martedì 30 luglio 2013

Prendi i soldi e scappa



Prendi i soldi e scappa di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1969

Opera giovanile di Allen, quasi di formazione. Siamo in quel particolare momento della sua carriera, già descritto o quantomeno tratteggiato parlando di Che fai, rubi? in cui il personaggio alleniano per eccellenza muove i suoi primi passi e qui lo fa in prima persona. Se l'opera prima era un'esperimento che metteva in discussione anche il senso della categoria autoriale riguardo un film che in effetti sembrava rubato più che prodotto, Prendi i soldi e scappa è il primo, vero film di quel simpatico e scanzonato regista che molti di noi apprezzano ancora oggi.

L'idea di base è fortunatissima e godrà di largo consenso nella cinematografia successiva, con l'escamotage del finto documentario utilizzato per raccontare la storia di un criminale, interpretato dallo stesso Allen, che è la rivisitazione parodica del classico gangster all'americana. Come sempre, lo abbiamo già detto riguardo a Il dittatore dello stato libero di Bananas, il regista strizza l'occhio con complicità all'America e ai suoi miti. Dopo aver fatto a pezzi l'agente segreto alla James Bond, Virgil (il protagonista del film) rappresenta l'anti-Tony Montana per eccellenza (il paragone è anacronistico, ma funzionale). 

L'assoluta incapacità relazionale e l'impacciato intellettualismo che caratterizzeranno le più alte realizzazioni alleniane (pensiamo a Manhattan o a Io e Annie) si tramutano qui in un'icompetenza che è pratica ancor prima che interpersonale: Virgil ha una moglie che lo ama ma il suo problema è la pertinace incapacità di realizzare il più ovvio disegno criminale. E' ben vero che lo stile registico è ancora incerto e che senza dubbio non siamo di fronte al cinema per cui Allen si fa ricordare nella memoria collettiva, ma Prendi i soldi e scappa è comunque un film interessante e divertente, che prelude ad alcune delle sue più felici realizzazioni.
VOTO: 7/10 

lunedì 29 luglio 2013

L'amico di famiglia



L'amico di famiglia di Paolo Sorrentino - Genere: drammatico - Italia, Francia 2006

Paolo Sorrentino, recentemente apprezzato dal pubblico e dalla critica per la sua performance a Cannes con La grande bellezza (film che non ho ancora avuto modo di vedere!), è senza dubbio una delle firme di punta del cinema italiano contemporaneo, una di quelle per cui vale ancora la pena di andare in sala, insomma. Visto in televisione, L'amico di famiglia non fa che confermare questa sensazione. Il regista scruta, attraverso inquadrature larghe in campo aperto che disegnano ambienti dal sentore quasi dechirichiano, la vita grottesca di Geremia (uno splendido Giacomo Rizzo), sarto e - soprattutto - usuraio.

L'irrealtà di un'esistenza marcescente eppure così concreta viene raccontata attraverso ambienti che, al contrario dei campi aperti, sono chiusi, sporchi, asfittici ed illuminati in maniera antirealistica. Geremia ama pensarsi amico di famiglia, benefattore invasivo eppure per tutto il film e soprattutto nel finale la sua caratteristica fondamentale sarà la solitudine. L'impossibilità di costruire rapporti umani al di là di quello simbiotico e opprimente con la madre paralizzata rimane l'unica costante di una parabola in discesa, che si conclude proprio con la presa di coscienza dell'immutabilità della sua condizione. 

Sorrentino va a scavare la coscienza e mostra senza remissioni un personaggio viscido, brutto e sporco che non si fa alcun problema a violare le norme dell'etica in virtù di una ricompensa monetaria che si esprime attraverso la violenza e la sopraffazione. La tecnica di ripresa e l'impostazione dei dialoghi sono fredde, chirurgiche, nette. La condanna di Sorrentino è netta ma non viene mai meno la capacità lucida di mettere in evidenza le ipocrisie e gli angoli oscuri di una società che il regista ci presenta in decomposizione. 

Non c'è lieto fine in un racconto dove il protagonista è l'anti-eroe per eccellenza e i buoni vengono continuamente sconfitti e ridotti a uno stato di larvale dipendenza. La rivincita del vampirismo (inteso in questo caso in senso eminentemente economico) passa per una decostruzione e un rovesciamento del buonismo cinematografico che contraddistingue tanta parte del panorama attuale.
VOTO: 8.50/10 

martedì 23 luglio 2013

Solo Dio perdona



Solo Dio perdona di Nicholas Winding Refn - Genere: thriller - Francia, Danimarca, 2013

Direttamente dall'ultimo festival di Cannes, un thriller decisamente europeo seppure ambientato in estremo Oriente. E' asiatico lo sfondo narrativo della vicenda, ma il modo di riprenderla, la geometria dello sguardo disegnata dalla macchina da presa, con i suoi iati e le sue ambiguità, è decisamente europeo e si ricollega con forte decisione, per la presenza di alcuni stilemi linguistici, alla sua stagione più felice. Il film di Winding Refn è ricercatissimo da un punto di vista formale e senza dubbio si presenta come uno dei migliori titoli dell'anno (attendo ancora di riuscire a vedere La grande bellezza che, certamente non deluderà). 

La trama è molto semplice, elementare, quasi stereotipica e dai tratti spiccatamente freudeani. Gli scambi dialogici fra il protagonista Julian e sua madre formalizzano una gerarchia di poteri non conciliabile, che vede al vertice della gestione degli eventi proprio la Madre, che orchestra dietro le quinte la vendetta del suo primogenito. Sono dialoghi ricchissimi, per quanto tremendamente ellittici: dietro ogni frase si respira l'evidenza di un vuoto profondo, che rimanda a un passato che non può che rimanere inespresso, dietro lo sguardo nel contempo profondo e vacuo di Julian. 

Tutto il film ha un'aria fortemente onirica, con la macchina da presa che diventa uno strumento confusivo nel disegnare ambienti incoerenti abitati da presenze impossibili. Anche la gestione delle bellissime scenografie d'interno ce lo conferma: questi ambienti asfittici campiti con colori violenti sono ambienti mentali ancor prima che fisici, dove prende corpo il dramma dell'inadeguatezza, del senso di colpa e della paura. Questi brani tradiscono il mondo interiore del protagonista, lacerato fra il rifiuto di vendicare il fratello (colpevole di aver ucciso una ragazza) e l'impossibilità di sfuggire ai desideri della madre. 

C'è molta psicanalisi in tutto questo e anche nella decisione finale di Julian di uccidere la moglie del suo antagonista, come per punire trasversalmente l'unica altra figura femminile di tutto il film. Figura dalla quale però non è possibile staccarsi completamente e a cui lo stesso Julian sceglie di ritornare quando, lacerando le carni del suo cadavere senza vita, poggia la mano all'interno del suo grembo, recuperando almeno idealmente la condizione fetale di massima congiunzione con quella presenza così ingombrante eppure così fondamentale.

Nel complesso, senza stare a dilungarsi sui pregi di una composizione splendida dal punto di vista della messa in immagine e della fotografia, non si può negare che Solo Dio perdona sia un film assolutamente meritevole che, pur essendo formalmente un thriller, rifugge dallo stesso concetto di proprietà di genere per aprirsi a spazi di lirismo visivo certamente non sperati.
VOTO: 9/10 

sabato 13 luglio 2013

Monster University



Monster University di Dan Scanlon - Genere: animazione - USA, 2013

Riconosco di non essere un grande appassionato di film di animazione, ma questo nuovo lavoro della Pixar, sequel del fortunato Monsters & Co. del 2001 (premiatissimo e avanguardistico lavoro in digitale), mi ha sinceramente fatto molto divertire. A parte la bellezza delle animazioni e l'abilità nell'uso del digitale il film si lascia apprezzare molto anche per la storia raccontata. Al centro della vicenda c'è la vita universitaria dei due protagonisti, riproposta in un modo molto piacevole proprio perché fortemente parodico nei confronti di tutta una certa tradizione cinematografica e più generalmente culturale degli Stati Uniti.

Monster University racconta la ricerca di un sogno decostruendo l'immaginario che moltissimi teen-movies hanno contribuito a plasmare. Anche la televisione non è stata da meno in questo senso e questo filone cinematografico ha accentuato in effetti quell'ibridazione linguistica che ancora stiamo vivendo, con l'immagine filmica che si mescola sempre di più a quella televisiva. Nel campus si ripete esattamente con gli stessi ritmi la vita universitaria degli americani-tipo e il procedere della trama conferma stereotipi e aneddoti di questo microcosmo culturale.

Il film è ovviamente infarcito di buoni sentimenti, cosa che però non risulta sgradevole in quanto è costantemente controbilanciata da un'ironia divertente e mai fuori luogo. Nel complesso un film che, per quanto spiccatamente di intrattenimento, risulta molto piacevole e si lascia guardare per tutto il tempo della sua durata con un bel sorriso sulle labbra. 
VOTO: 7/10

venerdì 12 luglio 2013

Che fai, rubi?



Che fai, rubi? di Woody Allen - Genere: commedia - USA, Giappone, 1966

Primo film di Woody Allen, Che fai, rubi? è un gigantesco esperimento cinematografico sul ruolo dell'autore nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, come avrebbe detto Benjamin. La sperimentazione alleniana tocca qui vette insuperate: il regista si appropria di un film già esistente (il giapponese La chiave delle chiavi), che mantiene inalterato nel comparto figurativo ma che sceglie di ridoppiare scrivendoci sopra una commedia. Già questo è sufficiente per far saltare quella corrispondenza biunivoca e troppo spesso auratica che lega l'autore-genio alla sua opera. Questo film non è di Woody Allen, che nonostante ciò se ne dichiara il regista sia a livello commerciale (il film è di Woody Allen, si legge nelle locandine e sui DVD) sia a livello narrativo (la cornice della pellicola ce lo conferma). La manifestazione dell'autorialità passa attraverso lo scippo intellettuale, che diventa per Allen giocosa riscrittura di un genere non sufficientemente autoironico.

La vera genialità del film, quello che insomma ci può far dire che Che fai, rubi? non è La chiave delle chiavi e di riconoscerlo come appartenente alla produzione alleniana, sta proprio in quel rovesciamento assurdo e fortemente parodico che il regista mette in piedi nei confronti della tradizione 007 in cui il film giapponese defraudato si localizza. L'impostazione spionistica di fondo viene mantenuta, ma viene decostruita ridicolizzandola dall'interno: l'oggetto del contendere di questa favola rivestita di piombo non è una pericolosa arma atomica o simili, ma la ricetta di un'insalata di uova. Attorno a questo motore orbitano tutte le situazioni fortemente didascaliche ma intimamente irreali del film, che grazie alla riscrittura del comparto dialogico raggiungono una comica assurdità.

Nel suo primo film Allen rimane dunque in disparte, non agisce in prima persona diventando il protagonista assoluto del suo lavoro, lo snodo centrale di un complesso quasi teatrale dove lui è unico protagonista. Qui sceglie di rimanere in ombra, ma già in questa prima fatica si intravedono le cifre del suo stile. Sono comunque da segnalare i momenti in cui si registra il suo intervento, come nell'interruzione del film con ritorno alla cornice (funzione puramente discontinua e non narrativamente funzionale), il finale in cui decide di rivolgersi direttamente allo spettatore e soprattutto la sequenza delle mani, dove le mani del regista intervengono fisicamente sulle immagini, muovendole e agendo plasticamente sul loro supporto fisico, materializzato sullo schermo. Anche qui si tratta di discontinuità in atto, che decide però di nascondere il suo valore quando la comicità di Allen lo "costringe" a sdrammatizzare anche questo processo, mostrandoci il gioco delle ombre cinesi.

Una dichiarazione d'intenti chiarissima, che rende ragione di alcune scelte cinematografiche successive, ma che vanta anche una vena sperimentalista che non ho più ritrovato nel cinema alleniano successivo. Un esperimento da riscoprire.
VOTO: 7.50/10 

martedì 9 luglio 2013

True Love



True Love di Enrico Clerico Nasino - Genere: thriller - Italia, USA, 2012.

Succede raramente, ma a volte il cinema italiano riesce a sorprendermi anche nelle sue declinazioni meno autoriali. Questo True love infatti, girato fra la penisola e gli Stati Uniti, sebbene risulti un prodotto abbastanza commerciale, riesce non solo a impressionare ma anche ad essere molto meno scontato della media delle pellicole attualmente in circolazione. Riprendendo un po'la dinamica del fantascientifico The Cube, il film del cineasta italiano vede una coppia di sposini tipicamente americani fatti prigionieri da misteriosi individui che li sottopongo a un innovativo trattamento di coppia al termine del quale la neonata famiglia dovrebbe ritrovarsi più fiduciosa e complice.

Anche se tutto l'impianto sa un po' di già visto (oltre al già citato titolo tutto ricorda molto alcuni passaggi dei primi Saw, anche se ovviamente declinati in salsa decisamente meno grottesca), il risultato finale riesce a risultare gradevole soprattutto per alcune accortezze registiche che, in particolare a livello di fotografia e inquadrature, si fanno decisamente valere. Molto bella è ad esempio la sequenza del delirio di due dei protagonisti, stremati dalla prigionia, che viene ripresa con uno sguardo vorticoso e barcollante che riflette molto bene la sostanza dell'episodio a livello narrativo.

Per il resto, purtroppo, le cose non sono così splendide. La trama infatti, per quanto si voglia forzatamente arzigogolata nel pieno stile del nuovo thriller americano, finisce per risultare spesso confusa e soprattutto forzata. Ci sono degli elementi della progressione narrativa che, infatti, sono evidentemente stati inseriti solo per suscitare l'empatia del pubblico e senza un vero e proprio scopo narrativo (tutta la questione dello scherzo che il protagonista fa al suo amico è, in questo senso, esemplare). Purtroppo anche il finale, prevedibile, va in questa direzione e il film si chiude con un tripudio di scontatezza che avrebbe potuto essere facilmente evitabile.

Complessivamente un film valido e piacevole ma - purtroppo - nulla di più.
VOTO: 6/10

lunedì 8 luglio 2013

Grano rosso sangue



Grano rosso sangue di Fritz Kiersch - Genere: thriller - USA, 1984

Come molti altri film che hanno risvegliato la passione di diversi appassionati, Grano rosso sangue è un adattamento di un'opera letteraria del prolifico Stephen King. Il caso di IT è esemplare e spiega bene anche le forti differenze che ci sono fra il linguaggio letterario e quello cinematografico: molti fan sono rimasti fortemente delusi dal finale che la regia di IT ha imposto in deroga al romanzo. Anche nel caso del racconto Childern of the corn la sorte è in parte analoga e lo stesso King si è mostrato fortemente perplesso circa la qualità della pellicola, che comunque ha riscosso un notevole successo di pubblico e ha portato con sé diversi sequels. Ancora una volta devo denunciare il fatto di non aver mai letto il racconto; la recensione quindi non vuole giudicare la qualità dell'adattamento, ma il film nella sua specificità. 

La storia di per sé è molto gradevole e originale, fonde bene un gran numero di elementi tipici del genere thriller/horror, miscelandoli in proporzioni armoniose. Al di là di questo però la realizzazione generale appare ben lungi dalla perfezione. Anzitutto a livello puramente diegetico si registra una grossa quantità di buchi narrativi, elementi non spiegati che rimangono insoluti. E' probabile che una parte di questi interrogativi troverà risposta nei successivi capitoli della saga (?), ma è quasi una legge matematica che i sequel siano realizzati peggio degli originali e tanto basta per scoraggiarci dalla visione. 

La fotografia invece è discreta e soprattutto in alcuni punti le soluzioni adottate anche a livello di montaggio sono particolarmente funzionali a creare un sottile ma palpabile velo di tensione che percorre tutto il film e che ne rappresenta il maggior lascito; lo stesso valga per la colonna sonora e soprattutto per il tema principale che si ritaglia un posto di tutto rispetto, con i suoi echi religiosi, nell'economia del film e nei motivi del suo successo. I personaggi invece sono abbastanza piatti e non sufficientemente analizzati per essere interessanti; lo stesso Isac non raggiunge la levatura titanica di antagonista principale, cui sembrerebbe sin dall'inizio poter tranquillamente ambire.

Nel complesso il film è anche piacevole, ma non possiamo non accodarci ai biasimi che la critica e lo stesso Stephen King hanno levato nei confronti di questo lavoro, che pur presentando spunti di interesse finisce con il risultare piuttosto anonimo e scontato (a tratti anche inutile, come nel caso del finale cliffhanger appena accennato e subito messo a tacere).
VOTO: 5/10 

domenica 7 luglio 2013

Il dittatore dello stato libero di Bananas



Il dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1971

Quando la comicità alleniana non era ancora riconosciuta a livello globale e il suo stile doveva ancora prendere una consistenza che ne facesse un marchio, proprio quando la crisi cubana era ancora dietro l'angolo, sedimentata nella memoria collettiva degli statunitensi, Bananas è riuscito a trattare l'argomento in una maniera leggera e disincantata. Lontano dalle retoriche ufficiali dei piani alti, il film di Woody Allen è un'operazione demistifcatoria che decostruisce i fatti e le sensazioni di quei giorni, mostrandone la paradossale comicità. 

Il personaggio-autore alleniano muove qui i suoi primi passi e lo fa in quel modo divertente e scanzonato che ha sempre costituito il suo marchio di fabbrica. L'insofferenza nei confronti delle strutture sociali e l'incapacità relazionale diventa qui desiderio di fuga, stereotipo tipico della commedia romantica che ancora una volta viene rovesciato in un susseguirsi paradossale e casuale di eventi che porteranno il nostro protagonista ai vertici dello stato di Bananas. I complotti, la rivoluzione, la dittatura, tutto viene riscritto dalla magmatica genialità della regia in un modo assurdo che ne mette in luce la natura dialogica e costruita. 

In questo discorso che - va da sé - accusa fortemente anche l'America come soggetto partecipante in un progetto che gioca con la pelle degli individui, non c'è però nessun intento etico-morale che si ricolleghi direttamente alla politica. L'attenzione di Allen sembra più riversarsi sulla natura finzionale dell'immagine, in particolare televisiva. In svariate occasioni è lo stesso regista a suggerircelo esplicitamente, come avviene nell'incipit (l'omicidio del presidente di Bananas) e nel finale (la prima notte di nozze di Woody che diventa la parodia di un incontro di pugilato). Tutto ciò che vediamo è falso, costruito a tavolino e recitato da una schiera di figuranti inconsapevoli: un messaggio forte, ma raccontato con la leggerezza disillusa e disincantata di uno sguardo che agisce - seppure con forte autonomia - all'interno di quello stesso sistema.

L'altro polo di Bananas che merita di essere giustamente evidenziato è la grande intertestualità che il titolo dimostra nei confronti di molti altri titoli della produzione cinematografica mondiale. Il bergmanismo sempre presente (rievocato a posteriori anche in Manhattan) si accompagna qui a echi piuttosto evidenti dalla Corazzata Potemkin: la scena della rivoluzione nel Bananas diventa l'eco della maestosa scena ejzenstejniana, con un riproposizione pressoché perfetta della scena della carrozzina che precipita dalla scalinata, di fantozziana memoria.

Un film semplice, forse non perfetto in confronto ad altre produzioni alleniane più controllate (si veda anche solo Io e Annie per farsene un'idea), ma che risulta assolutamente geniale per la straordinaria vivacità di un'inventiva ancora non perfettamente canalizzata.
VOTO: 8/10

venerdì 5 luglio 2013

Oltre il guado



Oltre il guado di Lorenzo Bianchini - Genere: horror - Italia, 2013

Uno dei grandi interrogativi che spesso assalgono gli appassionati di cinema e chi si occupa della critica dei prodotti presentati in sala è quali siano le condizioni necessarie per fare un film o per fare in modo che un raggruppamento di frammenti girati possa essere considerato un prodotto artistico. Sembra, per rispondere a questa domanda, che per produrre un lavoro cinematografico davvero meritevole ci voglia meno di quanto spesso si è portati a pensare. Mentre oggigiorno la nostra visione è schiacciata dal chiassoso panorama hollywoodiano esiste un sottobosco di produzioni low-budget anche molto autorevoli (Arirgang di Kim Ki-duk ne è un ottimo esempio) che rimettono in discussione quella che ormai è diventata l’abitudine.

La sfida di Lorenzo Bianchini con il suo Oltre il guado è proprio questa: creare un film di genere avendo a disposizione limitatissime risorse economiche. L’opera prosegue una ricerca già iniziata dal regista nel “lontano” 2001, quando Radice quadrata di tre aveva imposto la sua linea autoriale rendendo evidente, fra le altre cose, il suo interesse per una ben precisa realtà geografica e sociale. Anche per Oltre il guado si potrebbe mutuare una fortunata espressione del Morandini, che definisce i lavori di Bianchini “horror autoriali di rispetto”. In effetti è quantomeno doveroso notare e ammirare la capacità del regista di ritagliarsi una propria personalità e di portarla fino alle estreme conseguenze, entro i problemi che la povertà di fondi può portare con sé.

Oltre il guado è poi un film di genere decisamente particolare che, ben lungi dal ricadere negli ormai triti e ritriti stereotipi della cinematografia statunitense sull’argomento (Paranormal Activity e R.E.C. sono stati dei punti di non ritorno, come a suo tempo lo era stato The Ring), risulta essere in fin dei conti un lavoro riflessivo e meditativo, dove l’orroroso si configura più come un’esperienza mentale che come una plateale e grottesca ostentazione di sangue e interiora. È cinema d’atmosfera quello che produce Bianchini, realizzando un prodotto in cui le atmosfere contano più dei fatti e dove la studiatissima incidenza della luce sulle superfici oscure garantisce alla fotografia una perfezione inusuale.


Una nota deve essere poi necessariamente fatta alla perfetta integrazione entro lo scorrere delle immagini di sequenze eterogenee per supporto e natura: le sequenze riprese dalle webcam nel bosco e i filmini mostrati ai volontari dall’anziano personaggio rompono il fluire dell’immagine e ricordano agli spettatori quanto quelle interruzioni siano splendidamente metacinematografiche (il mantenimento del rumore del proiettore è stata una trovata davvero geniale). In conclusione si può affermare senza temere di apparire troppo celebrativi, che Oltre il guado è un prodotto di tutto rispetto, decisamente superiore a una larga parte della cinematografia di genere italiana e non; forse lo stesso Argento, dopo gli scivoloni clamorosi de La terza madre e soprattutto di Dracula 3D dovrebbe ritornare sui banchi di scuola. 
VOTO: 7/10

mercoledì 3 luglio 2013

Spring Breakers: Una vacanza da sballo



Spring Breakers: Una vacanza da sballo di Harmony Korine - Genere: drammatico - USA, 2012

Nessun film può trarre più in inganno di questo: l'ultima fatica cinematografica di Harmony Korine, autore del bel Gummo (non particolarmente apprezzato, anche da voci autorevoli, ma secondo me veramente meritevole) ha tutta l'aria di essere una commedia senza impegno per adolescenti spostati, una versione estrema e dal tasso alcolico eccessivo de Una notte da leoni o simili. Niente di più sbagliato: anche la presenza delle ex ragazzine Disney potrebbe portare fuori strada e il modo in cui il film è stato pubblicizzato in Italia certo non aiuta. Comunque, alla prova dei fatti Spring Breakers si rivela non solo una piacevole sorpresa ma senza dubbio uno dei migliori film statunitensi degli ultimi anni che mi sia capitato di vedere.

Come in Gummo anche in questo lavoro il regista dipinge impietosamente un mondo in decomposizione, violento, dove il desiderio di fuga sembra essere il motore immobile che aziona gli ingranaggi dell'esistenza. Le quattro protagoniste partono per le vacanze di primavera rapinando un supermarket e si danno poi a una successione fluida e indistinta di party alcolici e sessualmente promiscui. La regia si fa lisergica e i toni diventano esasperati sia da un punto di vista cromatico sia per quanto riguarda la messa in scena. La ripetizione ossessiva di situazioni e dialoghi qui non ha la valenza filosofica vansantiana e sembra essere l'eco di un trip da acidi durato troppo. 

L'universo di riferimento è lo stesso: se Gummo rappresentava un mondo fisicamente distrutto, Spring breakers riporta questo elemento nella completa mancanza di etica di un mondo a sé stante, un'isola dove tutto è possibile, dove le protagoniste "possono essere loro stesse". Questo è molto significativo e ci comunica efficacemente come in fin dei conti la mancanza di punti di riferimento porti con sé un annichilimento pressoché assoluto dell'egoità individuale, che comunque non sfocia mai - almeno in quest'opera - in una critica di qualche genere agli istituti della società. Come già ci aveva mostrato, Korine si limita ad osservare in modo distaccato, a riprendere senza commentare una realtà che è e sembra non poter essere altrimenti.

Il finale apertissimo ce lo conferma: i mondi narrativi sono ancora infiniti e non è possibile dire come questo film profondamente videoludico possa concludersi. Soprattutto nelle ultime sequenze, le migliori secondo me, sembra quasi che tutto ciò che sta accadendo di fronte ai nostri occhi persi in un baluginio fosforescente e allucinogeno non si altro che il frutto di una finzione da sala giochi: la sparatoria nella villa di Big Arch ha in effetti le movenze e le modalità di quelle del celeberrimo Max Payne, cosa che potrebbe essere confermata anche dall'uso del rallenty come contraltare al bullet-time

Concludendo, siamo di fronte a un titolo molto serio, estremamente meritevole da un punto di vista tecnico (la fotografia è veramente splendida) e che non deve trarre in inganno gli spettatori. Non la solita college-commedy ma un tentativo ben riuscito di staccarsi dalla mediocrità dei prodotti cinematografici che un certo cinema continua a sfornare. Personalmente, uno dei film migliori che abbia visto quest'anno.
VOTO: 8.50/10

martedì 2 luglio 2013

Chernobyl Diaries: La mutazione



Chernobyl Diaries: La mutazione di Bradley Parker - Genere: horror - USA, 2012

Dai creatori di "Paranormal Activity", recita la locandina del film di Bradley Parker... e si vede. Il marchio della fortunata serie americana si percepisce chiaramente anche nel modo di impostare le immagini di Chernobyl sebbene complessivamente, il prodotto in esame sia in qualche modo superiore. La rinuncia alle atmosfere chiuse e asfittiche di Paranormal rappresenta infatti un deciso passo avanti, per evitare di rimanere eccessivamente fossilizzati su un tipo di ambientazione che ha ormai perso la sua carica emozionale e si presenta più come uno stilema di maniera. 

Le atmosfere e le ambientazioni di Chernobyl sono infatti il suo punto forte. La ricostruzione della cittadina post-nucleare fatta nei Balcani è infatti molto bella e in ogni singola inquadratura, in particolare in esterno, si percepisce chiaramente il senso di uno sfacelo epocale, paragonabile per gravità e modalità di abbandono dell'abitato alla celebre eruzione vesuviana di Pompei. I luoghi diventano quasi fermo-immagine della fine e questo carica le immagini di una valenza estetica molto piacevole, aiutata anche dalle felici scelte cromatiche di tutta l'ambientazione. 

Tutto questo però si consuma molto in fretta. Passati i primi venti/trenta minuti, quando la minaccia degli esseri misteriosi comincia davvero a farsi concreta, il film si ripiega inevitabilmente su sé stesso e ripercorre schematicamente e senza grosse innovazioni la tipologia standard del genere. E' un peccato, dopo un inizio quantomeno gradevole e non ci viene risparmiata neppure la ormai canonica sequenza in stile REC con la ripresa video del telefonino di due dei protagonisti. 

Nel complesso un film abbastanza anonimo che, nonostante qualche idea potenzialmente efficace, risulta poco incline a spingersi fino in fondo e sceglie di ritornare sul tracciato sicuro del nuovo canone horror. 
VOTO: 4.50/10

Rosemary's Baby: Nastro rosso a New York



Rosemary's Baby: Nastro rosso a New York di Roman Polanski - Genere: thriller - USA, 1968

Ho deciso di vedere questo film, di cui avevo già sentito parlare, dopo essermi reso conto di come, in che me ne parlava, ci fossero spesso opinioni discordanti. Da una parte gli elogiatori affezionati, dall'altra chi ne lamentava la pesantezza narrativa e, in fin dei conti, ne era rimasto scontento o deluso. Dopo la mia visione posso dire senza difficoltà di voler entrare a testa alta nella prima di queste due schiere; il film di Polanski mi è piaciuto tantissimo e secondo me racchiude un modo di fare e intendere il cinema molto diverso da quello attuale, che meriterebbe di essere riscoperto e rivitalizzato. 

La vera genialità (o almeno uno degli elementi che possono contribuire a questa definizione) sta nel modo di gestire la tematica. A parte la precocità cronologica (gli altri due titoli storici che si avvicinano più o meno a questo genere di lavoro, L'esorcista di Friedkin e Omen di Donner sono della decade successiva), mi riferisco alla modalità che il regista ha di raccontare la vicenda. In Rosemary non c'è niente di evidente, tutto è onirico e assume i tratti della visione paranoide. Nel pieno della narrazione ci sono dei momenti in cui lo spettatore non è onestamente in grado di dire se i deliri della protagonista siano reali oppure frutto di una mania di persecuzione portata all'eccesso e i piccoli sviluppi che si inseriscono nella diegesi non fanno che perpetrare questa sensazione. 

La cosa fra l'altro mi ha aperto un nuovo spazio di riflessione, facendomi notare la superba paradossalità di un film in cui a livello linguistico siamo di fronte a un lavoro chiaro, fortemente narrativo, mentre per quanto riguarda i contenuti è ben difficile dire che cosa stia accadendo nella realtà e quale sia lo statuto epistemologico delle immagini che ci scorrono davanti agli occhi. E' arduo se non impossibile (prima delle sequenze finali, quantomeno) determinare dove finiscono gli incubi di Rosemary ed escludere che tutto ciò che le sta accadendo non sia frutto di una sua malata elaborazione. 

Una tragedia di sensazioni dunque e non una fiera dei corpi come spesso accade nei film consimili più o meno attuali (anche L'esorcista ha in realtà una carica fisica molto accentuata). Il Demone è nelle nostre menti o - forse - nei nostri occhi? Sta di fatto che il film di Polanski ha fatto la storia e ha contribuito fortemente a plasmare un'immaginario in cui il Male non è più considerato come una sostanza completamente aliena dalla realtà, ma spesso la penetra e ne fa parte.
VOTO: 9/10