig



Zelig di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1983

Zelig è un film che potrebbe apparire esteriormente atipico all'interno della prima produzione alleniana, essendo un film di completa finzione che decide di vestire i panni del documentario. L'intera vicenda raccontata nella pellicola il cui nome ha avuto una fortuna particolarmente pronunciata proprio in Italia, è completamente frutto d'invenzione ma, nonostante questo, il modo in cui è stata girata e la sottile preziosità dell'intarsio strutturale, la rende credibilmente simile a un documentario sugli anni Trenta in America. All'interno di questa cornice oggettivante che si incarna in uno sguardo distaccato privilegiante (falsi) materiali di repertorio, interviste e inserti successivi, trova spazio una classica storia alleniana, che in questo caso viene proposta allo spettatore in una forma in sé conclusa e successiva allo svolgersi dei fatti. In qualche modo Zelig ricostruisce la storia del suo omonimo protagonista come Welles aveva fatto in Quarto potere, ma lo fa in un modo evidentemente più vicino alla sensibilità medializzata degli anni Ottanta.

Utilizzando un'apparecchiatura di ripresa d'epoca (risalente all'incirca agli anni Venti), Allen infonde nelle sue immagini quello spirito discontinuo, impreciso e a tratti tremolante che le produzioni cinematografiche avevano davvero all'epoca. Pur travestendo (in maniera signifcativamente camaleontica, visto che l'intero film è basato sul meccanismo della metamorfosi) da documento reale, il film esaspera fino al parossismo quella sensazione di incredulità che un certo cinema ha sempre cercato di evitare; possiamo certamente apprestarci a vedere un film d'intrattenimento consci e consapevoli della sua natura finzionale, ma Zelig pur ricordandocelo, finisce con l'impedircelo. La patina di realtà imbastita da Allen è da una parte formalmente credibile ma dall'altra gli elementi di comicità la minano dall'interno, facendo saltare (dialetticamente) la sospensione dell'incredulità nello spettatore.

Lo sviluppo di questo docu-film procede quindi per accumulo (seppure all'interno di una linea narrativa che privilegia il racconto cronachistico/cronologico della vita di Zelig) di materiali eterogenei, tanto che ad un certo punto Allen arriva a fingere l'esistenza di un film dedicato al suo personaggio, che sarebbe stato girato nel giro di anni immediatamente successivo agli eventi, in pieno stile classico con tanto di eroi e spauracchio nazista. Il tutto viene finemente impreziosito dalla presenza di illustri studiosi della contemporaneità, come Susan Sontag, che si sono prestati a ricostruire in maniera del tutto fittizia un edificio speculativo sulla vita mai avvenuta di Zelig, a sottolineare ancora una volta come questo personaggio profondamente alleniano sia prima di tutto profondamente umano.

VOTO: 7.50/10 

martedì 5 novembre 2013

In the woods



In the woods di Angelos Frantzis - Genere: drammatico - Grecia, 2010

Esistono in qualsiasi campo della creazione artistica dei prodotti che non sono tanto interessanti per quello che dicono, ma per il modo in cui si propongono. Nel caso del cinema questo è particolarmente vero e non è difficile rintracciare, soprattutto in alcuni periodi storici, delle lavorazioni sperimentali - spesso condotte da grandi artisti (basti pensare a Marcel Duchamp o Andy Warhol, per citare due mostri sacri dell'arte contemporanea) - che si lasciano ricordare per il discorso sul linguaggio che propongono al pubblico. Al riguardo è bene sottolineare due problematicità: da una parte il pubblico d'elezione di queste fatiche più o meno riuscite è troppo spesso di nicchia e dall'altra è sempre più difficile trovare questa tipologia di prodotti, anche ricorrendo a mezzi di ricerca potenti come quelli offerti dalla rete.

In the woods è un "film" che si inserisce proprio all'interno di questo filone, proponendoci una sinfonia di immagini dal sapore impressionista che è caratterizzata da uno stile lirico ed evocativo nel quale la parte del leone la fa senza dubbio il paesaggio. I tre protagonisti risultano come risucchiati da un ambiente incontaminato e dalla memoria quasi edenica che ne risucchia le azioni; spesso le inquadrature presentano i personaggi fuori fuoco, proprio a vantaggio della rappresentazione di una rigogliosa ambientazione boschivo-vegetale, quasi come se quest'ultima divenisse a sua volta un personaggio, ritagliandosi prepotentemente il proprio spazio visivo. 

In generale In the woods è un lavoro atipico anche se non senza precedenti (in particolare sembra ricollegarsi per molti versi al più volte citato ma comunque splendido Gerry, del quale però non mutua le tinte apocalittiche e il paesaggismo desertificato), che evidenzia in maniera chiara le implicazioni di una scelta estetica spinta fino al parossismo. I dialoghi sono ridotti al minimo, le interazioni fra i personaggi sono spesso vuote e molto più frequentemente avvengono per tramite gestuale o visivo. Frantzis abbandona completamente la ricerca della narrazione a favore di una forma quasi antologica, che si costruisce affastellando aneddoti apparentemente irrelati, separati a volte da dei veri e propri stacchi in nero (stilemi ripresi dalla poetica di Kiarostami?). Conseguenza ultima di questo processo è un lavoro fortemente frammentario che sfrutta tempi dilatati e non comuni al cinema contemporaneo. 

Il grande problema (o, sarebbe meglio dire, l'interrogativo) sollevato da un prodotto come In the woods deriva dalla sua natura complessiva. La scelta apprezzabile di Frantzis di perseguire una sperimentazione pertinace rinunciando ai vezzi convenzionali della cinematografia attuale si traduce purtroppo in un film lento e slegato da qualsiasi concetto di riferimento. Scegliendo di sfondare il baluardo della forma eretto da Gerry realizzando un'opera così estrema, in cui delle riprese belle ma quasi amatoriali arrivano a far dubitare a volte delle convinzioni estetiche dell'autore, forse Frantzis ha compiuto un passo eccessivo. 

Senza dubbio rimangono nella memoria alcune immagini di splendida fattura e non si può non dare atto al regista di aver tracciato una dinamica delle relazioni approfondita ed esplicita rinunciando a qualsiasi forma di aneddoticità. Rimane comunque difficile formulare un giudizio complessivo in merito; senza dubbio si tratta di un film che si ama o si odia. Io, per quanto non mi ritenga un consumatore cinematografico particolarmente commerciale, non posso fare a meno di percepire una certa incompletezza.

VOTO: 6.50/10 

lunedì 4 novembre 2013

Perfect Blue



Perfect Blue di Satoshi Kon - Genere: animazione - Giappone, 1988

Il 1988 è senza dubbio l'anno di grazia per l'animazione giapponese, il momento in cui una forma cinematografica e/o televisiva come l'anime supera per la prima volta in maniera consistente le barriere geografiche e politiche e trova un concreto diritto di cittadinanza sul mercato occidentale. A questo rinnovamento, di importanza storica capitale per gli sviluppi successivi del cinema d'animazione e non, hanno concorso senza dubbio il meraviglioso Akira di Katsushiro Otomo e il particolarissimo Perfect Blue, di genere completamente diverso ma non per questo meno ricercato sotto molti punti di vista. Il grande pregio di questi prodotti sta nell'aver fatto capire per la prima volta come un certo cinema di animazione possa e debba rientrare all'interno dei canoni della settima arte, uscendo dal limbo indistinto in cui - purtroppo - ancora oggi è da molti collocato.

Cosa più unica che rara, anche attualmente, Perfect Blue è - da un punto di vista narrativo - la traduzione animata di quello che potrebbe essere considerato un ottimo film thriller a tinte psicologiche. Il paragone non deve sembrare azzardato, dal momento che il film pullula di riferimenti al genere e in particolare a Il silenzio degli innocenti che all'epoca non esisteva ancora come film (la pellicola con Hopkins è del 1991), ma si potrebbe ritenere che Satoshi Kon possa aver conosciuto il romanzo di Harris (uscito proprio nell'88). Entro una cornice narrativa fortemente connotata, si inserisce - dopo un' ouverture piuttosto prevedibile - il personalissimo stile del regista che ricorda per molti aspetti quello di David Lynch, soprattutto per il taglio delle inquadrature e per un certo gusto nei confronti del dettaglio quotidiano riletto in chiave perturbante . In aggiunta è sorprendente notare come il progressivo frantumarsi della linearità narrativa a favore di una struttura irregolare assimilabile per certi tratti a un nastro di Moebius, paia preludere alle più celebri realizzazioni del cineasta americano (Strade perdute su tutti). 

Il lavoro di Kon mette al centro, con uno sguardo pionieristico su una società ancora non lobotomizzata dall'imperversare della medialità digitale, le conseguenze che lo strapotere dell'immagine televisiva e più in generale mediata ha sullo statuto delle rappresentazioni. Così la storia della protagonista rimane lungamente sospesa e lo spettatore non riesce a comprendere i motivi per cui la sua immagine (unica vera dimensione di esistenza?) pare aver preso corpo e aver cominciato a godere di un diritto di cittadinanza esclusivo. La risoluzione conclusiva dell'enigma che sostanzia la narrazione è ben lungi dall'avere una natura puramente conciliante: le problematiche sollevate dalla visione di Perfect Blue, soprattutto per uno spettatore attuale, rimangono attualissime e hanno delle implicazioni etiche che è difficile sottovalutare. 

Perfect Blue è un film narrativamente piacevole, molto interessante sotto il profilo ideale e contenutistico che - se confrontato con il coevo Akira - denuncia però una qualità disegnativa non certo delle migliori. Il grande lascito di questo lavoro (fra gli altri) sta però proprio nella sua capacità di affermare con forza la propria natura cinematografica, anche a fronte della presenza della tecnica d'animazione.

VOTO: 7/10 

domenica 3 novembre 2013

Videodrome



Videodrome di David Cronenberg - Genere: thriller/fantascienza - Canada, 1983

Cronenberg è senza dubbio il maggior interprete cinematografico della fenomenologia del corpo postmoderno,  il corpo mutato e modificato che ha perso parzialmente o del tutto la propria matrice biologica a favore di una natura ibrida e mutevole. Quasi dieci anni prima del difficile e già recensito Il pasto nudo e con una potenza visiva molto maggiore, Videodrome indaga non tanto il rapporto fra uomo e tecnologia (come capita di leggere molto spesso), quanto più lo statuto dell'immagine televisiva e - in seconda battuta - di quella cinematografica. Nel pieno di quell'età postmoderna che gli anni Ottanta stavano solo cominciando a prefigurare, l'opera di Cronenberg assume tutto il valore di un monito inascoltato o di una possibile evoluzione dello statuto di realtà delle immagini. 

L'uomo cronenbergeano non è più il flaneur alle soglie della nevrosi visiva descritto da Baudelaire, ma si traduce in un'entità indistinta che si perde - al pari del suo illustre predecessore - in un territorio fluido e indistinto in cui non è più possibile distinguere la finzione dalla realtà e tutte le categorie di riferimento risultano inefficaci. Così i personaggi di Videodrome vivono fisicamente in funzione del medium televisivo, che molto spesso li introduce alla nostra vista, condizionando profondamente anche la dinamica del linguaggio filmico; così una figura basilare come il campo-controcampo, pur mantenendo la sua funzione eminentemente dialogica, si trova cambiata di segno e si svolge spesso fra un'individuo e il televisore. Un esempio calzante di questo meccanismo, che scardina il meccanismo del dialogo introducendo un discrimine diacronico all'interno della relazione, è dato dai nastri che il prof. O'Blivion invia al protagonista. Al di là del nome particolarmente significativo del personaggio in questione, è interessante notare come le movenze argomentative del semiologo siano fondamentalmente diverse rispetto a quelle del contatto vis-à-vis e risultino pesantemente condizionate dalla presenza di uno schermo (in questo caso reale ma, soprattutto, ideale). 

Il Videodrome che regala il titolo a quest'opera di Cronenberg è quindi essenzialmente un dispositivo di controllo e comunicazione che, a fronte di un particolare tipo di segnale (e - potremmo dire - di linguaggio), agisce sulla struttura dell'individuo, modificandola. Questo non può non rendere manifesto il collegamento già suggerito al corpo modificato, ibridato dalla tecnologia, che rendere l'uomo simile ad un automa. In un processo di progressiva metamorfosi che si origina dalla presa di coscienza di una frattura percettiva sempre più grave, il destino ultimo degli individui cronenbergeani sembra riconducibile a quello della ben nota Creatura del Frankenstein di Mary Shelley, o almeno all'immagine che un certo cinema ne ha dato. La versione proposta sul grande schermo da Boris Karloff e dai prosecutori (certamente non filologicamente corretta) in effetti punta fortemente l'accento sulla meccanicizzazione del corpo e sulla dipendenza mentale del Mostro da una volontà di ordine superiore. 

Nell'ottica di Cronenberg non c'è più distinzione, nel panorama contemporaneo, fra reale ed artificiale, biologico e meccanico, così com'è andato progressivamente assottigliandosi il discrimine che separava la verità dall'illusione mediale ricostruita. Nei nuovi non-luoghi dell'anestetizzazione senza scopo l'uomo diventa il nodo di una rete di interscambio che lo assorbe modificandone profondamente gli schemi percettivi. Che questo modus vivendi, possa un giorno condurre ad una nuova evoluzione del corpo fisico, come sembra essere suggerito dal Videdrome?
VOTO: 9/10