venerdì 30 marzo 2012

La caduta: Gli ultimi giorni di Hitler - Recensione


La caduta: gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschbiegel - Genere: storico/drammatico - Germania, 2004

Hitler si rifugia nel bunker sotto i giardini della Cancelleria, mentre l'Armata rossa arriva a Berlino. Con lui, gli ultimi fedeli e la nuova segretaria, Traudl Junge, ignara del progetto di suicidio collettivo che il Führer sta meditando

Un film tedesco sulla pagina più nera della storia tedesca, attorniato da un sacco di (inutili?) polemiche quando nel 2004 è usCorsivocito nelle sale. Spesso ci si dimentica che bisognerebbe valutare un film per quello che è, ovvero un testo realizzato attraverso un montaggio di immagini. Questo è quanto.
La pellicola di Hirschbiegel si destreggia piuttosto bene in un argomento tanto spinoso, soprattutto per la Germania e ritrae la situazione degli ultimi giorni della guerra con una certa distaccata e pretesa oggettività, che inevitabilmente cede il passo a qualche faciloneria che si poteva facilmente evitare. La figura di Hitler assume la dimensione titanica di un Saladino tassiano e il fascino di Eva Braun emerge statuario con tutta la sua potenza. L'effetto è quello di una quasi-mitizzazione del negativo, probabilmente questo il motivo per cui ci furono tante polemiche all'epoca.

Quello che rimane di questo film sono in effetti i personaggi, piuttosto ben caratterizzati e convincenti, su cui svetta appunto lo sclerotismo di Eva Braun, vera e propria epitome di un nazionalsocialismo ritratto nel momento della fine. Tecnicamente buono, ma sicuramente non brillante, il film si concede secondo me qualche momento di buonismo e di ammiccamento allo spettatore che si potevano felicemente evitare, anche per snellire una pellicola piuttosto lunga. La storiella dei bambini-soldato, per esempio, poteva benissimo essere eliminata visto che la sua unica funzione era quella di accattivarsi un po' di empatia da parte del pubblico.
Comunque un buon film, magari un po' pesante a tratti, ma che mi sento in ogni caso di consigliare per rimanere affascinati da un ambigua ed elegante rappresentazione di Hitler, a metà fra pietismo nazionalista e follia degenerativa.

VOTO: 7/10

martedì 27 marzo 2012

L'altra faccia del diavolo - Recensione


L'altra faccia del diavolo di William Brent Bell - Genere: horror - USA, 2012

Venuta a Roma per studiare gli esorcismi e realizzare un documentario in materia, Isabella incontra due giovani preti che praticano esorcismi con l'aiuto di strumenti tecnico-medici. Con loro assiste al primo esorcismo della sua vita e ne rimane inquietata. Palesando il vero intento della sua visita si reca allora a trovare la madre, tenuta in un ospedale psichiatrico cattolico perchè vent'anni prima ha ucciso tre persone, proprio mentre le praticavano un esorcismo. La trova piena di tagli che si è provocata da sola e, durante un tentativo di esorcismo nella stanza ospedaliera, la donna rivela la sua effettiva possessione, nonchè l'intenzione del demonio che l'abita di trovare un nuovo corpo.

La "Insurge", già produttrice di "Paranormal Activities" ritorna con un altro horror a basso costo e dalla chiara intertestualità con altri titoli del genere ("L'esorcista" in primis) e che sostanzialmente non esce di molto dalla parabola media dei titoli del genere. Tecnicamente niente da segnalare che sia degno di nota, anzi piuttosto carente per quello che riguarda il comparto sonoro e la fotografia (le inquadrature si basano per una buona parte sulla soggettiva da telecamera in stile "Rec"). Anche da un punto di vista narrativo il film si ripiega sui soliti stilemi, dall'intendere l'esorcismo come fusione di scienza e fede, alle discussioni dubbiose circa la natura del demonio fino alla cornice da docu-film che ormai è una cosa vista e rivista.

In definitiva un film che non eccelle e non credo sia particolarmente meritevole di attenzione: esso rappresenta l'ennesima conferma che gli horror americani sono in lenta agonia e si sono appoggiati su una mediocrità dalla quale non riescono a uscire. Anche il tentativo di rendere il film intertestuale dal punto di vista mediatico appare fallito: il sito citato alla fine della pellicola esiste ma è poverissimo e non fornisce indicazioni che possano in qualche modo stimolare lo spettatore.

VOTO: 4.50/10

domenica 25 marzo 2012

You, the living - Recensione


You, the living di Roy Andersson - Genere: drammatico/surreale - Prod. internazionale 2006

In un'anonima città svedese s'intrecciano storie di vite umane alle prese con solitudini e inquietudini, ferocemente ingabbiate in scarse soddisfazioni e mancanze di prospettive future. E allora, in un'atmosfera costantemente rarefatta dalla nebbia densa e dal grigiore metropolitano, si muovono figure diafane, che naufragano all'interno della loro anima incerti su dove andare, cosa fare e perché: c'è la giovane maestra che litiga per motivi futili con il marito, c'è la ragazzina follemente innamorata di un giovane musicista, c'è una donna che sfoga sul compagno e nel bere le sue frustrazioni. Ognuno di loro cerca però di rimanere a galla, di reagire con la musica e con l'autoironia, facendosi quasi caricatura di se stesso e delle sue problematiche esistenziali.

Acclamata da molti come un'opera rivoluzionaria e rigettata da altrettanti come una enorme pellicola confusiva senza né capo né coda, bisogna ammettere che l'opera di Andersson è una delle cose più strane e particolari che la cinematografia contemporanea ci abbia regalato. Un film senza trama, dove non succede assolutamente nulla, dove i personaggi si parlano fra loro se non attraverso frasi fatte, vuote e senza senso. Attraversano paesaggi grigi come le loro esistenze e non evolvono: non c'è azione, il film è l'apoteosi della stasi.
In un'ora e venti di film si succedono delle scenette, dei piccoli bozzetti umani che accompagnati da una musica bandistica costituiscono il cuore della narrazione, un viaggio allucinatorio nell'esistenza umana.

Il film, nonostante questa apparenza "granitica" non annoia, anche se la progressione di scene diventa a lungo andare un po' monotematica e nel procedere della storia si perde un po' dello stralunato mordente iniziale. Rimane intatto invece l'interesse che è sia tecnico (bellissimi alcuni angoli di ripresa) e filosofico: Andersson riesce nella difficilissima impresa di produrre un discorso compiuto e contemporaneo sulla condizione dell'uomo (oltre che, più incidentalmente, su altri aspetti come il rapporto fra l'uomo e lo spazio) pur senza ricadere nello stereotipo fossilizzante della narrazione.
Una pellicola assolutamente da vedere, insomma anche se necessita di un'attenzione serrata e vigile per tutto il tempo: non un film per il sabato sera spensierato con la fidanzata, ecco.

VOTO: 9/10

mercoledì 21 marzo 2012

Hypnosis - Recensione


Hypnosis di Davide Tartarini e Simone Goldstein - Genere: thriller - Italia, 2011

Impiegato in un grande multisala, Christian è un ragazzone gentile e riservato, ormai da anni in cura presso il dottor Moretti a causa di inquietanti allucinazioni e di una totale amnesia riguardante i suoi primi dieci anni di vita. Da poco tornata dagli Stati Uniti, Alice, sua amica d'infanzia nonché figlia dello psichiatra, gli presenta il compagno Isaia, brillante ricercatore americano che propone di fronteggiare il problema con un'innovativa terapia ipnotica video-documentata.

Finalmente riesco a vedere questo film, che mi avevano suggerito ormai un anno fa. Produzione indipendente italiana, opera prima dei due registi. Thriller paranormale girato in parte a Crespi d'Adda, celeberrimo paesello della provincia bergamasca, prototipo della città modello industriale. Un film che quantomeno della trama poteva sembrare interessante, e invece...

Invece una gigantesca minestra preriscaldata, che elemosina pezzettini topici di vari film horror e thriller di diversi sotto-generi: lo specchio rosso del bagno è simile a quello di Ringu (ma probabilmente i registi lo avranno mutato dall'orrido remake americano), la scena finale è una chiara rivisitazione dello pseudo-horror The last Exorcism e sempre nel finale mi pare ci siano un po' troppi topoi dei vari Blair witch project e simili. Aggiungiamo una recitazione da scuola media, con un protagonista che a tratti rasenta il ridicolo (l'unico personaggio che si salva un pochino è l'anziana signora dell'aperitivo, che almeno risulta credibile). L'unica cosa valida di questo film è la colonna sonora, carina.

Il tutto si conclude con un finale inconcludente, che arrabatta elementi disparati a destra e a sinistra, senza legarli insieme, conclusione degna di un film pieno di ingenuità evitabili (p.e. perchè andare in un bar a bere un aperitivo se poi non lo bevi neanche?).Una pellicola decisamente brutta, insomma di cui sconsiglio la visione anche ai nostalgici di Crespi d'Adda.

VOTO: 3/10

Magnifica presenza - Recensione


Magnifica presenza di Ferzan Ozpetek - Genere: commedia drammatica - Italia, 2012

Pietro Ponte è un giovane uomo che inforna cornetti di notte e sogna di fare l'attore di giorno. Lasciata Catania per la capitale, cerca e trova casa a Monteverde. Entusiasta dell'appartamento e di una vita ancora tutta da realizzare, si accorge molto presto di non essere solo e di condividere il suo spazio con misteriosi inquilini, che ‘appaiono' e ‘scompaiono' turbandone il sonno e le notti. Le presenze, distinte e magnifiche, sono ombre di attori di un'altra epoca e di un'altra storia. Prigionieri di un passato nemmeno troppo remoto, la compagnia chiede a Pietro di aiutarli a recuperare la libertà perduta. Tra provini brillanti e cornetti fragranti, il ragazzo imparerà a convivere coi ‘propri' fantasmi, indicando loro la porta di casa e un nuovo tempo da abitare.

Ultimo film di Ozpetek, appena recensito in questa sede per il bel Hamam. Cambio di genere si potrebbe dire, ma neanche troppo. Come nel film precedente il protagonista (allora Gassman, qui Germano) si trova davanti a un cambiamento di vita e alla possibilità di realizzare un grande sogno.
Altrettante le differenze, però. Per fare un esempio, la colonna sonora orientaleggiante, decadente e suadente del precedente lasciano qui il posto a scelte non sempre azzeccate, con l'inserimento quasi forzato di un accompagnamento musicale anche quando non ci voleva.

Un elemento di forza di questo nuovo film, ed è tutto suo perché non l'avevo ancora trovato nel cinema ozpetekiano, è il gioco che il regista compone con i vari registri stilistici del cinema, passando agilmente e con una certa eleganza dal thriller alla commedia, fino a sposare il suo genere preferito, cioè - appunto - la commedia drammatica. Nonostante non brilli particolarmente per la tecnica, il film riesce comunque a convincere, probabilmente grazie al carisma straniante dei personaggi "magnifici" della compagnia teatrale. In particolare Vittoria Puccini, splendida nella scena in cui imita le attrici dei primi film e poi Greta Garbo e Andrea Bosca, che costruisce un personaggio romantico e perfettamente in linea con il periodo.

Un film comunque da vedere, seppure sottotono rispetto alle altre pellicole di Ozpetek che ho avuto modo di vedere. Sicuramente meglio della maggior parte dei film italiani di successo, è un film simpatico e divertente. L'unico punto poco chiaro è quello riguardo alcune ingenuità che Ozpetek sembra essersi concesso, non riuscendo a capire bene se si tratta di artifici volutamente satirici o di inserimenti che il regista ha fatto in maniera convinta.

VOTO: 6.50/10

sabato 17 marzo 2012

Hamam: il bagno turco - Recensione


Hamam: il bagno turco di Ferzan Ozpetek - Genere: drammatico - Italia, 1997

Logorato dal lavoro e da un matrimonio stanco senza figli, Francesco, giovane architetto romano, va a Istanbul dove ha ereditato una vecchia casa da un'eccentrica zia materna. Il soggiorno gli cambia la vita, facendogli scoprire nuovi valori.

Opera prima dell'ormai celeberrimo Ozpetek, uno dei registi commercialmente più apprezzati del panorama italiano da pochissimi giorni al cinema con Magnifica presenza, il film in questione è visibilmente molto vicino all'esperienza diretta del regista (turco anche lui). Lo sguardo di Ozpetek, attraverso gli occhi di Francesco, modella una visione dettagliata, brulicante ed estremamente romantica di Istanbul che, sospesa in un tempo indistinto fra la terra e il mare diventa il luogo del riscatto, del ritorno alla vita.
La storia scorre fluidamente entro i poco più che novanta minuti della pellicola ma non annoia, anzi accompagna lo spettatore, lentamente ma inesorabilmente, alla scoperta dei piaceri di un altrove lontano e non meglio definito: il sapore delle cene abbondanti e condite, il profumo del caffè turco, i vapori del bagno turco e l'odore del sapone sono tutti elementi che sembra di poter toccare, sentire e gustare.

Già in questa prima opera Ozpetek ci mette di fronte alla tematica principale della sua cinematografia (risaputamente, l'omosessualità) ma lo fa con toni che non ho più ritrovato nei suoi film successivi. La Turchia ozpetekiana è bella, vitale ma al tempo stesso decadente e fascinosa, di un fascino mortifero. Le musiche tipicamente orientali accompagnano le infinite passeggiate di Francesco, flaneur occidentale che abbandona lentamente la sua vita frenetica (fatta di telefonate e decisioni repentine) per lasciarsi abbracciare dai sentimenti e cadere, dolcemente, nell' hamam, che qui diventa metafora del nostro inconscio, del regno dei sensi che spesso dimentichiamo, fonte di un piacere originale e di una felicità autentica.

Bravi gli attori, in particolare il "giovane" Gassman che riesce a dare credibilità e forza al personaggio. Un film ben riuscito, originale e molto poco italiano, che scade solo un po' nel finale affastellando velocemente un po' troppe sequenze. Una nota a margine è che i momenti conclusivi della pellicola richiamano (evidentemente a fortiori) uno dei più celebri film del regista: Le fate ignoranti.

VOTO: 8/10

giovedì 15 marzo 2012

Sidewalls - Recensione


Sidewalls (tit. originale Medianeras) di Gustavo Taretto - Genere: Drammatico - Argentina, Spagna, Germania, 2011

Martin è un web designer. Internet gli ha cambiato la vita, nel senso che gliel'ha tolta completamente, poiché il ragazzo resta davanti al computer 24 ore al giorno: crea i suoi siti, gioca ai videogames, ordina il cibo, fa sesso virtualmente, compra oggetti per la casa. Esce di rado, ma scoppia dal desiderio di vivere davvero. Peccato che, ogni volta che ci prova, finisca per tornare indietro e rinchiudersi nel suo claustrofobico monolocale. Mariana è un architetto. Potenzialmente, perché non hai mai veramente progettato neanche un bagno. Si guadagna da vivere allestendo vetrine, finendo per sentirsi fredda e vuota come i manichini che veste.

Opera prima di questo particolare regista, il film di cui parliamo oggi potrebbe essere a buon diritto considerato il manifesto della vita (urbana, ma della vita in generale) post-moderna e fluida (per dirla con Z. Bauman). Il regista mette a punto un racconto che procede nella città, attraverso la vita di due suoi abitanti che incarnano fin troppo bene le nevrotiche schizofrenie della contemporaneità. Oscillando continuamente fra la narrazione della vicenda e gli intermezzi quasi didascalici, che sembrano provenire direttamente dalle menti dei tuo protagonisti, Taretto dipinge un affresco composito e (volutamente) frammentato della vita odierna, continuamente in lotta fra il desiderio di autoaffermazione e la volontà di ritagliarsi un angolo (reale o virtuale) per la propria sicurezza.

Il regista, attraverso il montaggio alternato che ci consente di seguire le vite dei due personaggi (diverse ma simili nella loro tragicità), fino al momento della ricomposizione finale, ci accompagna in un viaggio attraverso la metropoli dei flussi in cui lo spettatore si perde irrimediabilmente e in questo suo perdersi smarrisce la particolarità della storia narrata per concentrarsi sullo sfondo, sulla città che pulsa, che vive (e che soprattutto muore) sotto i suoi occhi.
Sidewalls è al tempo stesso un film post-moderno e anti-post-moderno perché mostra (drammaticamente e crudelmente, anche se a tratti in maniera ironica) le ipocondrie e le ipocrisie della società e delle relazioni fluide, ma è proprio in questo mostrarle che le esorcizza consentendoci di intravedere, fra i fasci di fibra ottica e i casermoni di cemento, grazie anche alla splendida fotografia, un piccolo raggio di luce.

VOTO: 9/10

lunedì 12 marzo 2012

L'arrivo di Wang - Recensione


L'arrivo di Wang di Antonio e Marco Manetti - Genere: sci-fi - Italia, 2012

Mentre è alle prese con la traduzione di un film cinese da consegnare il giorno dopo, Gaia riceve per telefono un misterioso e urgente ingaggio profumatamente pagato. Dopo mezz'ora un'auto passa a prenderla a casa per condurla nel luogo in cui dovrà tradurre il dialogo tra Curti, l'agente che l'ha prelevata, e il fantomatico Mr. Wang. Prestare la sua professionalità le risulterà però difficile a causa della strana richiesta di lavorare al buio per non essere compromessa in una situazione della massima gravità. Solo dopo aver preteso e ottenuto di accendere la luce, la giovane interprete comprenderà il motivo di tanta segretezza.

Produzione italiana, con la collaborazione della Rai, e quando si parla di produzioni cinematografiche italiane (ultimamente) c'è sempre da andarci con i piedi di piombo. In questo caso una intraprendente iniziativa di fantascienza, che però non si esaurisce nel genere e si presta a una lettura etica che può aprire alla tematiche del pregiudizio e dell'integrazione. La pellicola in questione, a dirla tutta, si trova al crocevia fra thriller (di cui ricalca alcuni stilemi tematici), sci-fi (da cui prendere l'impianto narrativo principale) e, per così dire, didascalia.

Buono il tentativo quindi, ma fuor di questo poca sostanza. Un cast appena appena discreto, con un Ennio Fantastichini che scivola nella parte stereotipata dell'interrogatore facilmente irascibile. Una colonna sonora anonima si accompagna a una fotografia e a un montaggio appena accettabili (fatta salva la bella soggettiva con gli occhi di Mr. Wang e l'iniziale - voluta - sfocatura di alcune inquadrature per rendere l'idea della impossibilità percettiva di Gaia). Tolto questo però, rimane ben poco e il film non convince più di tanto. Mi trovo d'accordo con un commento letto su mymovies per cui il film sarebbe potuto essere un buon cortometraggio.

VOTO: 4/10

Princesas - Recensione

Princesas di Fenando Leòn de Aranoa - Genere: drammatico - Spagna, 2005


Zulema è un'immagrata dominicana che si prostituisce per mantenere il figlio. Caye, anche lei prostituta, è una ragazza spagnola; la famiglia è all'oscuro della sua professione. L'incontro fra le due, all'inizio è piuttosto burrascoso ma poi le porterà a un solido rapporto di amicizia. Si aiuteranno nella speranza di raggiungere una vita migliore.


Film tipicamente spagnolo, anche se piuttosto lontano dalla poetica dell'unico grande regista iberico che il grande pubblico conosce (Almodovar). Una storia sorpendentemente a metà fra la lacrimosa drammaticità e l'ironia (a volte anche un po' volgare), che riesce a risultare comunque apprezzabile, pur non brillando per particolari qualità tecniche.

A rendere il film tutto sommato convincente, e godibile pur nella sua evidente non pretesa di artisticità non sono la trama, piuttosto scontata, né il montaggio che non evidenzia nessun particolare lavoro attorno alla successione degli eventi, né la colonna sonora (pur firmata da Manu Chao).


Sono i personaggi aranoani a risultare il centro propulsivo della vicenda: Zulema, sensuale eppure fragilissima madre, di una bellezza sconvolgente e senza tempo; Caye, riproposizione un po' stereotipica della ragazza simpatica ma non particolarmente bella, ancorché arguta; la madre di Caye (soprattutto lei), affascinante e decadente borghese spagnola, impegnata a negare a sé stessa l'evidente morte del marito. Aranoa da' forma a un mondo composito, che fa risultare piacevole un film che si muove lungo traiettorie ironiche e simpatiche, ma un po' troppo stereotipate.


VOTO: 6.50/10

martedì 6 marzo 2012

Exit: Una storia personale - Recensione


Exit: Una storia personale di Massimiliano Amato - Genere: drammatico - Italia, 2011

Marco Serrano è un giovane ragazzo profondamente disturbato: le visite del fratello Davide e le terapie svolte in una comunità di recupero non sembrano aiutarlo. La situazione degenera quando il suo compagno di stanza si suicida e Marco legge su un articolo che in Olanda potrebbe esserci la soluzione ai suoi problemi.

Recensito positivamente da diverse riviste, che lo hanno definito un vero e proprio romanzo contemporaneo, il film in questione non mi ha convinto completamente, anche se voglio premettere che è senza dubbio migliore della maggior parte dei titoli che ci vengono propinati oggi dall'industria cinematografica italiana. Solo per questo, qualche punto a favore.
In più, e non è cosa da poco, il film di distingue per alcuni accorgimenti tecnici che ho molto apprezzato: al di là della bella colonna sonora (con dei pezzi veramente convincenti di pianoforte e di archi), cito a titolo di esempio alcune inquadrature molto ben riuscite nella prima parte del film, tanto belle da avere una loro dignità plastica.

Ma non basta, almeno non completamente.
L'intreccio di per sé non è molto originale, anche se è un po' arricchito dalle successioni libere di immagini che sembrano proiettare sullo schermo le elucubrazioni di Marco. Non ho apprezzato molto, in particolare, alcuni momenti di ripresa dove il regista si è concesso secondo me alcuni movimenti di macchina piuttosto ingenui, che si potevano evitare. In aggiunta la seconda parte del film (dal viaggio in Olanda al finale, piuttosto banale) ha perso buona parte della sua attrattiva, è stata sbrogliata relativamente in fretta e questo ha generato una conclusione che lascia con l'amaro in bocca.

Un vero peccato, insomma. Il film - già interessante per alcuni spunti - poteva andare molto ma molto oltre.

VOTO: 6/10

lunedì 5 marzo 2012

Pontypool - Recensione


Pontypool di Bruce McDonald - Genere: thriller - Canada, 2008

Nella piccola cittadina di Pontypool una radio locale passa le notizie della giornata, con l'eccentrico Mazy che tiene un programma di estremo successo e fortemente controtendenza. Una normale mattinata di programmazione si trasforma radicalmente quando in radio iniziano ad arrivare testimonianze di strani eventi che accadono in città.

Per la serie: mai cantare vittoria troppo presto. Ho letto la trama del film, ambientato in una stazione radiofonica e mi è sembrato quantomeno interessante: un film che si inserisce in un genere molto connotato (come le zombie stories) rischiava di diventare originale per una trovata piuttosto semplice, vale a dire quella di inserire i protagonisti in un ambiente unico, chiuso e asfittico e paradossalmente, per non far vedere l'oggetto del terrore. E invece niente.

Dopo un buon inizio, veramente promettente (belli i titoli di testa con la voce narrante, buona la fotografia con colori spenti decisamente convincenti, bellissimo un intenso campo-controcampo sui tre protagonisti) la pellicola inizia ad accartocciarsi faticosamente su sé stessa, e arriva alla fine praticamente strisciando. Il punto di rottura del film è quello in cui si cominciano a vedere i soliti zombie bavosi e sanguinanti, una presenza banale ed evitabile in un film che aveva la forza di reggersi sulle sue gambe.

A completare l'opera, un finale assolutamente sconcertante per la sua stupidità, che mi astengo dal rivelare soltanto per il rispetto ai potenziali lettori.
Un film che non mi ha convinto, anzi mi ha deluso sotto non pochi punti di vista. E' un peccato perché avrebbe potuto rinverdire un pochino il genere, che da troppo tempo è bloccato su dei cliché ormai ammuffiti.

VOTO: 5/10

domenica 4 marzo 2012

La cosa (2011) - Recensione



La cosa di M. van Helijiningen - Genere: thriller/fantascienza - USA, Canada 2011
Antartide. La paleontologa Kate Lloyd raggiunge una squadra scientifica norvegese che ha scoperto un'astronave extraterrestre precipitata e rimasta sepolta nei ghiacci per molti anni. Scoprono all'interno una creatura apparentemente morta nello schianto.
Non so quale strano dio celeste abbia suggerito la necessità impellente di girare un prequel del discretissimo film (già recensito su questo blog) degli anni Ottanta che, se ormai ha perso un po' del suo lustro, ha sicuramente segnato un'epoca e un certo tipo di horror fantascientifico. Probabilmente convinti di risollevare le sorti del mercato (???) i produttori hanno deciso di fidarsi dell'idea del regista, che compone una pellicola che fornisce il pre-testo al film originale.
Il film è fiacco, senza respiro. Oscillando ostinatamente fra una fedeltà eccessiva all'originale e una volontà (giustificata ma mal riuscita) di originalità rispetto alla matrice, la pellicola risulta banale, scontata ma a tratti spaventosamente irrealistica. Così abbiamo da una parte scene che ricalcano evidentemente le dinamiche del primo film (il lanciafiamme, il cane, le granate etc.) e dall'altra delle situazioni che sono più originali ma che risultano un po' troppo inverosimili (la Cosa in sé perde molto del suo fascino, gli effetti della computer grafica ne snaturano le caratteristiche originali facendola assomigliare al mostro di un mediocre videogioco survival).
Un film che non ha ragion d'essere, con una protagonista femminile poco convincente e quasi irritante nella sua parte di paleontologa a metà fra la professionalità simulata e l'umorismo da magazziniera. Immancabile il bello della situazione, che muore indecorosamente dopo un po', in una pioggia di sangue. L'unica cosa che si salva in questo enorme pasticcio sono le belle ambientazioni, ma tutto il resto, come si suol dire, è noia.
VOTO: 4/10

sabato 3 marzo 2012

Una separazione - Recensione


Una separazione di Asghar Farhadi - Genere: drammatico - Iran, 2011

Nader e sua moglie Simin stanno per divorziare. Hanno ottenuto il permesso di espatrio per loro e la loro figlia undicenne ma Nader non vuole partire. Suo padre è affetto dal morbo di Alzheimer e lui ritiene di dover restare ad aiutarlo. La moglie, se vuole, può andarsene. Simin lascia la casa e va a vivere con i suoi genitori mentre la figlia resta col padre. È necessario assumere qualcuno che si occupi dell'uomo mentre Nader è al lavoro e l'incarico viene dato a una donna che ha una figlia di cinque anni e ed è incinta. La donna lavora all'insaputa del marito ma un giorno in cui si è assentata senza permesso lasciando l'anziano legato al letto, un alterco con Nader la fa cadere per le scale e perde il bambino.

Interessante film iraniano dell'anno appena passato, Una separazione riflette in maniera molto efficace e originale su dei temi che il cinema occidentale ha reso ormai triti e ritriti. Mi spiego meglio: la storia non è originalissima, ma la resa del regista le garantisce una profondità insperata e, ancor di più, la collocazione "esotica" della storia ci permette da un lato di vederla come una novità e dall'altro di apprezzare alcuni aspetti della cultura autoctona che solo un regista del luogo poteva presentarci così vivacemente.
Uno dei punti di forza della pellicola è, a mio avviso, la sua caratteristica di svelare progressivamente la vicenda narrata, senza consegnarcela nel complesso già confezionata. Lo spettatore è accompagnato in una scoperta che avviene in medias res, come se si fosse davvero nel film, come se si dialogasse con i personaggi.

Splendide alcune trovate del regista, come gli originali titoli di testa e la splendida soggettiva iniziale sul giudice "senza volto", figura che ritornerà più volte nel corso del film e costituirà, anzi, uno di quei puntelli che ci permetteranno di non perderci nella vicenda, che si presenta viva e metamorfica come le città dell'Iran contemporaneo.
Splendida la protagonista femminile, vera e propria star cinematografica del Paese e piacevole (anche se, forse, un po' scontato) il finale sospeso, che culmina con una lunga inquadratura in cui moglie e marito, pur vicinissimi, non riescono a incrociare lo sguardo.
Un buon film secondo me, sicuramente da vedere anche solo per farsi un'idea della direzione in cui sta andando il cinema medio-orientale.

VOTO: 8/10