mercoledì 19 settembre 2012

Shark 3D - Recensione


Shark 3D di Kimble Rendall - Genere: catastrofico - Australia, 2012

Uno tsunami colpisce le coste australiane invadendo buona parte della città, compreso un supermercato in cui stava avvenendo una rapina.
Dopo la devastazione portata dall'onda i sopravvissuti si ritrovano impossibilitati ad uscire perchè tutte le porte sono bloccate dalle macerie, imprigonati tra scaffali diroccati, alimenti galleggianti e, scoprono presto, uno squalo di grosse dimensioni trasportato assieme all'acqua. Stessa sorte (allagamento, impossibilità di fuga e squalo) tocca a chi stava nel parcheggio sottostante.

Preso da non so quale raptus autolesionista ho deciso di guardarmi questo film, attualmente nelle sale e presentato addirittura alla Mostra del cinema di Venezia (il perché andrebbe chiesto al distributore Medusa ma su certe cose è davvero meglio non indagare e rivendicare la propria aristocratica ignoranza). Dunque uno dei soliti film in  3D tutto esplosioni ed effetti speciali? In realtà, molto peggio del previsto: è un film tutto sbagliato, dall'inizio alla fine. Il filo narrativo di per sé non sarebbe neppure da buttare via (pur escludendo l'insensato prologo e il finale veramente sconfortante), in quanto mixa in maniera abbastanza divertente due generi come il catastrofico (l'onda anomala) e il thriller (lo squalo galleggiante sotto i piedi dei nostri protagonisti). Non dico che si pensasse di essere di fronte a un capolavoro, ma c'erano buone speranze per realizzare un film che fosse almeno accettabile. E invece, niente di tutto questo.

Sull'idea di base si installa una sceneggiatura fra le più sconfortanti degli ultimi anni, con personaggi così stereotipati e antipatici che - inverosimilmente - alla fine l'unica entità veramente simpatica del film è lo squalo (che peraltro in alcuni momenti è realizzato talmente male da poter sembrare una creazione dell'Asylum). La recitazione rasenta a malapena il livello di tollerabilità del peggiore sceneggiato televisivo e senza dubbio risulta largamente insufficiente per un lavoro cinematografico di qualsivoglia respiro. Colonna sonora inesistente o inconsistente nella seconda parte del film, ma non ce ne dispiace visto che nell'intro eravamo stati trasportati nel peggiore ghetto di New York (musica tipo 50 cent come se piovesse). Il montaggio risulta non pervenuto, nessuna ricerca estetica per un film che senza dubbio non può permettersi molto più di ciò che è.

Onestamente un film atroce, considerando che è anche in 3D direi che dovrebbero pagarvi per vederlo: perdere 90 minuti della propria vita davanti a una cosa così brutta dovrebbe essere considerato reato.

VOTO: 0/10

martedì 18 settembre 2012

Apartment 143 - Recensione


Apartment 143 di Carles Torrens - Genere: thriller/horror - Messico, 2011

Un gruppo di parapsicologi si reca in un appartamento di un palazzo quasi disabitato, dopo che il padre di famiglia (vedovo con due figli) ha lamentato la presenza di inspiegabili e inquietanti fenomeni. Sarà compito della squadra, armata di strumenti tecnologici di ogni sorta, tentare di scoprire l'origine del fenomeno.

Recente film di produzione messicana, Emergo (questo il titolo originale), si pone su una strada ormai fin troppo battuta dal cinema di genere per risultare convincente. Formalmente la pellicola prende la soluzione adottata prima da Paranormal activities e poi dai vari R.E.C., ovvero mostrare le immagini come se fossero riprese direttamente da telecamere, posizionate in questo caso dentro l'appartamento. Questo di per sé non sarebbe necessariamente un difetto, dal momento che una scelta di questo genere potrebbe aprire interessanti spiragli di costruzione estetica, lavorando magari sulla stratificazione dell'immagine e sul famigerato concetto di Intervallo cinematografico. In effetti, il film sembra volersi spingere in questa direzione, ma nei momenti sbagliati. Il risultato è una sensazione di pressapochismo piuttosto generalizzata, anche considerando che alcune inquadrature sono completamente acefale rispetto al contorno. 

Essendo un film di genere, poi, non ci si aspetta certo una grande volontà innovativa a livello di story-line, ma in questo caso cadiamo con tutte le scarpe in un minestrone ormai pluri-riscaldato. Fortunatamente ci viene risparmiata la classica storia di infestazione spiritica, almeno direttamente. Intendiamoci, lo spettro dello spettro aleggia continuamente, ma per lo meno non ci viene sbattuto davanti agli occhi ogni quattro inquadrature. Anche qui, si poteva fare molto di meglio, magari approfondendo il conflitto fra la scientificità degli strumenti e l'irrazionalità dei fenomeni, ma ormai l'horror ha maturato una passione per la precisione chirurgica. Peccato che questa strada si stia rivelando assolutamente inadeguata.

Recitazioni mediocri, a tratti piuttosto insipide, condiscono un prodotto che certamente non innova il panorama della cinematografia di genere e - al contrario - sembra fare qualche passo indietro. La pretesa di strafare quando non se ne hanno le possibilità (e non alludo ovviamente al budget, visto che si tratta di un film che non è costato quasi nulla) porta molto spesso a sbagliare e questo mix di sotto-generi horror non fa eccezione, cosa che ci viene confermata dal finale - veramente sconfortante in quanto a banalità.

VOTO: 4/10

martedì 11 settembre 2012

Soffio - Recensione



Soffio di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2007

Una giovane madre in crisi coniugale (il marito la tradisce) si innamora di un detenuto condannato a morte che ha tentato di suicidarsi. Riesce a incontrarlo nel parlatorio sconvolgendo i suoi sentimenti e suscitando reazioni nei suoi compagni di cella uno dei ne quali ne è geloso. Il marito scopre quanto sta accadendo e cerca di recuperare il rapporto.

Di Kim Ki-duk abbiamo già tessuto le lodi più volte in questo blog, per le magistrali prove fornite con Ferro 3 e L'arco. A conferma ulteriore del talento (peraltro indiscusso) del sud-coreano, il Leone d'Oro a Venezia per Pietà. Anche nei miei interventi sulle colonne di Cinemonitor (www.cinemonitor.it) ho avuto più volte occasione di incontrare, anche tangenzialmente, la figura di questo eccelso cineasta orientale, forse troppo sottovalutato in Occidente. L'opera che analizziamo oggi è Soffio, lavoro che si ricollega evidentemente al fascino silenzioso di Ferro 3, senza esserne però pedissequa (e inutile) riproposizione. 

Come negli altri lavori di Kim, anche in questo caso l'impianto narrativo è semplice, asciutto, ben definito e presenta un rigore costruttivo quasi geometrico. Il modello è senza dubbio Ferro 3, ma qui i contorni del conflitto di coppia alto-borghese si smussano, perdono le spigolosità e si sviluppano in una chiave narrativa più patetica che tragica. Mentre ne La casa vuota il marito era fuor di dubbio un essere detestabile, qui il padre di famiglia diventa personaggio, si stacca dalla piattezza del tipo oppositivo che incarnava all'inizio e diventa una figura a tutto tondo, dialettica ed interessante. Anche la moglie (Yeon) ricorda vagamente quella di Ferro 3, ha la stessa tristezza negli occhi, che sono pieni di amarezza e insoddisfazione. L'insistenza del regista sugli occhi ancora una volta ci ricorda che ogni uomo è un piccolo universo, cosa che già sosteneva in un suo famoso aforisma Michel de Montaigne. In aggiunta, anche qui, troviamo un elemento nuovo: il canto. Nei momenti in cui la nostra giovane protagonista si esibisce in (sgraziate) prove canore, si interrompe il flusso narrativo e questa giovane donna orientale ricorda vagamente la tristezza quasi epica della Selma di Dancer in the dark, altro splendido film di Lars von Trier. Rimane un po' in sordina la figura della figlia, ma non ce ne dispiace. Dopotutto questa scelta evita il rischio di scadere nel solito dramma familiare visto e rivisto, dove i figli vengono usati come ago della bilancia di un sistema micro-sociale in decomposizione. 

Anche in questo film, come si è già accennato, predomina il silenzio, soprattutto "veicolato" dal terzo personaggio principale, ovvero il condannato a morte. A causa del suo tentativo di suicido (che apre il film) è impossibilitato a parlare, riesce ad emettere soltanto dei piccoli gemiti o, ancor meglio, dei "soffi". Interessante anche la figura del compagno di cella, silenzioso anche lui, ma dotato di una intensità drammatica veramente eccezionale. Silenziosamente innamorato (?) di Jin Jang, rimane a subire le angherie del compagno di cella, che non apprezza le sue attenzioni. Soltanto verso la fine della pellicola, Jin Jang si concederà a un abbraccio quasi materno, che chiude circolarmente la vicenda dei due "amici" (la prima frase del compagno di cella indicava che "voleva la mamma"). 

Tecnicamente i livelli di realizzazione sono altissimi, soprattutto per quello che riguarda inquadrature, montaggio e fotografia. Le immagini sono, come sempre in Kim, bellissime da vedere ed evidenziano una spiccata propensione al pittoricismo e alla plasticità delle forme. In particolare alcune pose sono talmente ben realizzate da poter benissimo valere come fotografie (pur non volendo mettere in secondo piano l'unitarietà di un prodotto così elegantemente confezionato). 
Per quello che riguarda, più in particolare, la composizione dell'immagine si nota una netta prevalenza per una costruzione a più piani in profondità, interrotti da linee verticali di tensione. Volendo scegliere ancora più nel dettaglio, il ricorrere con così ossessiva frequenza a questa figura ci deve suggerisce che essa deve avere un particolare valore simbolico. In effetti si evidenzia, soprattutto nei dialoghi della prigione, questo elemento compositivo, con lo spettatore che vede "dal di fuori" (magari attraverso una finestra con sbarre) una determinata scena. Come a dire che noi possiamo guardare, ma non possiamo intervenire. Un monito alla passività obbligatoria di uno spettatore che non è chiamato in questo caso ad immedesimarsi empaticamente, ma a contemplare in maniera quasi ascetica la storia. 

Il termine potrà sembrare eccessivo, ma se si tiene in considerazione che tutto il lavoro filmico è sottilmente tramato di un sentimento mortifero a tratti piuttosto evidente, risulterà piuttosto lampante che il soffio a cui si allude nel titolo è quello vitale, che si trasferisce da un soggetto all'altro, veramente come un fluido che è in grado di governare le sorti degli individui. In particolare nelle scene dove Yeon e Jin Jang si baciano il loro soffio aumenta esponenzialmente di intensità, come se in quel momento stesse avvenendo uno scambio dialettico di elementi vivificanti. Il tutto ha il suo naturale coronamento sul finale, con la scena di sesso fra i due. Scena bellissima ed emblematica perché stabilisce e riafferma in un modo molto elegante il tipico topos artistico di "Amore e Morte".

Una morte che è anche rinascita, in una concezione perfettamente ciclica e orientale del tempo e della vita. E non è ovviamente un caso che la pellicola si concluda con una battaglia a palle di neve fra madre, padre e figlia, finalmente riuniti in un perfetto equilibrio (altra figura tipica del cinema di Kim) dopo un cammino di discesa nell'abisso ed espiazione. Espiazione che per Yeon passa attraverso il peggiore dei peccati proposti il tradimento fisico del marito, che segna al medesimo tempo il punto più basso della deriva familiare e l'imminente rinascita. 
Una costruzione che è quindi complessa, fortemente interrogativa e dialettica, che tocca le corde della nostra cultura e a volte ci risulta particolarmente dissonante e incomprensibile, proprio come la vita reale. E proprio come la vita reale questo film condensa in sé i sentimenti, le speranze, le delusioni, le schizofrenie e molto altro ancora dei suoi personaggi.

VOTO: 9/10

lunedì 10 settembre 2012

Un giorno questo dolore ti sarà utile - Recensione



Un giorno questo dolore ti sarà utile di Roberto Faenza - Genere: drammatico - USA, Italia 2011

James Sveck ha diciassette anni e nessuna voglia di essere raggiunto. Dal cellulare, che butta in un bidone artistico, e dagli adulti che lo vorrebbero consumatore di oggetti e affetti. Figlio di genitori separati e fratello minore di una sorella maggiore invaghitasi di un professore di teoria del linguaggio, James rifugge il mondo e comunica soltanto con Nanette, nonna di buon senso e di buon cuore, e Miró, un cagnetto nero che si crede umano. Deciso a non frequentare l'università e ad acquistare una vecchia casa nel Midwest in cui leggere libri e lavorare il legno per il resto della vita, il ragazzo è incalzato da mamma e papà che lo vogliono cool e realizzato. Gallerista con tre matrimoni falliti alle spalle, la madre, Peter Pan incallito col vizio della chirurgia estetica, il padre, i genitori di James corrono ai ripari e lo invitano a incontrare una life coach che gli indichi la via per il successo (sociale). Sensibile e umana la sua terapista ne accerterà la grande sensibilità, esortandolo a vivere secondo le regole del suo cuore.

Vero e proprio tormentone cine-letterario dello scorso anno, oggi finalmente Un giorno questo dolore ti sarà utile si è manifestato di fronte a me, convincendomi veramente poco. Non so se sia colpa della gran parlare che si è fatto di questa pellicola, ma il risultato è simile a quello di un bel piatto di pasta, sfortunatamente non salata. Con questo non voglio dire che il film in sé non abbia dei lati piacevoli o che sia un disastro, ma che il risultato che ci si attendeva dopo un così grande brusio mediatico poteva essere sicuramente migliore. 

Narrativamente si tratta di un film di formazione piuttosto classico, una versione aggiornata e ingentilita di un Noi ragazzi dello zoo di Berlino, tanti problemi ma questa volta niente droga. Più azzardato mi sembra il paragone con Il giovane Holden di Salinger: non basta certo avere delle enormi paranoie antisociali per poter essere efficacemente paragonati ad una delle icone esistenziali della passata generazione. La penna del compianto Salinger ha tratteggiato un ritratto di un giovane della crisi, pieno di inquietudini giustificate dai tempi. L'impressione di questo James è invece quella di un adolescente (benestante), annoiato dalla propria esistenza e vuotamente radical chic. Una versione insopportabile della Paloma protagonista de L'eleganza del riccio. 

La fotografia è buona, i colori tenui, a tinte quasi pastello confermano che questo è un film che si vuole contemporaneo e alla moda. Bella quindi la cornice visiva, buona anche la scelta degli attori, su cui evidentemente svetta per importanza narrativa il protagonista, volto nuovo e interessante del cinema che però - ancora una volta - finisce col diventare veramente snervante. Si sarebbe potuto giocare di più sulla componente ironica di questa problematicità, ma il voler essere pretenziosamente drammatico ha giocato un brutto scherzo al regista, appesantendo mortalmente una pellicola che invece poteva essere fresca e convincente (buona anche la scelta della musica).

Insomma, per quanto mi riguarda, una discreta delusione, soprattutto per la pretesa volontà di innovare, non corrisposta da un lavoro linguistico sufficientemente profondo. Un film che vuole coprire i suoi (macroscopici) difetti con una patina alla moda e un po' gay-friendly, ma che alla fine non ha molto da dire. Un vero peccato.

VOTO: 5/10