giovedì 30 gennaio 2014

Oldboy (2003)



Oldboy di Park Chan-Wook - Genere: thriller - Corea del Sud, 2003

Credo che Oldboy sia uno dei film su cui - fino ad oggi - avevo letto di più, ma che non ero ancora riuscito a vedere. Soprattutto dopo l'uscita del recentissimo remake, si sono moltiplicate un po'ovunque nella rete le impressioni sempre più o meno negative nei confronti del lavoro di riscrittura operato sul film di Park Chan-Wook. Così, finalmente, mi sono deciso ad affrontare quest'opera tanto fortunata da essere stata premiata a Cannes 2004. Ebbene, devo dire che non solo non mi sono pentito della mia decisione, ma non posso non ammettere che senza dubbio Oldboy merita tutti gli onori che gli vengono tributati. A mio avviso potrebbe benissimo essere collocato nella lista dei film più importanti degli "anni zero", insieme a capolavori assoluti come Elephant o Irreversible. Il consiglio più spassionato che si possa dare davanti a film come questi, la cui complessità è difficilmente sintetizzabile in una recensione, è quello di guardarli essendo preparati a una filmicità diversa, più violenta e invasiva, a una serie di immagini forti che oltre a colpire l'occhio rimangono ben piantate nella memoria. 

Se un film è un sistema che si fonda e si realizza sulla connessione efficace di diversi elementi, Oldboy centra in pieno l'obiettivo. In esso si fondono perfettamente una vicenda diegetica coinvolgente, sceneggiata con attenzione e una ricerca formale che si spinge ai massimi livelli, proponendo il film come una vera e propria fenomenologia degli stilemi cinematografici, utilizzati sempre con capacità e coscienza dalla mano esperta del regista (a questo punto il livello raggiunto nel recente Stoker è surclassato senza riserve e non posso che dare ragione a tutti quelli che vedevano in quel film una "americanata" di basso profilo). La genialità del film sta già - lo si diceva poc'anzi - nella trama: raramente mi è capitato di vedere in un film, per quanto narrativo fosse, una simile capacità di strutturazione drammaturgica. Si potrebbe persino individuare una connessione con i topoi classici della tragedia greca che, riaggiornati senza difficoltà in uno scenario contemporaneo, mantengono pressoché inalterata la drammaticità esistenziale che ancora possiamo leggere in Sofocle o negli altri grandi maestri di quella fortunata stagione teatrale. 

Un sottotitolo del film che spesso viene presentato in italiano è "Un vecchio ragazzo vendicativo". A parte la scorrettezza di fondo di una traduzione del genere, continuare a veicolare questo concetto significa aver capito poco o nulla dell'opera, che parla molto meno della vendetta in quanto concetto e molto di più di una tragedia sottocutanea e inconsapevole che, proprio come spesso succede, si consuma nel momento in cui si pensa di essere fuori pericolo. Oldboy è un film che parla alla parte più profonda del nostro Io, risvegliando elementi innati della nostra natura, che quasi inconsapevolmente sembrano emergere mentre la ricerca del protagonista arriva al suo drammatico compimento. Tutto questo è narrato in maniera cruda, diretta ma non per questo cementificata: soprattutto nella prima parte del film sono presenti dei micro-elementi di ironia che contribuiscono a darci l'idea di una (auto)consapevolezza registica e cinematografica assolutamente fuori dal comune.

Stilisticamente la capacità di Park Chan-Wook si esprime nella sua straordinaria abilità nel scegliere sempre il tipo di inquadratura adatta alla situazione: magistrale l'utilizzo di atmosfere che sembrano attinte dall'universo lynchano in tutta la prima parte del film, quella che ci mostra la prigionia. La macchina da presa si fa scrutatore ossessivo dello scorrere del tempo, come ad anticipare il carattere ossessivo che la visione avrà in tutto il seguito del film. Notevole anche il tema principale, che sembra avere la capacità di trasfigurare i propri toni per adeguarsi alla contingenza narrativa; eppure è sempre lo stesso. Quentin Tarantino si è lasciato scappare che Oldboy è il film che avrebbe voluto fare; non ne vedo i motivi, essendo questo prodotto ben lontano dagli eccessi pop a cui ci ha abituato il regista americano. In ogni caso, almeno dal mio punto di vista, un capolavoro assoluto: da gustarsi per tutte le sue due ore, a patto che si sia pronti a vedere qualcosa di veramente violento, nel senso meno scontato del termine.

VOTO: 10/10 

The Objective



The Objective di Daniel Myrick - Genere: fantascienza - USA, Marocco, 2008

Quando ho letto di questo film, presunto horror ambientato in Afghanistan poco dopo l'attentato alle Torri Gemelle, mi sono incuriosito per la particolare collocazione geografica della vicenda. Sapere che il regista è stato uno dei due realizzatori di The Blair Witch Project mi ha dato la conferma definitiva di volerlo vedere, sperando che si trattasse di un prodotto in qualche senso innovativo, lontano insomma dalla retorica stantia di un genere che proprio il film di Myrick e Sanchez ha contribuito a creare. Purtroppo le mie aspettative sono state puntualmente disattese e il risultato complessivo è un film che, ben lontano dall'essere un horror, appare un calderone che pur attingendo da diversi titoli classici del genere, finisce per rientrare più nell'alveo della fantascienza. 

La caratteristica migliore di tutto il film sono senza dubbio le ambientazioni, aperte che ritraggono in maniera credibile il deserto roccioso dell'Afghanistan, creando una scenografia che non può non riportare alla memoria quella de Le colline hanno gli occhi, soprattutto nelle sequenze di conflitto a fuoco. A parte questo, e alcune inquadrature decisamente carine, il film non si lascia apprezzare particolarmente. Sopratutto per quello che riguarda la componente narrativa, si ravvisano - pur in presenza di  alcuni spunti originali come la citazione dei Vimana, realmente attestati nei testi indiani - delle debolezze strutturali non indifferenti e derivanti in parte anche dal doppiaggio italiano. La focalizzazione interna alla vicenda ci precipita nella storia in medias res ma il punto di vista associato all'agente CIA risulta alla lunga monotono, sopratutto perché intervallato dagli utilizzi del suo fantomatico schermo capta-radiazioni. 

Nel suo svilupparsi la diegesi si porta poi dietro tutta una serie di luoghi comuni tipici dei film del genere, come ad esempio il classico topos per cui l'agente segreto non comunica ai militari tutti i dettagli della missione. Roba già vista, molto televisiva e ormai inflazionata. Il tutto viene coronato da un finale assolutamente scontato e da dei titoli di coda che - se possibile - lo sono ancora di più. Un film assolutamente sconsigliato, che si salva dalla stroncatura totale solo per la scenografia e per alcune riprese in esterno. Per il resto, da dimenticare.

VOTO: 4/10 

mercoledì 29 gennaio 2014

Il Cattivo Tenente



Il Cattivo Tenente di Abel Ferrara - Genere: drammatico - USA, 1992

Se qualcuno dicesse che oggi una buona parte del cinema commerciale, spesso lacrimoso e ancor più spesso un po' brutto, viene dagli USA, con una buona approssimazione starebbe dicendo una cosa vera. In generale possiamo dire che si tratta di un cinema che ha uno sguardo ammorbidito e poco pungente. Proprio per questo vale la pena tirare fuori dal cassetto quel fortissimo capolavoro che è Il Cattivo Tenente, opera-manifesto di un'America realista, cruda ma non per questo priva di un qualche sentimentalismo. Già la storia in sé fa percepire la novità del tutto, riprendendo con una vicinanza veramente fuori dal comune, la vita di un membro deviato della polizia prima di qualsiasi Dexter e simili. Spiace un po' vedere come il leifmotiv di Ferrara sia diventato un soggetto da telefilm, ma a quanto pare è un destino comune a molti. 

Tutto è già perfettamente raccontato nelle prime inquadrature, che ritagliano un ritratto ravvicinatissimo dell'anonimo Tenente, prima ancora di mostrarcelo nella sua degenerazione fra droga, alchool, scommesse e tutta una serie di altri elementi che forse oggi possono sembrare scontati e noiosi, ma che all'epoca non lo erano; dobbiamo considerare che il già visto di questi brani deriva in massima parte dal fatto che si tratta di stilemi mutuati solo successivamente dal telefilm. Un dramma dunque, quello del Tenente che - al contrario di quanto si potrebbe ritenere se si considera il cinema attuale - non si traduce in una condanna dei suoi comportamenti; nonostante il crudo realismo dello stile di Ferrara, lo spettatore non riesce a distaccarsi completamente dal protagonista (forse proprio a causa del carattere claustrofobico dell'inquadratura?) con il risultato che la palingenesi finale assume il carattere di un'implicita conferma.

Stilisticamente, Ferrara introduce all'interno di una diegesi che si sviluppa attraverso il senso lineare di una caduta (la chiusa è drammatica e - in ultima analisi - il destino del Tenente è senza appello) tutta una serie di elementi linguistici che contraddicono la forma perfettamente rettilinea attorno a cui si struttura la narrazione. In questo senso vanno letti tanto i magistrali jump-cut delle sequenze in auto (omaggio/ripresa del medesimo elemento in Fino all'ultimo respiro) quanto i brani "onirici" dello stupro della monaca e del dialogo con Cristo. Nel complesso un film visionario, a suo modo geniale e tipicamente ancorato a quel gusto New Hollywood che per me è senza dubbio la stagione d'oro del cinema statunitense.

VOTO: 9/10 

martedì 28 gennaio 2014

Valhalla Rising: Regno di Sangue



Valhalla Rising: Regno di Sangue di Nicolas Winding Refn - Genere: drammatico - Danimarca, Regno Unito, 2009

Di Nicolas Winding Refn ho già avuto modo di parlare quando ho recensito il bellissimo Solo Dio perdona che, per quanto mi riguarda, rimane uno dei film più belli che ho visto durante il 2013. Senza dubbio la caratterizzazione esteriore di Valhalla lascerebbe immaginare un classico film pseudo-epico ambientato nelle terre nordiche: tanto il titolo quanto la locandina contribuiscono a creare un voluto ammiccamento nei confronti del potenziale spettatore. Niente di più sbagliato e semplificante; molti commenti di spettatori insoddisfatti si appuntano proprio su questo elemento, senza rendersi conto che è proprio nella straordinaria capacità di porsi al di fuori di schematismi sperimentati che sta il tratto caratteristico del film di Winding. 

Formalmente, quanto avevo affermato per Solo Dio perdona vale anche per questo lavoro precedente, almeno in linea di massima. Il tratto più caratteristico dello stile di regia risiede nella perfetta calibratura delle inquadrature che in questo caso specifico, anche grazie a un uso spesso antinaturalistico (potremmo dire espressionista?) del colore, raggiunge livelli di intensità davvero notevoli. Questa capacità di sperimentazione all'interno del tessuto dell'immagine si sposa con una ricerca sui tagli dell'inquadratura che fonde perfettamente la bella scenografia selezionata con l'abilità della messa in scena. In Valhalla, inoltre, vediamo all'opera una strutturazione della trama diegetica che in Solo Dio perdona sembrava appena accennata: una struttura a capitoli che in questa situazione non può non ricordare quella delle "sezioni" (libri, canti etc.) in cui sono divise tutte le grandi saghe epiche e romanzesche della storia letteraria. E' evidente in Winding la volontà di riscrivere una mitografia che però non si traduce in un elogio della violenza fine a sé stessa (di violenza in Valhalla ce n'è meno di quanta non ce ne si aspetterebbe) ma in una costruzione iperstratificata e complessa, a tal punto che alla fine questa costruzione che privilegia vuoti ellittici e silenzi prolungati lascia nello spettatore la (spiacevole?) sensazione di aver perso qualcosa, che esista cioè un differenziale semantico che non si è riusciti a cogliere, almeno non pienamente.

Unica nota negativa in un film tanto interessante è - solo in alcuni momenti specifici e soprattutto per quello che riguarda il personaggio del bambino che accompagna il nostro silenzioso protagonista - qualche ingenuità a livello di scrittura, che si traduce in una forzatura di alcuni dialoghi. Ma, tutto considerato, si tratta certo di un elemento poco importante.

VOTO: 8/10

Essere John Malkovich


Essere John Malkovich di Spike Jonze - Genere: commedia/drammatico - USA, 1999

Spike Jonze è un regista? Questo è un interrogativo senza dubbio interessante, considerando che la maggior parte della sua produzione si sviluppa nel mondo del videoclip (che pure, come è evidente, ha avuto un rapporto dialettico molto intenso con alcune forme cinematografiche contemporanee). Se però riconosciamo questo statuto anche ad altri personaggi che si sono formati in ambienti esterni a quello della settima arte (ad esempio Rob Zombie, che comunque ha dato una buona prova nel recente Le Streghe di Salem), forse anche Jonze merita la nostra attenzione. Più ancora se consideriamo che Essere John Malkovich era in lizza per ricevere una buona manciata di Premi Oscar. La cosa non dovrebbe stupire troppo: il lavoro di Jonze è il tipico film da Academy Award: coinvolgente, con qualche idea originale, un buon cast e una buona sceneggiatura. 

Il film infatti si lascia guardare con piacere e mixa senza difficoltà diverse situazioni surreal-comiche a tratti decisamente più lacrimosi e sentimentalmente coinvolgenti. Un buon mix di sensazioni per accontentare tutti i palati commerciali, insomma. Da un punto di vista formale non c'è molto da segnalare, salvo rendere il giusto merito alle belle soggettive riprese da dentro la testa di Malkovich e la sequenza - di gran lunga la migliore del film - in cui lo stesso Malkovich, entrato nel tunnel che permette agli altri di entrare dentro di lui - si perde in un mondo (quello veramente e profondamente surreale), nel quale tutto è malkovichizzato. 

In generale quindi siamo di fronte a un film senza dubbio piacevole, più di molti altri prodotti che ci sono in giro attualmente. Eppure il fatto che il massimo riconoscimento cinematografico esistente stesse per essere assegnato a un prodotto nella media e ben lontano da qualsiasi forma di ricerca estetica non finirà mai di lasciarmi con l'amaro in bocca. 

VOTO: 6/10 

domenica 19 gennaio 2014

L'ultima casa a sinistra



L'ultima casa a sinistra di Wes Craven - Genere: thriller/horror - USA, 1972

Il nome di Wes Craven è senza dubbio legato a doppio filo alla storia del genere horror, soprattutto nella sua variante slasher che ha avuto una notevole fortuna fra i tardi anni Settanta e gli anni Novanta proprio grazie a saghe come Nightmare e Scream, entrambe licenziate dallo stesso Craven. L'ultima casa a sinistra è il suo esordio alla regia, vero e proprio film cult che ha segnato un'epoca e ha visto recentemente un remake prodotto fra l'altro dal regista dell'originale. In pieno accordo al clima post-sessantottino in cui venne realizzato con un budget ridottissimo il film ha peraltro dato origine a tutta una serie di lavori di basso profilo, su cui spicca senza dubbio un altro prodotto degno di menzione e già recensito su queste pagine come Non violentate Jennifer. Al di là dei freddi giudizi della critica, sempre poco incline a riconoscere la qualità in un genere spesso giustamente snobbato come questo, probabilmente il film è il capolavoro di Craven, che nelle sue (svariate) fatiche successive non ha mai più mostrato questa incisività.

La semplicità è senza dubbio la cifra stilistica e narrativa più evidente: alla linearità perfetta della narrazione corrisponde un canovaccio di scelte formali variegato ma senza eccessi. Scegliendo un bagaglio coerente e in sé concluso di figure registiche di montaggio o fotografia Craven riesce a costruire uno stile eclettico e abbastanza imprevedibile per dare al suo film un giusto ritmo. L'accompagnamento musicale è scelto con attenzione per arrivare a creare, in alcuni punti, addirittura degli esempi (piuttosto brevi purtroppo) di montaggio ritmico assolutamente degni di nota. Il clima complessivo che ne deriva non è quello di un inno alla violenza gratuita come era per Non violentate Jennifer (molti non sembrano capirlo, il che dimostra la leggerezza con cui anche le più brillanti menti critiche si approcciano a questo genere di lavorazioni), ma un oggetto perturbante che - per quanto spesso si autocensuri - riesce a trasmettere una sensazione di profondo disagio allo spettatore.

Ma se tutto questo esaurisse il portato del film non sarebbe altro che un prodotto magari godibile ma di mediocre qualità e inoltre non esente da difetti: soprattutto nella parte finale, quando prende corpo la "tragedia di vendetta", emergono delle difficoltà a livello registico (i primi piani di Craven andrebbero tutti cancellati) e di caratterizzazione (alcuni passaggi drammaturgici sono effettivamente difficili da digerire) non indifferenti. La vera genialità de L'ultima casa a sinistra è la sua assolutamente moderna capacità di proporsi come una parodia di sé stesso, attraverso delle emergenze discontinue di una spiccata autoconsapevolezza. In particolare le sequenze quasi pantomimiche dei due agenti di polizia, oltre a ricordarci le grandi comiche degli anni Venti, destrutturano il presunto portato shockante del film, aprendolo a delle nuove possibilità interpretative. 

E' proprio questa la freschezza, potremmo dire quasi l'autocoscienza autoriale che poi verrà irrimediabilmente a mancare nei più celebri lavori successivi di Craven. Un peccato, perché al di là di uno stile registico ancora acerbo, L'ultima casa a sinistra poteva davvero far sperare in qualcosa di meglio.

VOTO: 710

sabato 18 gennaio 2014

Le conseguenze dell'amore



Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino - Genere: drammatico - Italia, 2004

Sorrentino, lo dimostra la vittoria de La grande bellezza ai Golden Globes, è senza dubbio uno degli interpreti più convincenti del cinema italiano di qualità. Andare indietro a ripescare questo film di ormai dieci anni fa (!) può essere dunque utile per evidenziare lo sviluppo della sua poetica, che risulta in primo luogo connessa alle vite di personaggi annoiati, involontariamente (?) radical chic e per i quali la vita ha sempre bisogno di essere ridiscussa nelle sue motivazioni profonde. In questo come nei successivi suoi lavori (ricordiamo ad esempio L'amico di famiglia), Sorrentino dispone uno stile complesso, eccellente da un punto di vista formale attorno ai suoi personaggi, su cui spiccano i tipi umani incarnati sempre in maniera convincente da Toni Servillo. 

Ne Le conseguenze dell'amore, Titta di Girolamo è la figura del ragioniere standard che lavora (o ha lavorato) per qualche cosca mafiosa ed effettivamente, soprattutto sul finale del film, nel momento cioè in cui la regia sorrentiniana raggiunge con andamento ciclico le punte più alte e più scontate di tutta la pellicola, sono numerosi i riferimenti (anche solo d'atmosfera) a Il Padrino. Per tutta la prima parte del film invece la vicenda ruota intorno a temi più cari al regista, più drammaticamente ed esistenzialmente umani. Anche il riferimento all'amore, centrale nel titolo, risulta in fin dei conti schiacciato da tutte le altre suggestioni che si aprono attorno alla figura del protagonista, senza troppe sorprese per la verità. 

Formalmente, come già accennato, Sorrentino è sempre vicino alla perfezione assoluta ma i suoi lavori - e il pericolo è particolarmente evidente qui - sono sempre passibili del rischio di freddezza. Effettivamente la maggior parte delle critiche si è sempre appuntata su questi fattori che, se nei due film successivi e già citati, si sono rivelati meno ingombranti del previsto, qui hanno una importanza tale per cui tutta la struttura rischia di vacillare. Anche per quel che riguarda la caratterizzazione dei personaggi secondari, ridotti a comparse dal protagonismo gigantista di Servillo, si percepisce qualche faraginosità di troppo, in particolare per quanto riguarda la coppia di ricchi decaduti che vivono nell'albergo dove passa le sue giornate rinchiuso di Girolamo. 

Nel complesso si tratta comunque di un film interessante, perfettamente realizzato ma forse ancora un po' acerbo dal punto di vista dell'integrazione fra scrittura e composizione dell'immagine. Una problematica questa, ampiamente superata nel film che per me rimane il migliore visto nel 2013, attualmente candidato agli Oscar.

VOTO: 7/10 

giovedì 16 gennaio 2014

Sacro GRA



Sacro GRA di Gianfranco Rosi - Genere: drammatico, documentario - Italia, 2013

Il Leone d'oro 2013 portatosi a casa da Rosi mi aveva fatto venire una gran voglia di vedere questo film, cosa che probabilmente mi ha fatto avere delle aspettative troppo alte facendomi dimenticare che spesso a Venezia il maggior riconoscimento non viene attribuito ai più meritevoli (si veda Ang Lee nel 2005 o lo stesso Kim Ki-duk con Pietà qualche anno fa che, al contrario di quanto probabilmente ho scritto su queste pagine, non meritava un premio del genere). In ogni caso Sacro GRA rimane senza dubbio un film che si lascia guardare e che merita una menzione per l'originalità del suo progetto di base (filmare, per circa tre anni, frammenti di vita attorno al Raccordo) e per alcune trovate davvero interessanti, come tutta la narrazione relativa al Punteruolo Rosso e alle palme che, soprattutto nel finale, assume una evidente valenza metaforica.

Credo che Rosi sia riuscito a ridare al documentario come genere una dimensione prettamente cinematografica, facendolo uscire da quel limbo un po' polveroso e spesso noioso in cui è stato molte volte confinato. Sacro GRA riesce a sposare due anime che nel documentario spesso potrebbero apparire inconciliabili: la "denuncia" (il termine forse è inadeguato ma attualmente non ne trovo uno migliore) e un ritmo formale agile che apre anche a spazi di ironia non indifferenti, che contribuiscono a controbilanciare l'altrimenti eccessiva pesantezza dell'insieme. Anche da un punto di vista compositivo bisogna rendere merito al regista di essere riuscito a creare un impasto dove diversi elementi riescono a convivere in una qualche forma di armonia, entro un uso del montaggio che predilige quadri autonomi o quasi e comunque non abitati da un dinamismo evidente. 

In generale il film funziona, eppure non mi ha dato l'idea di essersi spinto sino in fondo alle sue possibilità. Ho trovato anche molto divertente l'idea - letta in alcuni commenti - che la produzione di Rosi (con questa sua dimensione realistica e quasi paesana) possa essere letta come una risposta alla società svuotata di senso, di manichini spersonalizzati presentata da Sorrentino ne La Grande bellezza. Una prospettiva interessante, anche se probabilmente poco realistica da un punto di vista ricostruttivo. Onestamente ho trovato il GRA un film anonimo, lento per quanto non noioso e ben più manieristico di quanto non lo fosse il film di Sorrentino, da molti accusato di barocchismo formale.

VOTO: 6/10 

mercoledì 15 gennaio 2014

Vive l'amour



Vive l'amour di Tsai Ming-Liang - Genere: drammatico - Taiwan, 1994

Ho visto per la prima volta il finale di Vive l'amour due anni fa e già all'epoca mi era sembrato un finale assolutamente geniale. Finalmente oggi completo la visione del film Leone d'Oro di Tsai Ming-Liang e non posso che confermare l'idea che mi ero fatto osservando il lungo e superbamente orchestrato piano sequenza conclusivo, che culmina in una delle scene di pianto più convincenti e profondamente drammatiche che mi sia mai capitato di vedere. In una struttura semplice che ruota attorno all'idea della casa vuota (il riferimento ad uno dei capolavori di Kim Ki-duk è d'obbligo in questo caso), Tsai riesce ad inserire una vicenda dalla drammaticità esistenziale, che si esprime attraverso quella che si potrebbe chiamare inventando un fantasioso neologismo una relazionalità dell'assenza. I tre protagonisti della pellicola orbitano attorno ad un appartamento sfitto come se fossero dei piccoli insetti indecisi che ronzano confusamente attorno alla luce di un lampadario. I loro rapporti sono in effetti strutturati sul non-sapere, sul silenzio, su dettagli non specificati. Questo garantisce al film una struttura lirica perfettamente equilibrata, in cui il silenzio e l'attesa giocano un ruolo fondamentale: diverse sono le sigarette fumate dai personaggi e la sigaretta in sé è un oggetto che va goduto nel suo progressivo consumarsi. Sarà forse un caso che il film si chiuda proprio sull'immagine della elegante agente immobiliare che da' le prime boccate? E' probabile di no.

Nelle belle stanze di un appartamento d'alta classe si incrociano quindi i destini di tre individui qualunque eppure profondamente connotati nei loro caratteri salienti; sono figure per la verità appena tratteggiate dalla regia esperta di Tsai, che lascia ancora una volta allo spettatore l'arduo compito di interpretare i silenzi, le pause, gli intervalli della narrazione come il segno di caratteri che agiscono in senso pulsionale per emergere pur senza mai riuscirci. Più che la storia di un amore, Vive l'amour è la storia di un sistema di solitudini che non raggiungono mai la condizione di tangenza, la possibilità della condivisione. Non c'è scampo per l'apolide venditore di urne cinerarie né per il venditore abusivo; è significativo poi che tutti gli scambi dialogici con personaggi esterni alla triade dei protagonisti siano frivoli e non pertinenti allo sviluppo di questa sorta di antitrama. E ancora possiamo notare come le conversazioni telefoniche fra la protagonista femminile e l'ambulante siano continuamente troncate e come a noi sia consegnata solamente una metà di quella discussione; è qui visibilmente in atto quel meccanismo di disgiunzione relazionale che citavo prima e che ha senza dubbio dei risvolti anche nella sfera dell'erotismo. Il desiderio perennemente frustrato del giovane omosessuale represso di congiungersi con il venditore di mercato (figura archetipica in questo senso) viene soddisfatto attraverso una mancanza, vale a dire attraverso l'immaginazione dello sfortunato amante che non può che compiere una surrezione sostitutiva mentre un atto sessuale viene consumato sul letto sotto al quale si è nascosto.

Un film drammatico, profondamente reale ma intriso di un lirismo arido e disarmante. Certamente un prodotto di alta qualità ma che per le sue caratteristiche stilistiche e formali potrebbe risultare scarsamente digeribile o noioso a chi non è abituato a questo genere di produzioni.

VOTO: 9/10 

lunedì 13 gennaio 2014

Cesare deve morire



Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani - Genere: drammatico - Italia, 2012

Pluripremiato film italiano dello scorso anno, candidato agli Oscar e insignito dell'Orso d'oro a Berlino, Cesare deve morire rappresenta una via interessante del cinema italiano contemporaneo, la dimostrazione che c'è ancora qualcosa da fare e da raccontare. Sorta di documentario (ma il termine mi pare riduttivo, in questo caso) sulla messa in scena del Giulio Cesare da parte dei carcerati di Rebibbia. Al di là dell'indubbia qualità tecnica, resa evidente da un uso sapiente del bianco e nero che modella visi e corpi scavandoli in modo da farli apparire attualissimi e arcaici nel contempo e dalle inquadrature sempre efficaci, il film si lascia ricordare con piacere per la sua capacità di sollevare diverse problematiche di punta del discorso sul cinema e sull'immagine in generale.

Anzitutto, la metarappresentazione: noi stiamo guardando un film che ci racconta del dietro le quinte di uno spettacolo teatrale del quale, per giunta, vediamo solo poche parti (all'inizio e alla fine). La nostra visione coincide con quella degli spettatori veri soltanto in quei momenti, mentre per tutto il resto del tempo noi siamo dei voyeur che vedono lo svelamento del meccanismo, la struttura che sta dietro alla macchina produttrice di finzioni. Vediamo più degli altri e, nel contempo, comprendiamo di più: capiamo quali sono le segrete connessioni fra i passi shakespereani e la vita reale e attraverso questa connessione possiamo meglio apprezzare anche la complessità dell'opera letteraria.Un'altra dimensione molto interessante è la coralità: sebbene i protagonisti del dramma-film siano solo un drappello di delinquenti con cui però non possiamo non familiarizzarci e per i quali (anche quando veniamo a conoscenza dei loro reati), non possiamo non provare simpatia, tutta la prigione viene coinvolta nella costruzione dell'opera, cosa che permette ai due registi di creare spazi interstiziali in cui ragionare sulla condizione del segregato (il vociare dei pensieri durante la notte, l'affacciarsi alle grate durante il discorso di Bruto).Infine il colore: abbiamo già accennato alle qualità del bianco/nero, che però viene sostituito dal colore all'inizio e alla fine dell'opera. Sono i momenti in cui i nostri protagonisti sono in scena, con i loro costumi e rappresentano il dramma di cui abbiamo visto la gestazione e del quale ora apprezziamo il completamento. Rivediamo due volte le stesse scene, che culminano con il ritorno dei criminali in cella: il loro è un tempo immobile, che non cambia e si anima solo nel tempo dell'arte (geniale la frase: da quando ho conosciuto l'arte questo luogo mi sembra una prigione). 

Siamo di fronte - è evidente - a un film complesso, da leggere in maniera polisemica come risposta ai grandi problemi dell'immagine, della sua rappresentazione e del rapporto fra le arti letterarie e quelle sceniche (il teatro e, appunto, il cinema). Il film è molto scorrevole e questo dovrebbe bastare come invito a chiunque ad approcciarsene come a un prodotto interessante anche per chi non è colpito da queste problematiche ma vuole apprezzare un lacerto della vita dietro le sbarre, della quale i Taviani sanno cogliere in maniera per nulla aneddotica la drammaticità.

VOTO: 8/10

giovedì 9 gennaio 2014

Insidious 2: Oltre i confini del male



Insidious 2: Oltre i confini del male di James Wan - Genere: thriller/horror - USA, Canada, 2013

Il precedente capitolo della saga firmata da Wan non mi aveva particolarmente entusiasmato, ma dopo aver letto una recensione molto positiva di questo sequel su Mymovies e aver preso atto che anche alcune opinioni del pubblico erano piuttosto confortanti, ho deciso di buttarmi su questo film, ben consapevole che molto spesso la serialità è sinonimo di ripetizione. Devo ammettere che nel caso di Insidious 2 non è stato affatto così e almeno in parte mi sono trovato in accordo con i giudizi letti qua e la prima di cominciare la visione. Il film riprende esattamente dove si era interrotto il precedente e sviluppa una trama che, una volta tanto, cerca una continuità logica con quella del capostipite (anche ESP per la verità ci aveva provato, ma con esiti piuttosto scoraggianti). 

Sebbene abbia trovato eccessivamente entusiastica la recensione Rudy Salvaggini che inneggia a un vero e proprio rinnovamento del genere horror (dando poi al film un giudizio insufficiente...), devo ammettere che almeno in parte Wan tenta di battere una strada linguisticamente diversa da quella del titolo medio attuale. Egli dimostra una libertà maggiore nell'uso della macchina da presa, proponendo immagini animate, veloci e dinamiche. Tuttavia questo genere di ricerca si sviluppa ancora all'interno di un recinto ben collaudato, entro il quale Wan cade nella tentazione di ricorrere all'ormai fastidioso strumento della soggettiva in presa diretta. Anche da un punto di vista più schiettamente narrativo ci sono alcuni passaggi poco felici, come il prologo che non mi ha convinto e che ritengo poco funzionale al proseguo della narrazione. 

Il film, che secondo me è ricco di citazioni da The Shining, è tutto sommato efficace e concede allo spettatore anche qualche autentico salto sulla sedia, cosa che di questi tempi non guasta mai. Immagini complessivamente ben fatte controbilanciano una caratterizzazione dei personaggi un po' troppo prevedibile. L'unico punto davvero negativo di tutto il lavoro di Wan, quello che non permette una lettura complessivamente buona del film è il fatto che nel finale il regista ha sentito la necessità di riaprire ad un futuro sequel con un inutile finale cliffhanger, inserito evidentemente per tenere vivo l'interesse dei fan. Peccato; un po' di sperimentalismo in più non sarebbe guastato.

VOTO: 5/10 

mercoledì 8 gennaio 2014

Palombella Rossa



Palombella Rossa di Nanni Moretti - Genere: commedia - Italia, 1989

Sebbene Nanni Moretti raggiunga a mio avviso il capolavoro con Bianca, la sua linea poetica mi ha sempre interessato a partire dai suoi primi passi mossi con Io sono un autarchico e soprattutto con Ecce Bombo. Nonostante questo devo ammettere che gli ultimi film del regista, a partire da La stanza del figlio non sono stati di mio gradimento: li ho trovati spesso ridondanti, eccessivamente patetici; lontani insomma da quella lucida e disincantata ironia che aveva fatto di Michele (e delle sue varie incarnazioni) un personaggio da ricordare. Colgo anche l'occasione, Palombella Rossa me la offre, per evidenziare come secondo me - diversamente da quanto mi capita spesso di sentire - la comicità morettiana sia ben diversa da quella di un altro grande come Woody Allen. A prescindere dal fatto che gli ultimi lavori alleniani non sono di mio gusto (ma non ho ancora visto Blue Jasmine) devo dire che spesso si tende a dimenticare che, diversamente da quanto accade per il mostro sacro della comicità statunitense, in Moretti è presente una vena politica che non può essere trascurata e che anzi costituisce l'ideale filo rosso di tutta la sua produzione. L'opera morettiana diventa così una gigantesca metafora della disillusione politica dell'italiano medio, un racconto sagace del tracollo degli ideali partitici che ci ha accompagnato fin alle porte dell'era attuale. 

E' doloroso forse sentirselo dire, ma tutti siamo dei piccoli Michele (probabilmente lo sono di più i nostri genitori). E' finita l'epoca delle grandi narrazioni del Dopoguerra, non esistono più le larghe intese come condivisioni di ideali più alti e quelle che si spacciano come tali sono delle semplici coperture, ormai ce ne siamo resi conto tutti. Viviamo in un'epoca senza modelli, schiavi delle nostre frustrazioni a tal punto da non saper prendere una decisione senza appellarci al parere di uno psicanalista (che siano stati proprio gli strizzacervelli a creare le nevrosi?). I personaggi di Palombella Rossa, protagonisti di una surreale partita di pallanuoto che apre a un racconto del passato sospeso fra il generale (la vicenda politica del PC italiano) e personale (la vita di Michele e la sua discesa in campo) che culmina con una intelligente rappresentazione corale di E ti vengo a cercare, sono delle macchiette che non semplificano la nostra condizione, ma anzi ce la comunicano in una maniera ancora più profonda e incisiva. 

Siamo tutti schiavi delle nostre contraddizioni e questo ci porta ad essere più insicuri, incapaci di decidere e - in generale - profondamente malinconici. Questo si percepisce chiaramente anche nello stile di Moretti, meno mordace e più incline alla meditazione. Il tutto concorre a generare un'opera efficace ma (personalmente) meno riuscita di quelle sopraccitate. Rimane comunque degna della massima considerazione la performance recitativa di Silvio Orlando, che probabilmente ci regala il miglior personaggio di tutto il film. Una giovanissima Asia Argento nei panni della giovane Valentina ci dimostra, ancora una volta, come la figlia del sedicente Maestro del brivido, dia di norma buone prove solo quando non ci si accorge di lei.

VOTO: 6.50/10 

lunedì 6 gennaio 2014

Mondo Cane



Mondo Cane di Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi - Genere: documentario - Italia, 1962

La prima recensione del 2014 l'ho voluta dedicare a uno dei film più controversi della storia del cinema, di difficilissima reperibilità a fronte di un successo di pubblico spaventoso (venne addirittura candidato all'Oscar per la migliore colonna sonora). Mondo Cane è il titolo che ha dato origine alla serie di film, diffusissimi fra gli anni Sessanta e i Settanta, detta mondo movie, in cui si creano dei veri e propri collage di immagini riprese in tutto il mondo creando il più delle volte dei film shockanti e di scarsa qualità. Numerosi critici condividono il giudizio e lo estendono anche al film di Jacopetti & co. (la valutazione del Morandini è da questo punto di vista emblematica). 

Mondo Cane, punto d'origine di questa ormai estinta tradizione, ci propone una vertiginosa sequenza di episodi disparati filmati in diverse parti del mondo e per la maggioranza violenti o inusuali. Nessun luogo della Terra è risparmiato e i registi mostrano con cruda lucidità le tradizioni religiose dell'Italia, i riti ancestrali delle popolazioni tribali, il lavoro di una truccatrice di cadaveri in Asia etc. Da questo punto di vista sono d'accordo nel sostenere che il film in questione non è un prodotto per tutti i palati e che si debba essere abbastanza abituati a un certo tipo di immagini per apprezzare il lavoro al di là della sua componente sensazionalistica. 

La struttura del film infatti, procede per accostamenti inediti che collegano - spesso in maniera imprevedibile - spezzoni diversi per localizzazione e tipologia, creando una composizione vivace e per nulla noiosa. Nonostante Mondo Cane sia a tutti gli effetti un documentario (la voce fuori campo non può che ricordarcelo) il film si lascia guardare con piacere mentre scompagina davanti agli occhi dello spettatore la turbinosa wunderkammer dei mirabilia che il mondo ancora oggi ha da offrire. Personalmente, al di là della buona fotografia, dell'uso intelligente del montaggio e di una colonna sonora effettivamente molto azzeccata, ho apprezzato molto la disillusione con cui la voce over sembra operare una decostruzione dall'interno, arrivando spesso ad autoparodiare sé stessa e lo spettatore. 

Il risultato, considerando anche l'ampio uso di fermi immagine in funzione espressiva, è un prodotto decisamente convincente e realizzato benissimo che, tenendo conto dell'anno di realizzazione, avrebbe certamente molto da insegnare a chi fa e a chi guarda il cinema. Certamente non un film per tutti, ma l'idea che il cinema debba essere necessariamente un'arte di massa è qualcosa che non riesco a condividere. Notevolissimo, per concludere, il cammeo di Yves Klein e il lucido disincanto con cui Jacopetti e i suoi mettono in ridicolo il Noveau Realisme europeo.

VOTO: 9/10