venerdì 15 giugno 2012

E ora parliamo di Kevin - Recensione


E ora parliamo di Kevin di Lynne Ramsay - Genere: drammatico - UK, USA, 2011

Eva ha messo da parte le sue ambizioni professionali e il suo amore per New York per crescere Kevin in provincia e in tranquillità, ma il rapporto tra madre e figlio è sempre stato complicato, fin dal principio. Da neonato non smetteva mai di piangere, da bambino non parlava, poi non ha mai fatto altro che disobbedire. Tutto contro la madre, per provocarla e addolorarla. A 16 anni, infine, Kevin ha premeditato e commesso il peggio: una strage, a scuola. Due anni dopo, Eva ripercorre i ricordi, in cerca delle proprie mancanze, delle proprie responsabilità e di un perché. 

Film controverso, esteticamente potente e tragicamente attuale, E ora parliamo di Kevin - pellicola adattata da un romanzo -, terzo lungometraggio del regista Ramsay appare come una sorta di grande oggetto magmatico e misterioso, che pulsa sotto i nostri occhi e - parzialmente - al di fuori del nostro controllo. Un film controverso e complesso, che merita tutta l'attenzione possibile per essere compreso fino a fondo. 
Il motore della vicenda è la mente di Eva, che elucubra a posteriori la sua vita, quella del figlio e della sua famiglia. E' quindi un film che non rispetta una linearità narrativa, rifiutando anzi programmaticamente qualsiasi continuità spazio-tempo-causale. I frammenti della trama si disperdono come polvere, per poi ricomporsi (in maniera frammentaria e disordinata) solo grazie alla rielaborazione operata dalla mente-Eva, che cerca di trovare un senso alla questione. E' qualcosa di simile a quanto fa Gus van Sant in Paranoid Park, ma qui le potenzialità del sistema sono fatte esplodere sin dal principio, dove un incipit assolutamente visionario inaugura una vicenda filmica che vive non tanto dei fatti ma dell'estetica.

La narrazione procede attraverso liberi accostamenti, un montaggio spezzato e concettuale domina incontrastato sulla connessione delle sequenze. Non è il regista a operare i tagli di montaggio, ma la mente della protagonista; non è un film quello che stiamo vedendo, ma il flusso di coscienza di una madre che convive con la propria impotenza. Lungo la durata della pellicola ci muoviamo quindi fra un ricordo e l'altro, come se ci si volesse far entrare nel regno dell'inconscio di Eva, dove i ricordi si affastellano in fretta in base alle suggestioni del momento. E così, molto spesso, un suono del presente ci riporta al passato, causando un piacevole e destabilizzante slittamento di piani narrativi, che costituisce una delle migliori soluzioni di questa pellicola.

Le immagini sono potenti ed evocative; predomina - da un punto di vista cromatico - il rosso, riproposto costantemente e in una tonalità molto warholiana (richiamo fin troppo didascalico al sangue della strage, ma forse anche ad altri elementi). Le inquadrature hanno spesso una loro dignità plastica e pittorica, risultano ben costruite e piacevoli da guardare anche in versione "stop-motion". 
Abbondano in tutto il film le superfici riflettenti, che spesso ci permettono di vedere una scena da diversi punti di vista e che - in generale- contribuiscono alla moltiplicazione delle figure e dei centri d'attenzione dentro la figura. Lo specchio richiama il doppio e i vetri si ricollegano (anche qui, un po' didascalicamente) alla presenza di confini non valicabili, come quello fra Eva e Kevin. 

La colonna sonora è adeguata e conferisce a tutta la vicenda un tono vintage e a tratti vagamente country. In questo senso, probabilmente, va letta anche la continua riproposizione di un tema sonoro tipico delle scene di duello western che, nel nostro caso, incornicia i momenti di conflitto (anche solo di sguardi) fra madre e figlio. E' proprio di questo delicato rapporto psico-edipico che il film parla, in fin dei conti. E' vero, è un tema vecchio come il mondo (da "Psycho" in poi i titoli al riguardo non si contano), ma la caratteristica di E ora parliamo di Kevin sembra essere la completa permeabilità delle figure. In altre parole, Kevin appare in alcuni punti della vicenda come una proiezione di un desiderio frustrato di Eva, come se i più reconditi recessi della sua parte passionale e irrazionale avessero preso corpo e si fossero manifestati davanti a lei. In questo modo, credo, acquisterebbe maggiore pregnanza anche la presenza di superfici riflettenti e moltiplicatorie dentro le inquadrature. 

In ultimo, una nota su Tilda Swinton, che svetta su tutto il resto del cast (pure ottimo, s'intende) per la potenza e la tragica drammaticità della sua interpretazione. La nodosità delle sue mani, gli occhi scavati, l'ossessivo tentativo di cancellare le tracce del suo passato scrostando il rosso dai muri sono tutte azioni che fanno di Eva la quintessenza della maternità e allo stesso tempo un'eroina dotata di un phatos tragico con il quale non è possibile non entrare in empatia. Lo sguardo vuoto di Eva si può leggere e apprezzare appieno se messo in relazione con quello intrinsecamente folle e insensato di Kevin, incorniciato da un sorriso assolutamente perturbante, quale non si era mai visto dal Joker di Jack Nicholson, probabilmente. Un sorriso omicida, che conduce lo spettatore - per un attimo soltanto slegato dalla mente di Eva - a vedere (anche se con la dovuta decenza, evitando facili cadute verso il grottesco) la strage commessa a scuola. Una strage su cui il regista non da spiegazioni (cfr. Elephant di Gus van Sant), come se fosse frutto di un'altra mente.

Un film assolutamente da vedere; a mio avviso uno dei migliori prodotti degli ultimi anni per intensità drammatica e costruzione estetica

VOTO: 10/10

martedì 12 giugno 2012

Je t'aime, moi non plus - Recensione


Je t'aime, moi non plus di Serge Gainsbourg - Genere: drammatico - Francia, 1976


È la storia di una coppia di amanti omosessuali tra i quali si insinua una donna dall'aspetto decisamente mascolino. Dopo un tentativo di tornare normali, i due diversi si rimettono insieme.

Film manifesto della prima generazione cinematografica queer, Je t'aime, moi non plus (letteralmente "Ti amo, io no"), è una semplice ma drammatica storia d'amore con struttura triangolare, ambientata negli anni Settanta. Ricorda, ovviamente a rischio di commettere una forzatura, l'impianto narrativo di Les amours imaginaries, apprezzato film di Xavier Dolan di cui però la pellicola Gainsbourg non condivide le innovazioni formali e stilistiche, oltre che la cifra estetica. Ed è un vero peccato.

Da un punto di vista tematico la struttura risulta definita dopo poco dall'inizio del film e non ci sono mai stravolgimenti significativi o avanzamenti degni di nota nel tessuto narrativo. E' una continua agonia, che ricalca il desiderio d'amore che i personaggi sembrano perseguire incessantemente, desiderio che rimarrà (come ci si potrebbe aspettare) inappagato. E' un film che cerca di appianare le differenze, ma non ci riesce. E' un inno all'amore impossibile, impedito da forze che non si riescono bene a identificare, ma che agiscono sottocutanee e inesorabili.

Formalmente ineccepibile, il film ripete con il dovuto accademismo il repertorio stilistico dei film moderni (ripresa tremolante di luoghi degradati e realistici, montaggio spezzato etc.), ma non si riesce a trovare un filo conduttore, non ci sono delle suggestioni sufficienti a far respirare le immagini. La narrazione debole, unita a una struttura non particolarmente felice, che pur non avendo nulla di sbagliato non sembra completamente adatta alla vicenda, finisce per risultare stucchevole e noiosa.

Unici punti degni di nota di un film quasi completamente anonimo sono il comparto sonoro (dove, però, il tema principale ritorna con un'insistenza decisamente esagerata) e alcune pose fotografiche, in particolare nelle scene a sfondo sessuale, che danno ai corpi una plasticità quasi scultorea e molto suggestiva. Un film che avrebbe potuto sperare in molto di più, ma cade inesorabilmente nel dimenticatoio; peccato

VOTO: 5.50/10