giovedì 31 ottobre 2013

Benny's Video



Benny's Video di Michael Haneke - Genere: drammatico - Austria, Svizzera, 1992

Un film glaciale, che si apre e si chiude con un inserto in presa diretta girato con una camera a mano (?) in modo amatoriale e impreciso. Tutto è sospeso e contenuto entro questi due momenti, che diventano la chiave di lettura e di interpretazione dell'intera - bellissima - pellicola di Haneke, forse più celebre per l'ugualmente ben fatto Funny games. Con uno spirito indagatore, il giovane Benny, filma l'uccisione di un maiale e la sua agonia dopo aver ricevuto il colpo: il suo sguardo si fa portatore di un'indagine morbosa, tradotta formalmente con l'osservazione attenta del volto dell'animale contorto negli ultimi spasimi.
 
L'immagine, piantatasi solidamente nel suo immaginario, inaugura una nuova consapevolezza nel protagonista che, moderno flaneur senza interesse ne consapevolezza, vive guardando le immagini sullo schermo. La sua intera esistenza è in effetti mediata e anzi sostituita dall'artificialità di ciò che viene mostrato dalla televisione, dalle cassette della videoteca o da lui stesso. Anche il panorama al di fuori della sua finestra non esiste in quanto tale, ma solo attraverso la mediazione di un apparecchio di registrazione in diretta, che trasmette su uno schermo le immagini riprese in piano-sequenza del mondo esterno, che così facendo si qualifica come entità completamente separata e inattingibile.
 
Tutto ciò che di significante avviene all'interno della pellicola ha in effetti una natura fortemente mediata, tanto da farci dubitare che ne esista un corrispettivo reale. La stessa uccisione della ragazza, annomima copratogonista di questa vicenda a tratti quasi onirica, viene mostrata in fuori campo proprio su quella televisione che costituisce l'unico elemento di conginunzione fra Benny e il mondo esterno. In questo drammatico disegno esistenziale in cui (a differenza di molti altri commentatori) non vedo una vena di critica sociale alla condizione della gioventù contemporanea, lo spettatore si trova costantemente sospeso fra lo sviluppo di una diegesi particolarmente debole e la rottura di ogni impressione di continuità grazie al costante intervento di frammenti di grana diversa, che costringono chi guarda a ritrovarsi nella stessa condizione gnoseologica del protagonista.
 
Nel complesso un film violento, interessante e formalmente molto ben fatto che meriterebbe di ricevere una maggiore attenzione di pubblico e di critica (almeno, di una certa parte). E' senza dubbio possibile leggere fra le righe un accenno di critica all'alienazione dell'adolescenza assorbita dal flusso anestetizzante delle immagini, ma credo che eleggere questo paradigma di lettura a chiave interpretativa generale dell'intera opera ne riduca fortemente le possibilità e ne faccia purtroppo dimenticare le felici trovate formali (fra cui, vale almeno la pena di ricordare in extremis il ricorso al riavvolgimento dell'immagine registrate che - si ricorderà - trova la sua massima espressione proprio in Funny Games).
 
VOTO: 8/10

martedì 29 ottobre 2013

Alps



Alps di Yorgos Lanthimos - Genere: drammatico - Grecia, 2011

Il film rivelazione che ha lanciato Lanthimos nel mondo del grande cinema, il pluripremiato Dogtooth, rimane senza dubbio il suo capolavoro. Nell'attesa di poter vedere il suo annunciato The Lobster, il qui presente Alps rappresenta un piacevolissimo intermezzo, ben realizzato ma a mio avviso non all'altezza del suo predecessore. Il cambio di tematiche e - almeno in parte - di poetica, pone infatti questo film su un piano diverso rispetto al lavoro precedente del regista che - come si ricorderà - proponeva una cruda esasperazione degli stereotipi borghesi di vontrieriana memoria, accompagnata da una riflessione sul linguaggio che deve senza dubbio avere affascinato Athina Rachel Tsangari (qui accoppiato a Lanthimos nel ruolo di produttore). 

Alps è un film stilisticamente molto gradevole che, per tutta la prima parte, gioca sullo sbalestramento percettivo dello spettatore, perso in una successione mal coordinata di apparizioni. Col procedere della vicenda (o, sarebbe forse meglio dire, delle vicende?) la situazione si chiarifica e la potenza teorica del lavoro di Lanthimos si mostra chiaramente: i suoi personaggi diventano allora delle "apparizioni" nel senso berkeleyano del termine, nel senso che esistono "a intermittenza" all'interno di un sistema di ruoli altamente codificato. Il meccanismo che sta alla base di questo processo concretizza la celebre teoria del "complesso della mummia", secondo cui la fotografia, il cinema e gli altri meccanismi di riproduzione del reale assolverebbero in ultima analisi una funzione di conservazione a beneficio dei posteri, preservando dalla disintegrazione la memoria di un allora che non è più e la cui rimemorazione viene affidata a un simulacro materiale. 

L'opera consolatoria che i protagonisti, quasi tele bianche su cui le circostanze inscrivono le definizioni caratteriali che li rendono personaggi, mettono in opera dietro compenso assume quindi una funzione assimilabile a questo orizzonte. Ciò non può non suggerire allo spettatore che dietro al discorso di Lanthimos si nasconda un "messaggio" metacinematografico, che proprio queste caratteristiche delle arti visive (e del cinema in particolare), si propone di indagare. La cortocircuitazione che si consuma fra reale e immaginario assume sempre più le forme di una caduta in cui le parti e i ruoli si fanno progressivamente più confusi ed entro cui, alla fine, non è più possibile distinguere quale sia la realtà rispetto alla quale si costruisce il "gioco delle maschere". In altre parole, qual'è la vera vita che la protagonista si è scelta (semmai questa definizione potesse essere valida)? Potremmo essere portati a credere che sia quella di placida infermiera che vive con il padre? Certamente sì, eppure il brevissimo brano in cui lei cerca di indagare il sesso del padre non può lasciarci indifferenti, non può non aprire uno spiraglio di dubbio nelle poche certezze che avevamo ricavato.

Lanthimos realizza un film che non ha in definitiva senso nell'accezione classica del termine. Senza progressione narrativa né caratterizzazione dei personaggi, che alla fine non possiamo neppure più definire tali, rimane "soltanto" un prodotto magistralmente realizzato e in cui regna sovrana la confusione dei ruoli e del senso di realtà che, in modo molto più consapevole di quanto non accada altrove, viene definitivamente messo in crisi.

VOTO: 8.50/10

venerdì 25 ottobre 2013

Attenberg



Attenberg di Athina Rachel Tsangari - Genere: drammatico - Grecia, 2010

 
Presentato alla sessantasettesima Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto (meritatamente) la Coppa Volpi e scelto per rappresentare la Grecia agli Academy Awards del 2012, Attenberg è un film complesso, profondamente contemporaneo e contraddistinto da una ricerca espressiva che si manifesta tramite una notevole politezza di esecuzione. La semplicità rimane dunque la qualità principe di un lavoro particolarissimo che, richiamandosi in maniera piuttosto diretta alle felici realizzazioni di Giorgos Lanthimos (e a Dogtooth in particolare), accompagna in maniera quasi impersonale una diegesi che è ridotta al minimo: la vicenda è semplice e lineare e anche i personaggi coinvolti nel suo sviluppo sono pochissimi; questa rinuncia alla componente patetico-rappresentativa diventa anche qui come altrove la condizione necessaria ad un'indagine più attenta di altri aspetti, più formali che narrativi.
 

L'influenza di Lanthimos, co-produttore del film e addirittura attore nel ruolo di un ingegnere, si percepisce con chiara evidenza nelle due tematiche più importanti dell'intera pellicola, vale a dire il trattamento del paesaggio e - soprattutto - il problema del linguaggio. Come si è già avuto modo di accennare, Attenberg è un film dai toni mininalisti, che fa muovere i suoi - pochi - personaggi  (ma sono davvero tali? Cosa sappiamo di loro?) in un universo spoglio o comunque disabitato. Non ci sono che presenze fantasmatiche nella Grecia di Tsangari, che riprende qui il gusto per gli interni asettici che è proprio di Lanthimos. Anche i pochi individui che fanno da contorno allo sviluppo della narrazione non mutano la realtà dei fatti e il loro passaggio finisce con il rassomigliare a quello delle comete, che attraversano i cieli pur senza mutarne la natura. Anche da un punto di vista visivo la loro presenza si caratterizza per una divisione, essendo sempre divisa da quella delle due protagoniste da un medium (una strada, un vetro etc.), che rende impossibile la comunicazione e il rapporto.
 
Questo ci permette di introdurre la problematica - anche questa volta innegabilmente mutuata da Dogtooth - del linguaggio. Anche se Tsangari non raggiunge i livelli del suo co-produttore nella dissoluzione delle nozioni linguisticamente fondamentali di senso e riferimento, l'attenzione alla parola e al suo potere viene studiata sin dai primi minuti di Attenberg, fondendosi spesso con una attenzione tutta particolare alla sessualità e ai termini che la definiscono. Il punto di massimo di questa ricerca è raccolto nella scena in cui Marina e il padre, seduti su un letto matrimoniale (entro una camera bianchissima!), pronunciano una serie di parole dal suono molto simile, dando il via ad una catena che preso sconfina nell'imitazione del verso animale, fino a far diventare il loro gioco una vera e propria pantomima tutta votata alla mimesi del non umano. E' questo il destino del linguaggio o, forse, la sua base? Il doppio statuto delle parole che spesso recano entro sé il germe del loro contrario; forse è questo il punto di arrivo della ricerca che qui si avvia?
 
E in questo panorama desolato ma non per questo misantropo, la macchina da presa disegna spesso il profilo di questi non-luoghi del contemporaneo ricorrendo a stilemi normalmente espunti dal canone del cinema di consumo: il fermo immagine, riprese lunghe e/o con punto di ripresa fermo, sconfinamento delle azioni nel fuori campo con inquadratura che resta vuota. Tsangari ci propone una sintassi atipica ma ricercatissima, un continuo rimando alla frammentarietà dei linguaggi (filmici, verbali, segnici etc.) che - nella "isteria piccolo borghese" in cui ci ritroviamo tutti confinati, è diventata una costante del nostro modus vivendi.
 
VOTO: 9/10

giovedì 24 ottobre 2013

La morte corre sul fiume



La morte corre sul fiume (The night of the hunter) di Charles Laughton - Genere: thriller - USA, 1955

Se qualcuno decidesse di affidare ad un attore (italiano o meno che sia) la direzione di un film. possiamo scommettere che - salvo alcune eccezioni - il risultato sarebbe verosimilmente disastroso. Charles Laughton, premio Oscar al miglior attore nel 1934 per Le sei mogli di Enrico VIII, in un'epoca in cui il cinema aveva tutta un'altra valenza, è riuscito a confezionare quel piccolo capolavoro che è La morte corre sul fiume. Suo unico film, girato in pochissimo tempo e con una qualità tecnica veramente notevole, il suo lavoro si fa ricordare anche e soprattutto per uno stile particolarissimo che, anche calato in un'epoca in cui la linearità classica aveva già subito degli attacchi, si caratterizza per una serie di scelte estetiche davvero ingegnose. 

Influenzato tanto dalla poetica griffithiana quanto dalle Avanguardie europee, Laughton confeziona un prodotto fortemente narrativo che può essere letto in maniera stratificata, a più livelli di complessità che possono facilmente essere riconnessi a porzioni di pubblico dotate di interessi differenti. Se da una parte la diegesi si risolve nella versione un po' movimentata di una conciliante storia dai toni quasi fiabeschi, ad un livello di lettura più elevato possiamo notare dapprima la critica neppure troppo sottesa a un certo tipo di approccio al mondo della religione e poi - a salire -la malcelata misoginia di un autore che rappresenta quasi tutti i suoi personaggi femminili come donne credulone e facilmente abbindolabili e la preziosità di alcune scelte stilistiche. 

Se è innegabile, ad esempio, un certo influsso dell'Espressionismo tedesco soprattutto per quanto riguarda l'uso (appunto espressionistico) delle luci che spesso operano dei veri e propri tagli sulle figure, mi pare altrettanto evidente l'influenza di un certo cinema francese che, soprattutto in alcuni momenti (emblematica la sequenza in cui viene scoperto il cadavere di Willa Harper), si manifesta nella ricerca di un cinema che sia più delicato e pittorico (penso, ad esempio, ai massimi capolavori di Jean Vigo). 

A incorniciare il tutto non possiamo non ricordare la meravigliosa interpretazione di Robert Mitchum, che dona al personaggio di Harry Powell una presenza importante e concreta, che appare fortemente amplificata dalla gestione intelligente della fotografia e delle luci che Laughton è riuscito a mettere in campo in questa sua prima ed ultima opera. Di certo è impossibile compendiare in poche righe l'importanza e il merito di un film come questo che - come sempre e ancora una volta - merita senza dubbio di essere visto per poter essere apprezzato (e analizzato) sino in fondo.

VOTO: 8.50/10 

lunedì 14 ottobre 2013

Tulpa



Tulpa: Perdizioni Mortali di Federico Zampaglione - Genere: thriller - Italia, 2013

Federico Zampaglione, al suo terzo lavoro da regista, è considerato dai più come il legittimo erede di una tradizione, quella del Giallo all'italiana, che sembrava destinata a spegnersi. Parliamo di quel filone di pellicole che, inaugurato da Mario Bava con film quali Sei donne per l'assassino, ha raggiunto il suo apice con le fatiche argentiane della Trilogia degli Animali e ha toccato il punto di massimo sviluppo con Profondo Rosso. Dopo l'involuzione della poetica argentiana, che ha portato a prodotti come il trascurabilissimo Il Cartaio, il genere sembrava destinato a scomparire, almeno momentaneamente, dalle scene. E' una fortuna, allora, che il film di Zampaglione si sia proposto come una consapevole riflessione del panorama iconografico e situazionale di questo cinema di consumo ormai all'empasse. 

Ragionando sul bacino tematico squadernato da Argento, Zampaglione svecchia le figure di film quali Il gatto a nove code e sceglie di ambientare la doppia vita della sua protagonista nel dechirichiano quartiere dell'EUR a Roma. Entro spazi anonimi tratteggiati con sapienza ma ripresi in maniera ampiamente impersonale, una Claudia Gerini bella ma troppo spesso eccessiva nella recitazione, si barcamena fra una vita da manager in carriera e delle serate all'insegna della trasgressione sessuale in un club dalle tinte rossastre e dalle atmosfere orientaleggianti. E' interessante notare come i luoghi del film rispecchio appieno l'itinerario esistenziale della Gerini, sospesa nella tensione fra l'ordine apollineo del suo lavoro in una grossa società ai piani alti di un bell'edificio dal gusto razionalista e la passione sobbollente nei sotterranei di un garage. 

Entro questo range di situazioni per la verità piuttosto classiche il registra organizza la dinamica non eccessivamente innovativa della vicenda propriamente "gialla". Se da una parte possiamo apprezzare l'originalità degli omicidi, presenti in gran numero e rappresentati senza lesinare sui dettagli truculenti, non possiamo non notare come la gestione della suspence lasci in qualche modo a desiderare. Quando l'assassino svela la sua identità, si innesca un prevedibile meccanismo nel quale Zampaglione cade nel prevedibile errore di voler omaggiare quel fastidioso gusto argentiano per il paranormale e l'occulto. Se fino a quel momento il film si manteneva entro un solido e cruento realismo, appena disturbato da un interesse misterioso per l'occulto e il metafisico, l'evoluzione conclusiva appare forzata e fuori luogo.

Il film, tecnicamente discreto, si fa ricordare soprattutto per la bellezza della fotografia, soprattutto all'interno del club dove la Gerini passa le sue serate all'insegna della passione. In queste occasioni la gestione perfetta del colore e delle ombre garantisce ai corpi una presenza statuaria e vibrante, immersa in un colorismo irreale e perturbante. Un'ultima nota va certamente fatta alla bellissima interpretazione di Nuot Arquint, che ha reso Kiran il personaggio largamente più riuscito dell'intero film. Nel complesso un lavoro interessante, che lascia intravedere una speranza di sviluppo per il cinema italiano lungo una direttrice che è stata, storicamente, una delle sue strade maestre; un peccato per la presenza di alcune difficoltà tecnico-interpretative che in un certo senso indeboliscono le qualità di un lavoro altrimenti molto valido.

VOTO: 5.50/10 

domenica 13 ottobre 2013

Aquadro



Aquadro: La prima volta non si scorda mai di Stefano Lodovichi - Genere: drammatico - Italia, 2013

Una delle costanti del cinema italiano di consumo degli anni Duemila, che ancora ci stiamo portando dietro, sembra essere la predilezione per storie d'amore che indagano il mondo degli adolescenti attraverso delle lenti più o meno ammiccanti, critiche o consapevoli. L'esempio delle atroci pellicole tratte dai fortunati libri di Federico Moccia sarebbe fin troppo facile; ci permettiamo quindi di segnalare come anche un film come Melissa P., racconto cinematografico romanzato del caso letterario dell'omonima autrice si inserisca perfettamente entro questo panorama di produzioni. Stefano Lovodichi, classe 1983, propone una sua visione di questo ormai indagatissimo mondo con Aquadro, lavorazione italiana di recentissima uscita. Per una volta fa decisamente piacere vedere come il cinema italiano, quello fatto con passione da giovani autori che hanno le competenze per portare avanti un discorso compiuto, abbia ancora delle carte da giocare. Infatti, a partire da un canovaccio collaudato, il regista riesce a inserire degli elementi di forte autorialità che connotano il film come un elemento interessante e meritevole di attenzione, soprattutto in senso proiettivo. 

La storia d'amore dei due protagonisti, ancora studenti di una scuola superiore, viene raccontata da Lodovichi con sapienza narrativa e formale, cosa che non può che rendere più che legittimi i riconoscimenti guadagnati da Aquadro soprattutto per quanto riguarda la sceneggiatura. Il dettato registico, pur nella sua semplicità, si mantiene entro un buon livello di realizzazione, arricchito da alcune preziosità linguistiche che ci lasciano apprezzare, in nuce, la possibilità di una discorsività anche più articolata di quella che ci è stata proposta (i raccordi sonori, gestiti benissimo, ne sono un chiaro esempio). La perfetta dialettica fra scrittura trasparente e ricerca di ulteriori possibilità espressive rendere Aquadro un lavoro perfettamente riuscito, pur senza qualificarlo come un autentico capolavoro. Siamo di fronte, vale la pena ricordarlo di nuovo, a una validissima alternativa a molto cinema popolare che, con la presenza di divi dalle dubbie capacità recitative, cerca di fare presa su un pubblico disattento: Lodovichi, invece, sembra pretendere qualcosa in più dal suo pubblico, costretto a seguire il procedere di un amore ormai privo di qualsiasi parvenza auratica, raccontato a volte in maniera non immediatamente intellegibile. 

Un modo nuovo e intelligente di parlare degli adolescenti agli adolescenti, senza perdersi nel mare limaccioso dei facili sentimentalismi e nel contempo evitando di tratteggiare un'immagine erronea e semplificata delle dinamiche relazionali di una gioventù sempre più legata alla finzionalità dell'immagine informatica, a tal punto da non vedere - spesso - l'evidenza di ciò che succede nella realtà.

VOTO: 7/10 

Cannibal Diner



Cannibal Diner di Frank W. Montag - Genere: horror - Germania, 2012

Pensare che il cannibal-movie è un'invenzione grossomodo italiana può essere considerato almeno in qualche senso, un merito; è innegabile infatti che il filone di pellicole cui appartiene ad esempio il controverso Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, abbia contribuito alla ridefinizione di un genere che, da sempre, procede per accumulazioni e derive manieriste di cicliche innovazioni. E' stato così per l'epigonismo balbettante dei prodotti derivanti dalla filiazione di Ring, mentre attualmente assistiamo a riproposizioni invarianti di stilemi apparsi compiutamente in R.E.C. ma già presenti in un progetto pionieristico come The Blair Witch Project. Cannibal diner si inserisce quindi in un filone di titoli ben collaudato ma ormai metastatico e lo fa - fra le altre cose - raccattando citazioni illustri con cui cercare di risollevare il livello del prodotto.

L'unico punto interessante di un film completamente piatto, sono infatti le riproposizioni di immagini e topoi derivanti da titoli più o meno riusciti che, in ogni caso, hanno fatto la storia del cinema. Così è impossibile non riconoscere la sequenza ricalcata sul modello della notissima scena di Shining in cui Nicholson abbatte la porta della stanza da bagno a colpi di accetta. Allo stesso modo l'intera struttura narrativa del lavoro di Montag propone una mistura malriuscita di elementi che possiamo ritrovare tanto nel classico Le colline hanno gli occhi (anche se in questo film pare senza dubbio maggiore, anche solo per questioni di ritmo narrativo, l'influenza dei remake successivi) quanto nel ben più recente Chernobyl Diaries. 

Ma se quantomeno nel film ambientato nel luogo della fuoriuscita di radiazioni più nota della storia, la fattura tecnica era per certi versi almeno accettabile, la realizzazione di Cannibal Diner risulta, da tutti i punti di vista, un pasticcio che pare non tentare neanche di proporre qualcosa di minimamente innovativo. Anche a livello di intrattenimento, comunque, l'obbiettivo sembra non essere stato raggiunto: non potendo cercare di creare qualcosa di originale, il regista avrebbe potuto quantomeno cercare l'accondiscendenza degli appassionati investendo sul lato gore e truculento della vicenda; purtroppo le scelte sembrano andare in direzione contraria e l'effetto generale è di una noia estrema a fronte di una durata quantomai ridotta, che non arriva neppure agli 80 minuti.

VOTO: 2/10

sabato 12 ottobre 2013

Bling Ring



Bling Ring (The Bling Ring) di Sofia Coppola - Genere: drammatico - USA, 2013

Film di apertura della sezione Un certain regard di Cannes 2013 e ultima fatica della apprezzatissima Sofia Coppola, The bling ring è stato un film enormemente discusso dal momento del suo arrivo nelle sale italiane, con un bombardamento mediatico decisamente importante e con il relativo precipitarsi in sala di fiumi di spettatori attratti dal lato glamour della vicenda raccontata e dalla presenza della fortunata Emma Watson, che aveva già dato una buona prova di sé in Noi siamo infinito. Che la Coppola si sia interessata, nel corso della sua carriera, all'adolescenza e ai meccanismi esistenziali che questa fase innesca nei suoi protagonisti è un dato di fato; impossibile non ricordare a tal proposito il suo lavoro d'esordio (Il giardino delle vergini suicide), che proponeva in maniera efficace un nuovo schema di formazione che, nell'ambito della dinamica fra Eros e Thanatos, conduceva a uno sviluppo dei suoi diafani protagonisti.

Per certi versi, assistiamo a un recupero almeno parziale delle stesse atmosfere anche in questo nuovo The Bling Ring, anche se la citazione è accompagnata da un consistente rovesciamento di senso. In effetti l'ultima opera della Coppola appare statica e rigidamente antievolutiva; questo di per sé non è necessariamente un male, ma per come sono state condotte l'orchestrazione dell'opera e la gestione della sceneggiatura, vale certo la pena di chiedersi quale sia il senso di tutta questa pellicola. Da una parte potrebbe essere ammissibile ritenere che la regista abbia voluto rappresentare la vacuità dell'esistenza di un drappello di giovani che, svuotati dei valori minimi dalla voracità della società consumistica, si ritrovano a ricercare la loro possibilità di realizzazione nell'appropriazione (indebita) di feticci materiali altrui. Da questo punto di vista Bling Ring diventerebbe la massima rappresentazione di una mitografia della celebrità che fa dell'immagine in sé un valore di rappresentazione: le celebrità svaligiate dal quintetto di protagonisti non hanno altro da offrire se non la possibilità di farsi guardare e questo solo elemento, per la conformazione valoriale della società rappresentata, basta ad assicurare solo un valore auratico/cultuale di cui l'oggetto si fa materializzazione evidente.

Walter Benjamin diceva che dello sport, così come del cinema possono parlare tutti quanti; quest'affermazione in effetti riproduce bene una delle problematiche e nel contempo degli aspetti più interessanti sul discorso cinematografico. La teoria interpretativa sintetizzata poco sopra, sposata da critici insigni e da tanti dilettanti come il sottoscritto, non è che l'evidenza delle infinite possibilità che un film come Bling Ring offre di imbastire teorie che, per quanto mi riguarda, non sono altro che un tentativo di giustificare a posteriori l'opera coppoliana, arrivando in alcuni casi anche a paragonarla a Springbrakers, oggetto di ben altra levatura ma dalle tematiche in qualche modo assimilabili. Duole un po' dirlo, ma bisogna ammettere che la prova registica offerta da Sofia Coppola è, nel caso di Bling Ring, particolarmente infelice. 

Al di là di una sceneggiatura che alterna momenti di prevedibilità estrema riavvolgendo continuamente la narrazione su sé stessa nell'eterna ripetizione di situazioni formalmente equivalenti con ingenuità di scrittura che certo non ci si sarebbe aspettati da un film presentato al Festival di Cannes, il grave problema del dettato di The Bling Ring è il ruolo dello spettatore. La regia dispone infatti gli elementi della comprensione in maniera ridondante, in modo che al pubblico non sia lasciata neanche la più elementare operazione di elaborazione interpretativa: tutto è spiegato con una chiarezza quasi fastidiosa, anche quando non ce ne sarebbe stato alcun bisogno. Oltre a questa difficoltà non certo marginale è possibile individuare tutta una serie di veri e propri errori di gestione dei rapporti fra immagine e comparto sonoro e un utilizzo decisamente inadeguato della pluralità dei registri mediali (mi riferisco alle scene in cui la regista interpola il film con materiale filmato di repertorio, immagini e schermate dai social network). 

Il tutto porta alla definizione di un prodotto prevedibile e trascinato, sopratutto nella parte finale, da una retorica della narratività banale che solo in alcuni punti sembra venire parzialmente meno; purtroppo si tratta di pochissime sequenze in cui, anche se in maniera non sempre felice (l'uso eccessivo di brani rallentati ne è un esempio) che non modificano in linea di massima l'impressione generale che ho esposto nelle righe precedenti. Posso convenire con chi dirà che esistono film certamente peggiori di questo, ma da una pellicola presentata a Cannes, che ha prodotto una discorsività così forte intorno alla sua uscita, il livello che ci si aspetta è decisamente superiore. 

VOTO: 4/10 

lunedì 7 ottobre 2013

Almost blue



Almost blue di Alex Infascelli - Genere: thriller - Italia, 2000

Ricordo che alcuni anni fa, quando ancora non avevo praticamente idea di come funzionasse il cinema. H2odio, thriller del regista Alex Infascelli, trasmesso su MTV, mi colpì particolarmente. Almost blue è il stato il suo film d'esordio e, senza dubbio, si tratta di un prodotto interessante per quanto già un po'datato. In particolare mi sembra che Infascelli sia riuscito a recuperare la struttura narrativa di base della cinematografia di tipo argentiano, raggiungendo però livelli di ricercatezza formale che, a mio modesto avviso, il presunto Maestro del brivido, non è mai riuscito a raggiungere (con l'esclusione, per essere onesti, di Profondo rosso e Suspiria). Almost blue rappresenta il tentativo di un cinema italiano troppo sottovalutato di dare aria a un genere che troppo spesso si ripiega sulla sterile riproposizione di una serie di stereotipi ormai consolidati. 

Per quanto la vicenda narrativa non sia particolarmente originale (diverso era il caso del già citato film del 2005, molto più particolare a livello diegetico), l'opera di Infascelli si lascia ricordare per la capacità di orchestrare la progressione drammaturgica attraverso un ritmo irregolare basato su dei contrappunti fulminei controbilanciati da dissolvenze in nero che azzerano la visione e la percezione dello spettatore, mettendolo di fatto nella stessa situazione esperienziale di uno dei protagonisti che (si ricorderà) è non vedente. Anche la fotografia è molto buona e rende evidente una gradevole ricercatezza nella scelta del punto di ripresa, cui fa da controcanto un uso intelligente del montaggio, spesso spinto fino al proprio limite per quello che riguarda la decodifica degli eventi rappresentati. 

Unica pecca, forse, è la performance recitativa di alcuni attori, fra cui la protagonista femminile che ho trovato piuttosto anonima. Al di là di questo, comunque, siamo di fronte a un lavoro di tutto rispetto che, forse, non ha potuto contare su dei mezzi di produzione maggiori che gli avrebbero permesso una presa più incisiva sul pubblico e sulla critica. Ad oggi Infascelli rimane, per quanto mi riguarda, un regista sottovalutato nel panorama italiano.

VOTO: 6/10