domenica 30 giugno 2013

Qualcuno volò sul nido del cuculo



Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman - Genere: drammatico - USA, 1975

La tematica della malattia mentale è al centro di diversi lavori cinematografici che di solito la affrontano tracciandone una mitografia negativa, come avviene nel caso di molti thriller (la trilogia su Hannibal Lecter ha fatto scuola da questo punto di vista e i serial televisivi ne hanno tratto grande beneficio). Meritevolissimo quindi il film di Milos Forman, uno dei pochi ad aver vinto tutti e cinque gli Oscar principali, per la modalità narrativa che mette al centro della vicenda la vita all'interno di un istituto di igiene mentale "vecchio stile", con elettroshock e quant'altro. 

Il film si colloca nella stagione a mio avviso più felice di tutto il cinema statunitense, in quella Nuova Hollywood che cercava con forza di scrollarsi di dosso l'eredità ingombrante del suo ormai stantio classicismo e voleva svecchiarsi attraverso gli insegnamenti dei maestri europei, primi fra tutti gli autori della nouvelle vague francese. Qualcuno volò sul nido del cuculo è una sorta di operazione sincretica fra le due tradizioni: non rinuncia a un impianto narrativo molto solido che riesce a venir condotto con lucidità e intelligenza per due ore, ma neppure si trincera dietro stanchi e prevedibili stereotipi come il lieto fine a tutti i costi.

Il cast nel suo complesso è meritevolissimo; certamente Nicholson qui è al suo meglio (qui e in Batman, va da sé), ma tutti gli attori riescono perfettamente a calarsi nella propria parte pur senza risultare eccessivi e fuori luogo. La recitazione calcata e mimicamente estrema di Nicholson trova qui la sua forma ideale, non imbrigliata da alcuna regola di comportamento o di gestione: il folle non ha leggi e quindi la magmatica pantomima di McMurphy può liberarsi in tutta la sua eversività. 

Il comparto narrativo come si diceva è solido e molto americano, ma non per questo risulta spiacevole o prevedibile, anzi. Il crudo realismo mutuato dalla materia diegetica si sposa perfettamente con una modalità di gestione del ritmo narrativo che rifugge dalla stereotipia e dal coronamento favolistico della circostanze. Ogni qualvolta lo spettatore medio si aspetterebbe un'evoluzione in negativo il film ci fa cadere più in basso nella nera oscurità dell'ospedale, fino al tragico epilogo. Non c'è lieto fine e l'impostazione classica del racconto hollywoodiano viene completamente meno (è vero che alla fine "Grande Capo" riesce a fuggire. ma a che prezzo?). 

Il grande merito di film come questo è di riuscire ad essere belli al di sopra della soggettività, di riuscire ad ambire ad una piacevolezza visiva che si svincola dai giudizi personali e che pretende da chiunque un consenso nell'affermare la bellezza del visibile. Davanti a lavori come questi la stessa differenziazione fra cinema narrativo e cinema sperimentale/critico viene completamente meno e rimane solo la settima arte nella sua più pura essenzialità.
VOTO: 10/10

sabato 29 giugno 2013

Manhattan



Manhattan di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1979

Devo ammettere di non essere mai stato un grande estimatore delle commedia, soprattutto quando hanno dei lacrimosi risvolti romantici. Ma si sa che nella vita non si finisce mai di imparare; così come bisogna continuare a leggere, chi ama il cinema deve continuare a guardare i suoi prodotti sia per rimanere sempre aggiornato sulle ultime tendenze, sia per una questione di conoscenza storica. E' una fortuna quindi che questa tendenza mi abbia condotto a (ri)scoprire i film di Woody Allen, come il già recensito Io e Annie o il presente Manhattan

Di entrambi ho adorato quella vena paradossale che li rende un perfetto esempio di commedia sofisticato-cinica e - al tempo stesso- un divertente gesto decostruttivo e parodico dell'autore verso sé stesso. La schizofrenica logorrea di Allen, che rimette in gioco il senso dell'autore postmoderno agendo nei suoi testi filmici a più livelli (dalla regia alla recitazione) conduce lo spettatore entro un disegno relazionale spesso desolante ma sempre dipinto con uno sguardo mordace e colmo di spirito. Come nel suo precedente film che mi è capitato di vedere, la spinta autobiografica sembra essere molto forte, con i drammi e le piccole psicosi del protagonista/autore che vengono messe impietosamente e comicamente in luce. 

Manhattan poi ha il pregio di essere formalmente dissonante, con un'aria che raggiunge quasi il noir per il colorismo e il modo di riprendere gli ambienti e e le situazioni ma che viene costantemente rovesciata e cambiata di segno dal genio magmatico ed eternamente in movimento di Allen. Proprio per questo all'innegabile portato da commedia sofisticata si unisce qui un'attenzione per il corpo e i suoi movimenti che non ho ritrovato ad esempio in Io e Annie e che sembra avvicinare il film a tutto un altro filone della commedia americana, che mette al centro appunto i movimenti dei personaggi che diventano il vettore della comicità. Qui il tutto è molto cristallizzato ma è innegabile che è proprio la danza quasi chapliniana di Allen a condurci entro i motori della macchina narrativa.

Tecnicamente il film si situa, rispetto ad Annie, in una prospettiva più classica: mancano quasi completamente gli stilemi moderni che pure permanevano nel precedente lavoro fortemente piegati alla diegesi. Comunque sono quantomeno da notare la bellezza di alcune inquadrature e lo splendido prologo con voce over e immagini della New York tanto amata dal protagonista. Anche la titolazione non può non far pensare a un gigantesco regalo di un cineasta alla sua città, di cui è evidentemente follemente innamorato.
VOTO: 8/10

venerdì 28 giugno 2013

Ecco l'Impero dei sensi



Ecco l'Impero dei sensi di Nagisa Oshima - Genere: drammatico, erotico - Giappone, Francia, 1976.

Uno dei film giapponesi più conosciuti da noi, che però non mi era mai capitato di vedere. Anche lo schermo televisivo, ora capisco perché, respinge tenacemente il capolavoro di Oshima, uno dei massimi registi della cinematografia giapponese. Siamo di fronte a un'opera dal contenuto estremo, soprattutto in relazione al contesto produttivo. Non era pensabile che un prodotto come L'impero dei sensi circolasse liberamente nelle sale italiane, tanto che la prima edizione commercializzata del film è stata pesantemente tagliata e solo negli anni Novanta si è potuto apprezzare il lavoro del regista nella sua vera essenza. 

L'impero dei sensi è un film visivamente splendido ma molto violento. E'autoreferenziale, praticamente non ha una trama e si consuma su sé stesso come una fiamma che dopo aver arso si spegne perché è rimasta senza ossigeno. Oshima rappresenta la discesa dei due protagonisti nei meandri più caldi e perversi della sessualità, alla continua ricerca di nuove forme di appagamento del loro piacere sessuale. Ciò consente di tratteggiare ambienti asfittici e molto materici, di cui sembra quasi di sentire l'odore e sui quali è quasi possibile poggiare le proprie mani. 

Oshima rappresenta la sessualità nella sua componente più materica, mostrando senza censure o stratagemmi di sorta gli organi sessuali e l'atto riproduttivo nella sua essenza più carnale. A questo fuoco dionisiaco si contrappone però una spinta che rappresenta freudianamente il thanatos, la caratteristica mortifera che accompagna sempre inscindibilmente questo genere di discorsi. Non è un caso che la fine dell'opera sia tragica e connotata appunto da una morte violenta dal sapore quasi mantideo-surrealista. Il massimo del piacere si situa su un confine molto (a volte anche troppo) sottile con la morte.
VOTO: 7/10

giovedì 27 giugno 2013

Blade runner



Blade runner di Ridley Scott - Genere: fantascienza - USA, 1982

Parlare di Blade Runner a trent'anni dalla sua uscita è veramente difficile, soprattutto perché non si possono non prendere in considerazione le molte analisi che di questo lavoro sono state fatte. E' comunque certo che il film di Scott merita un posto di primo piano nella storia della settima arte in particolare perché segna un momento di passaggio a livello stilistico e figurativo, inaugurando quella tendenza ancora attuale che possiamo definire schematicamente come postmodernismo. In Blade runner la transizione non è ancora completa e gli stilemi di questo nuovo modo di fare e produrre cinema non risultano ancora pienamente sviluppati; eppure fra le immagini si percepisce già l'avvento di un'epoca nuova.

Insomma, lo sguardo la fa ancora da padrone e il dettato dei fotogrammi non si è ancora annichilito su una sterile spettacolarizzazione immersiva, ma tutto risulta invertito di segno. L'occhio del regista non è più critico e comincia a profilarsi l'ombra di un ludismo che avrà la sua massima realizzazione nel cinema degli anni successivi: siamo di fronte al commiato del moderno, che nel frattempo prelude alla generazione successiva. Il pregio di Blade runner, che molti suoi successori non riusciranno a condividere, è la profondità con cui questa spettacolarizzazione viene ancora realizzata: c'è del senso dietro le immagini di Scott e il portato filosofico e concettuale del film è ancora profondo e attuale.

In particolare la pellicola ci propone una versione della fantascienza molto più problematica di quella a cui ci ha abituato tutto un altro genere di cinema. Nello Star Wars di Lucas (ci riferiamo ovviamente all'episodio IV, datato 1977) la spinta sci-fi si traduce in una riproposizione futuristica dello schema classico della fiaba, in cui è chiaramente possibile identificare tutte le funzioni narrative dei personaggi e la trama è semplice e lineare: siamo di fronte alla quintessenza del divertimento. Blade runner invece ci presenta un mondo gnoseologicamente e eticamente molto più sfaccettato, molto più difficile da accettare e analizzare. 

Quanto è sottile la differenza fra un umano e un replicante? Cosa fa di un essere umano ciò che è? Cosa distingue un essere umano da una copia se il simulacro non sa di essere tale? Sono tutti interrogativi che, sebbene sciolti all'interno di una cornice narrativa ben definita, sono centrali nel dibattito filosofico contemporaneo, in particolare per quanto riguarda l'antropologia della persona. Sono questioni complesse che qui sarebbe difficile sintetizzare ma il problema dell'identità personale (Parfit, Nagel etc.) è uno dei grandi nodi concettuali che Blade runner riesce ad affrontare, in un ultimo omaggio a una stagione del cinema "di pensiero" che andava ormai concludendosi.
VOTO: 8/10

La finestra sul cortile



La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock - Genere: thriller - USA, 1954

Uno dei migliori thriller della storia del cinema, una gigantesca metafora dello sguardo così come è stato pensato dal cinema classico, un rovesciamento parodico della commedia di rimatrimonio. La finestra sul cortile è tutto questo e molto altro ancora, in una dinamica di piani di lettura che può essere efficacemente riassunta nel riconoscimento di quello che si suole dire un capolavoro nell'opera di Hitchcock. La grandiosità di un film forse non possiede metri di misura oggettivi, ma questo lavoro hitchcockiano si lascia apprezzare anche per la sua trasversalità: non è un film chiuso autisticamente su se stesso e sul suo sterile autocompiacimento; come tutti i classici esso dice qualcosa a chiunque, a qualsiasi livello ci si approcci alla sua visione.

Da un punto di vista eminentemente figurativo bisogna già notare la perfezione della fotografia, che scandisce ambienti multiformi e spesso incomunicabili pur nella loro vicinanza topografica. La finestra da cui guarda James Stewart si apre su un mondo brulicante, che guarda con sapore entomologico. Ogni uomo è un'isola, potremmo dire. Ma è anche vero che il sistema messo in piedi da Hitchcock non è completamente avulso da contatti e sembra configurarsi come un panoptikon di foucaultiana memoria: un insieme di sguardi che promanano da un unico punto e di cui le "vittime" non sono consapevoli; non sanno di essere guardate e (soprattutto) non sanno se sono guardate. 

Fra l'altro la genialità di Hitchcock sta nel rendere La finestra sul cortile una metafora azzeccatissima di come funziona il cinema di quel periodo, in cui lo stesso regista si trova imbrigliato pur riuscendo a manifestare la sua esuberanza e la sua genialità. Lo sguardo dello spettatore è incardinato a quello dei protagonisti (in questo caso a quello del solo Stewart) e lo segue in tutto e per tutto. Questo da una parte garantisce la posizione perfetta per l'osservazione (lo spettatore si trova cioè sempre nel punto migliore per vedere la scena che si sta svolgendo), ma al tempo stesso nega la possibilità di manifestare la propria presenza e di indagare altre prospettive visive su ciò che sta accadendo.

E' meraviglioso notare come un regista perfettamente inserito in una macchina industriale sia in grado di riconoscerne lucidamente i meccanismi di funzionamento e di portarli sulla scena, facendoli emergere rispetto alla condizione di invisibilità in cui si trovano di solito per lo spettatore. Quello che Hitchcock fa è un meraviglioso discorso sulle proprietà e le caratteristiche dello sguardo cinematografico, di cui riconosce pregi e limiti e di cui l'autore di parla entro una struttura comunque fortemente coinvolgente e narrativa (anche se assai metaforica). A rendere il tutto ancora più meraviglioso, le splendide interpretazioni dei protagonisti, con una Grace Kelly che ancora una volta disarticola il discorso sul gender che si stava canonizzando così perfettamente nel cinema di quel periodo.
VOTO: 10/10

domenica 23 giugno 2013

Daft Punk's Electroma



Daft Punk's Electroma di Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter - Genere: musicale/fantascienza - Francia, USA, 2006

Pur non essendo certamente un appassionato di musica elettronica, quando ho scoperto casualmente che i Daft Punk avevano preso parte a questo film che hanno anche diretto, ne sono stato subito incuriosito e ho deciso di guardarlo. La scelta si è rivelata opportuna: anche al di là di alcuni problemi che non lo rendono certamente un capolavoro, siamo di fronte a un prodotto quantomeno interessante. Anzitutto è bene notare (e questo elemento mi ha piacevolmente impressionato) che rispetto alla loro produzione musicale il film si presenta molto silenzioso, minimalista e rifugge continuamente il pericolo di diventare autocelebrazione visiva, una sorta di videoclip ingigantito insomma.

Non è un video musicale, ma forse non è neanche un film. Electroma è talmente diverso dai prodotti cinematografici contemporanei che risulta difficile persino riconoscerlo come tale. E' vero, ci sono state diverse sperimentazioni in questo senso (e i Daft se ne dimostrano consapevoli), ma nessuna era mai giunta così in là. La parola umana è completamente rigettata, in conformità al disegno narrativo che - per quanto blando - vede delle sorte di automi umanoidi abitare il pianeta: non una sola parola viene proferita in tutto il film. Il problema di questa scelta, unita alla lentezza morbosa di alcune sequenze e a una trama che praticamente non esiste, è che nonostante il film duri un'ora e dieci sembra veramente non finire mai. 

Nonostante questa caratteristica discutibile, che avvicina decisamente il film a un prodotto da cinema delle origini, bisogna dire che le ambientazioni roccioso-desertiche e le suggestioni sci-fi che permeano tutto il lavoro sono decisamente piacevoli e rendono tutto il film molto straniante e interessante (rovesciando fra l'altro tutto il filone della fantascienza sullo schermo: qui ci sono dei robot che vogliono diventare essere umani in un mondo di macchine!). Forse questo però non è bastato a fare di Electroma un prodotto piacevole, visto che alla sua proiezione all'annuale Festival di Cannes, la somiglianza di alcune sequenze con Gerry di Gus van Sant ha fatto abbandonare la sala a più di uno spettatore.

Al di là di questo atteggiamento deprecabile bisogna riconoscere che il confine fra ispirazione e copia è davvero molto sottile e, soprattutto nella parte finale, sembra davvero di vedere sequenze del film vansantiano in salsa fantascientifica (il che di per sé potrebbe non essere un male, ma forse i registi hanno esagerato con la densità dei riferimenti). Nel complesso un film piacevole, forse considerato un po'troppo entusiasticamente da alcuni recensori in cui mi sono imbattuto: il problema di Electroma è  - secondo me - una gestione davvero poco riuscita del ritmo narrativo (che poi è il grande pericolo che si nasconde dietro la rinuncia agli scambi dialogici).
VOTO: 6.50/10

Notorious, L'amante perduta



Notorious, L'amante perduta di Alfred Hitchcock - Genere: thriller - USA, 1946

E' forse eccessivo dire che dopo i thriller di Hitchcock il cinema non ha mai più raggiunto certe vette di perfezione? Forse, ma in questo c'è comunque un fondo innegabile di verità. Notorious ne è l'ennesima conferma: siamo di fronte a un film eminentemente narrativo (non è un caso che Hitchcock venga considerato uno dei padri del linguaggio classico!) ma talmente ben realizzato e pieno di implicazioni e possibilità di analisi che se ne potrebbe parlare per ore (la sterminata bibliografia sull'autore non può che confermare questa impressione). La bellezza di questi film sta proprio nell'orchestrazione generale, che a partire da una costruzione che risulta empatica sino all'inverosimile nei confronti dello spettatore, apre a spazi di riflessione praticamente infiniti.

Così Notorious, tutto basato su una trama noir ben strutturata e su una sceneggiatura molto ben scritta, grazie anche all'interpretazione magistrale degli attori (un sensuale Cary Grant e una Ingrid Bergman che è davvero una dama di cristallo), il film rappresenta una delle vette insuperate della cinematografia statunitense e forse mondiale. A livello linguistico non c'è molto da dire in effetti, ma questa povertà viene profondamente compensata da una serie molto fitta di stimoli sottocutanei che il regista inserisce all'interno delle immagini. Solo per fare un esempio possiamo citare tutta la problematica della figura femminile e del suo ruolo nella costruzione dell'identità e della società, cui si aggiunge in forma di parziale derivazione, il rapporto con la figura della Madre, centrale in Htichcock (Psycho docet) anche per le sue chiare implicazioni di carattere psicanalitico. 

Notorious è il perfetto esempio di un titolo bellissimo, affascinante grazie anche al bianco e nero etereo, nonostante non sia per nulla sperimentale. Si tratta di un film perfettamente inserito in una ben determinata logica produttiva, diciamo pure di consumo, ma entro cui l'autorialità di Hitchcock emerge prepotentemente a livello di tematiche e di sguardi. E' proprio da questi titoli che i cineasti contemporanei dovrebbero ripartire, per cercare di capire che è possibile realizzare un bel cinema di intrattenimento, che è ancora possibile realizzare dei buoni prodotti anche all'interno di una non sempre clemente logica produttiva.
VOTO: 10/10

sabato 22 giugno 2013

Le monde nous appartient


Le monde nous appartient di Stephan Streker - Genere: drammatico - Belgio, 2012

La nostra esistenza è costantemente riempita di tragedie silenziose, episodi di violenza interpersonale o auto inflitta in cui vite dimenticate si spengono con violenza oppure lentamente, lasciandosi andare senza reagire. Quanti individui vediamo ogni giorno per la strada e quanti di questi la sera non rivedranno la propria famiglia? È il disagio del flaneur, la spada di Damocle della modernità, diretta conseguenza della perdita di abitabilità dello spazio. Il mondo ci appartiene, ma è diventato un luogo altro da noi.

Il film di Streker è un manifesto alla vacuità dell’oggi, ma non ha l’aria di esserlo. È un’insieme di storie, un arazzo post-moderno dove le esistenze più diverse si incrociano senza esserne consapevoli. Ognuno ha i propri demoni da combattere (il rapporto familiare, un amore non corrisposto, il gioco…) ma il dramma individuale è incomunicabile agli altri e tutti sono chiusi in una solitudine senza scampo. Circondate dall’abisso, le figure di Le mond nous appartient giostrano freneticamente in cerca di una salvezza, che trovano nei più diversi espedienti. Alla fine, però, rimane solo un grande senso di vuoto.

È un senso di vuoto acre, che non lascia scampo perché non ha senso ed è costantemente stemperato da false relazioni sociali che costruiscono il simulacro di una vita felice. Ma, al di là della diegesi principale, che dipinge le miserie e i sogni dei due giovani protagonisti, di questo film rimangono soprattutto le sequenze extra-narrative, che con uno sguardo quasi scientifico, riprende senza giudicare frammenti di vita fini a sé stessi.

Il regista si diverte a scompaginare i tempi del racconto, che si frammentano in unità minimali destinate a ricomporsi solo in virtù di un piacevole (auto)compiacimento visivo, che passa attraverso un uso sapiente e intelligentissimo dei processi di montaggio e un ricorso mai banale alla musica, che diventa a sua volta fattore compositivo. È proprio grazie a una buona dose di sperimentalismo che il film si situa su un livello qualitativo decisamente alto, che riscatta anche la presenza di alcune sequenze poco riuscite.



I fili della storia si ricompongono nel finale, che ripropone e amplifica tutte le suggestioni di questo breve ma estremamente riuscito prodotto belga che, per citare una splendida frase di Giacometti, rappresenta il vuoto che ti cammina accanto, facendotelo dimenticare. 
VOTO: 8/10

venerdì 21 giugno 2013

Il bosco fuori



Il bosco fuori di Gabriele Albanesi - Genere: horror - Italia, 2006

Due dati di fatto risultano piuttosto evidenti riguardo al cinema italiano: che spesso è poco originale e tende a copiare prodotti di successo senza badare troppo alla loro qualità (e questo è verissimo anche per quanto riguarda la televisione) e che spesso questi prodotti si rivelano poi un fiasco pressoché totale perché chi si da alla copia non è in grado di usare questo procedimento in maniera intelligente e di tenere in considerazione le condizioni al contorno (p.e un film che potrebbe avere molto successo in Giappone potrebbe essere un fallimento sul mercato occidentale etc.).

Il bosco fuori è un classico esempio di questa dinamica, che già dal titolo internazionale (Last house in the woods) vuole evidentemente omaggiare uno dei capisaldi del genere cui si ispira, il celeberrimo L'ultima casa a sinistra. Già dall'inizio il prodotto di Albanesi si presenta quindi come un omaggio praticamente senza fantasia a un tipo di pellicola che ha rinnovato la storia di un genere ma che oggigiorno risulta mediamente abbastanza inutile e scontato. Questo non è vero per un generico disamore nei confronti di questo tipo di lavori, ma perché è abbastanza facile prendere atto di come oggi siano ben altre le strade da battere.

A questa scarsa utilità e fantasia si aggiunge poi la qualità della realizzazione del prodotto nel suo specifico. che se si dovesse riassumere in una sola parola sarebbe probabilmente da definirsi imbarazzante. Ma davvero il Centro sperimentale di cinematografia può aver contribuito a un simile disastro? A parte la trama di per sé non originale e infarcita di buchi narrativi e stereotipi fino all'inverosimile, la regia incerta e la recitazione a livelli che rasentano lo zero assoluto mi permette di esprimere qualche dubbio circa l'utilità di un film come Il bosco fuori

Nel complesso un lavoro non tanto deludente, quanto semplicemente mediocre e mal realizzato. Un peccato, perché le strade che dovrebbe prendere il cinema italiano sono ben altre; imitando malamente gli americani di certo non si potrà andare molto lontano.
VOTO: 3/10

giovedì 20 giugno 2013

Arirang



Arirang di Kim Ki-duk - Genere: drammatico/documentario - Corea del Sud, 2011

Se Pietà, splendido lavoro di Kim Ki-duk praticamente appena recensito, ha segnato il ritorno sulle scene del celebre regista coreano con la (meritatissima) premiazione al Festival di Venezia, Arirang è la testimonianza di un tempo precedente, dal sapore quasi atavico e antidiluviano, di una crisi che prelude a una resurrezione (sarà un caso che il film successivo, che collega i due, sia Amen?). Sotto shock dopo l'incidente occorso durante le riprese di Dream, il cineasta si è ritirato per tre anni in un eremo di montagna, in un isolamento assoluto che sa di ascesi monastica e che i fotogrammi terrei e imprecisi di questo lavoro testimoniano egregiamente.

Al di là di tutto, delle motivazioni personali che hanno spinto il regista a dedicarsi a questo genere di cinema (aspetto sicuramente meritorio ma che non ho gli strumenti per approfondire), Arirang è un grido che risale violentemente e che urla alla base della nostra percezione, chiedendoci di riflettere sulla vera essenza del cinema. Insomma, oltre a tutte le interpretazioni che potrebbe potenzialmente ricevere, il film di Kim Ki-duk è la perfetta dimostrazione del fatto che per fare cinema, vero cinema, non ci sia bisogno di nient'altro che di una videocamera e di qualcosa da filmare; questo non vuol suggerire certo che un qualsiasi materiale filmato sia un film, ma sarebbe bene riflettere che si può dire e fare moltissimo anche col niente quasi assoluto. 

L'aspetto commovente di questa narrazione così fortemente irregolare, spezzata, paradossalmente antinarrativa è la profonda umanità che rilascia ad ogni immagine, come se il regista fosse riuscito a intridere la pellicola della sua sensibilità incredibilmente umana. E' singolare poi rendersi conto che l'affezione che si può provare per un film come Arirang non deriva essenzialmente da una sterile empatia con una storia lacrimosa, ma con la presa d'atto dello sterminato amore di Kim per il cinema e della sua insopprimibile necessità di produrre per esistere, come che lui fosse nato per la macchina da presa.

Sicuramente un film complicato, non per tutti, che grazie a una ottima fotografia riesce a penetrare nella sostanza più pura e personale della settima arte. Non è un film pensato per il grande pubblico, il ritmo narrativo ce lo conferma, ma fatto essenzialmente per un regista che ne aveva l'estrema necessità. Il cinema è una cosa seria; c'è anche chi lo intende come una questione di vita o di morte.
VOTO: 9/10

mercoledì 19 giugno 2013

Stoker



Stoker di Park Chan-wook - Genere: thriller - USA, Regno Unito, 2013


Park Chan-wook ha sempre diretto film molto particolari, ma questa volta si è superato, affidando la propria regia a un sincretismo inedito e riuscitissimo fra tecniche e stilemi del suo cinema e di quello americano. Stoker è un titolo profondamente occidentale sulla carta, che rivela però una attenzione per i dettagli, per la citazione che non appartengono a questo regno linguistico ma risultano piuttosto mutuati, appunto, dal cinema asiatico. Il pregio del film sta infatti tutto nell’ostinato rifuggire da un’orchestrazione prettamente narrativa e l’intelligenza del regista è stata proprio quella di creare delle aperture più libere in uno schema altrimenti troppo soffocante.

La trama di per sé piuttosto semplice e lineare viene infatti abilmente ma sottilmente disarticolata in alcuni punti nevralgici dove, anche attraverso un uso intelligente e non scontato del romanzo, l’illuminazione psicologica sui personaggi risulta fortemente aumentata. Questo dimostra molto efficacemente come la qualità tecnica ed estetica di un film non debba necessariamente andare a discapito dell’empatia narrativa, anzi. Un uso intelligente degli elementi della grammatica cinematografica consente di tradurre sensazioni, suggestioni e spinte emotive della narrazione a livello materico, come suggeriva già in tempi non sospetti Stan Brkahage.

Tutto concorre, in Stoker, a creare un microcosmo percettivo che sia il più possibile ansiogeno e asfittico, che concorra al disvelamento dei misteri dell’omonima famiglia. La gestione del ritmo narrativo è molto intelligente e l’articolazione della trama riesce a non risultare mai scontata, cosa a cui concorrono anche una buona sceneggiatura (straordinario che sia stata scritta da un’attore!) e una prova recitativa molto gradevole da parte di tutti gli attori. In particolare Nicole Kidman, sempre straordinaria, appare ancora una volta a sua agio nei panni di una donna fatale, dallo statuto eticamente doppio, che alla fine si rivela quasi inconsapevole e fragile vittima di macchinazioni altre.

Nel complesso siamo di fronte a un titolo decisamente valido all’interno del panorama aneddotico e ripetitivo delle sale di questi ultimi mesi (se si eccettuano alcuni titoli rubati a Cannes); un film da cui molti registi soprattutto americani avrebbero parecchio da imparare: un perfetto esempio di felice ibridazione linguistica fra un solido impianto narrativo e un largo novero di spazi di manovra aperti all’estetica visuale.  
VOTO: 8.50/10

martedì 18 giugno 2013

Irréversible



Irreversible di Gaspar Noe - Genere: drammatico - Francia, 2002

Gaspar Noe è un regista decisamente poco prolifico, ma che già con la sua prima prova (Seul contre tous) aveva dimostrato di saper padroneggiare la macchina da presa con una sicurezza e un'eleganza fuori dal comune, riuscendo a gestire storie violente tanto da un punto di vista narrativo quanto da quello visivo. Irréversible, presentato al Festival di Cannes nel 2002, non smentisce la nostra interpretazione, anzi la rafforza grazie a un uso ancora più articolato e personale degli elementi del linguaggio cinematografico. La trama è semplice e si riassume in maniera piuttosto schematica con il topos della tragedia di vendetta (vedasi in letteratura il Tito Andronico); il vero merito del film è quindi il modo in cui la materia viene proposta allo spettatore, che si trova come investito da un flusso crescente di potenza visiva.

A parte un prologo iniziale poi ripreso alla fine del film (cui forse prende parte il protagonista si Seul contre tous? Non sono riuscito a riconoscerlo...), tutto il resto della vicenda viene proposto in maniera fortemente antinarrativa e il regista sceglie di invertire l'ordine della diegesi, presentandoci la trama a partire dalla fine. Noe non cera quindi l'effetto sorpresa, il coup de theatre in una narrazione che non ha nulla di straordinario ma che anzi mette dolorosamente a sistema la violenza del quotidiano. E così lo spettatore è chiamato attivamente a partecipare al racconto, rimettendo insieme i pezzi di una storia che inizialmente appare sempre più incompleta e incomprensibile. Mentre la narrazione procede verso l'origine, la nostra consapevolezza dei fatti e della psicologia dei personaggi aumenta, insieme all'opprimente sensazione di asfittico orrore che ogni singolo elemento contribuisce a creare. La chiave di volta è lo stupro della bella Alex, interpretata da una seducente e perfettamente integrata nella parte Monica Bellucci (anche se il doppiaggio italiano credo non le renda giustizia). 

La genialità di questo schema, che destabilizza tutta la struttura narrativa tipica del cinema tradizionale, trova un controcanto necessario e non meno importante nel modo che la regia ha di gestire le riprese, che soprattutto nella prima metà del film appaiono composte in maniera fluida e confusiva e non contribuiscono a una maggiore comprensione dei fatti. Lo sguardo dello spettatore è instabile e gli si richiede una fatica immane per seguire le peregrinazioni del regista; la cosa è confermata anche nel finale, dove lo sfarfallio tipico del cinema delle origini viene riproposto come a suggello di un'opera che fa del respingimento del pubblico una delle sue chiavi di lettura principale. 

Dopo la scena dello stupro - momento chiave veramente violento e gestito in maniera impeccabile da Noe per quanto riguarda cromatismo e punto di ripresa - il dettato si fa meno confuso e la ricerca dell'assurdità visiva diventa meno marcata, privilegiando modalità compositive meno estreme. Il risultato complessivo comunque non ne perde. Dopo un'ora e quaranta di film rimane la sensazione di aver appena visto qualcosa di profondamente geniale, che ha ricevuto delle critiche ingiustificate da chi probabilmente non ne aveva compreso la vera essenza.
VOTO: 9.50/10

lunedì 17 giugno 2013

L'adolescente



L'adolescente di Catherine Breillat - Genere: drammatico - Francia, 1999

Primo film della regista che ha già trovato spazio su questo blog per il suo controverso A mia sorella. Un lavoro ancora più violento, che amplifica le tematiche affrontate nel lavoro già analizzato raccontandole in maniera ancor più esplicita, precisa e demistificante. Il grande idolo polemico della Breillat rimane la famiglia, intesa come elemento di formazione, ma in un senso profondamente negativo (anche se, in questo film, la considerazione che si ha per la sfera familiare è forse migliore o quantomeno più permeabile rispetto alle influenze delle protagoniste). L'adolescenza, momento di confine per eccellenza, diventa lo specchio epistemologico attraverso cui i personaggi meglio tratteggiati leggono la realtà, ponendosi solitamente in una posizione antitetica rispetto alla police esercitata dal nucleo parentale.

Anche L'adolescente non fa eccezione e mette ancora una volta a tema le dinamiche esplorative di una ragazzina che vive la scoperta dei piaceri e delle perversioni del sesso. E' un grande romanzo di formazione, che però (molto più realisticamente), non edifica ma distrugge, causando il collasso di quel microcosmo sociale che la famiglia ha sempre rappresentato. Di questa istituzione la Breillat mette lucidamente in evidenza le ipocrisie basso-borghesi, i sogni qualunquisti e dozzinali che animano i falsi arrivisti della campagna, tratteggiando un'umanità desolata e lasciata crogiolare nelle sue false speranze.

Da un punto di vista stilistico, L'adolescente si mostra decisamente più riuscita rispetto a A mia sorella. L'impianto compositivo è più libero e, essendo meno intaccato da schematismi consolidati, può permettersi di indulgere in maniera sedotta e quasi macabra sui più oscuri meandri della sfera sessuale, di quel regno delle pulsioni istintuali che la procace Alice vuole conoscere con tanta violenza. In questo la Breillat si rivela una grande esperta, portando ancora una volta in primo piano il lato più carnale e materico del sesso fine a sé stesso (non solo nel senso di non riproduttivo, ma anche di condotto senza sentimento). Nessuna paura quindi nel mostrare gli organi sessuali maschili e femminili nella loro presenza concreta, senza nasconderli dietro quel becero sistema di mascheramenti che il cinema ha sempre studiato a questo scopo. 

I colori lignei e terrosi della fotografia veicolano l'idea di una realtà calda e magmatica, profondamente organica. Di questo film, a parte l'impostazione generale, non si può quindi non apprezzare il coraggio: mostrare nei tardi anni Novanta, con una tranquillità fuori dal comune, lo sperma e gli umori vaginali è un'operazione certamente degna di nota, tanto più quando si riesce a inscrivere in un'opera esteticamente ben riuscita come L'adolescente.
VOTO: 7.50/10

Alla deriva - Adrift



Alla deriva. Adrift di Hans Horn - Genere: thriller - Germania, 2006

Film visto ieri alla televisione; in effetti si tratta di uno di quei titoli caratteristici del palinsesto Mediaset, da mettere in prima serata spacciandoli per emozionanti film thriller (mi viene in mente il terribile ciclo "Alta tensione" di Canale 5). Il problema è che questo genere di titoli, per quanto adatti ad una programmazione generalista, non sono per niente intrattenenti: va da sé che da un film del genere non ci si aspetta grandi cose e di certo non si possono pretendere elevate sperimentazioni linguistiche, ma sarebbe il caso che quantomeno un minimo di decenza o di ossequio a canoni già consolidati venissero rispettati.

Invece Adrift, che è addirittura il seguito di un film consimile (e probabilmente egualmente inutile) sconvolge in negativo tutte le aspettative e si rivela come un titolo completamente inutile e a tratti perfino fastidioso. La trama non certamente originale contribuisce alla definizione complessiva del panorama che si va considerando ma bisogna quantomeno ammettere che l'idea di base sarebbe stata interessante, se fosse stata studiata e utilizzata meglio. Invece quasi tutto il film è uguale a sé stesso, non ci sono nodi narrativi degni di questo nome e tutto il lavoro di Horn finisce alla fine per essere ripetitivo e - alla lunga - noioso. 

Come si segnalava in apertura, non c'è praticamente niente da dire sotto il profilo tecnico: siamo di fronte al classico prodotto cine-televisivo che ibrida le sue caratteristiche per adattarsi bene a una prima serata senza troppe pretese (il che è lecito, ma qui di pretese non ce ne sono proprio...). La sceneggiatura è poi a tratti particolarmente banale e i personaggi, che incarnano senza rinnovarli i classici stereotipi narrativi (il padre bello e buono, l'amico che mette tutti nei guai, la ragazza che alla fine si salva perché ha una bambina che l'aspetta etc.), si muovono senza fantasia attraverso dialoghi talmente malscritti da far dubitare anche della loro reale esistenza. 

I pezzi più divertenti sono poi le morti paradossali dei protagonisti, fatte apposta per sbarazzarsi di loro e lasciarne viva solo una (è un caso che sia una donna?) e il finale, scontato come pochi. Nel complesso un film deprecabile, che non si vorrebbe mai vedere accendendo il proprio televisore; peccato che le nostre programmazioni ne siano piene...
VOTO: 3/10

domenica 16 giugno 2013

La notte dei morti viventi (1968)



La notte dei morti viventi di George A. Romero - Genere: horror - USA, 1968

Nel cinema, come in qualsiasi altro campo del sapere che abbia una sua estensione (o "evoluzione") diacronica, quando ci si appresta ad analizzare un prodotto di svolta, bisognerebbe sempre sforzarsi di comprenderne la novità estetica e la grande risonanza che ha avuto nell'evoluzione successiva del linguaggio che si va considerando. Nessuno mette in dubbio che Fino all'ultimo respiro, Ossessione o Blade runner siano titoli fondamentali per comprendere l'evoluzione delle forme espressive del cinema, ma quale sarebbe il pensiero sul film di Romero? E' probabile che, in virtù di un diffuso disamore nei confronti del cinema di genere lo si considererebbe come un prodotto secondario, compiendo una gravissima ingiustizia storiografica.

Il film di Romero è, infatti, a dir poco geniale. Al di là degli aspetti tecnici che potrebbero essere lungamente discussi (ma bisogna ricordare che è un lavoro ormai datato, i progressi nella finzione sono stati enormi e quindi non si potrebbe ritenerlo un titolo malriuscito solo perché oggigiorno siamo abituati a vedere un cinema profondamente diverso) è importante notare che Night of the living dead (questo il titolo originale) è stato probabilmente uno dei lavori cinematografici più generativi nella storia della settima arte. Romero ha canonizzato un genere e una figura (quella dello zombie, appunto) che avrà una grandissima fortuna in tutta la discorsività successiva (lo stesso Romero comporrà un'esalogia sul tema e non si possono dimenticare i remake e i sequel apocrifi dei suoi film, Fulci ne è un esempio). Lo zombie romeriano è una figura eterna, che fra l'altro potrebbe essere perfettamente immaginata come un simbolo della stessa pratica cinematografica; non a caso Bazin parlava per il cinema di un "complesso della mummia", che serviva a tenere in vita un corpo  soggetto alla minaccia della decomposizione. Le similitudini con lo zombie sono quindi piuttosto evidenti.

In merito al film considerato nella sua singolarità è importante notare come il regista sia riuscito a creare un intreccio che, per quanto tutto sommato risulti definito, lascia ampi spazi di manovra per integrazioni e interpolazioni con materiale diverso. La struttura narrativa e narratologica di La notte dei morti viventi è il prototipo esemplare di un nuovo tipo di serialità, più aperta all'intromissione di diverse figure autoriali che lavorano intorno ad un concetto più che ad una storia. La struttura base del film (un certo numero di individui cerca rifugio in un luogo per sfuggire dall'attacco) rappresenta la forma standard che assumeranno tutti i film di genere (anche quelli più recenti), limitandosi ad arricchire o a specificare degli aspetti che non erano stati sufficientemente messi in luce (ad esempio, cosa ha originariamente causato la trasformazione?).

Romero poi eleva il suo prodotto, contribuendo a farne il vero e proprio capostipite di una mitografia del non morto, grazie a una regia attentissima che sfruttando efficacemente la scelta del bianco e nero crea atmosfere ansiogene a partire da una scenografia praticamente inesistente. Soprattutto nei momenti più foschi poi, la fotografia si fa manichea e sottolinea con il netto contrasto luce-ombra la lotta che i protagonisti portano avanti, tentando di sottrarsi all'avanzata degli zombie. Anche il finale, per nulla scontato, è veramente ben fatto; certamente si tratta di un'eredità che andrebbe recuperata e studiata, per fare in modo che i prodotti che spesso ci vengono propinati dal cinema contemporaneo siano di una qualità meno infima e scadente.
VOTO: 8/10

Le luci della sera



Le luci della sera di Aki Kaurismaki - Genere: drammatico - Finalndia, 2006

Dopo aver visto alcuni lavori di Kaurismaki (come La fiammiferaia, recentemente recensito) non si può non notare come la caratteristica principale del suo cinema sia quella di tracciare geometrie relazionali utopiche in spazi esistenziali solitari e inamovibili. Le luci della sera, film decisamente posteriore rispetto al sopraccitato, non fa eccezione e indaga con una glaciale freddezza al limite dell'analisi documentaristica la vita di una guardia giurata qualsiasi, che viene coinvolta in un'operazione criminale e vede la sua eterna buona fede costantemente non ripagata.

L'affresco che traspare da questa pellicola è desolante: il destino di ciascuno sembra essere predeterminato e non c'è modo di rinnovare la propria condizione, che si inserisce irrimediabilmente in un binomio dal sapore ontologico fra vincitori e vinti. Si tratta di un topos che ha avuto larghissima fortuna anche in letteratura (Verga ne è un chiaro esempio) e che in questo film finlandese sembra rinascere, dolorosamente calato nel contesto contemporaneo. Così Le luci della sera, parte di una trilogia consimile per toni e tematiche, da' voce a una narrazione di sopraffazione, in cui anche le relazioni umane vengono travisate o ignorate. Così il nostro protagonista, sospeso fra due donne spesso rappresentate in modo abbastanza evidentemente hitchcockiano (in particolare ricordiamo la scena del ristorante de La donna che visse due volte), non riesce a trovare la sua dimensione esistenziale e la bontà che lo contraddistingue diventa un'arma a doppio taglio.

Se poi nel bel La fiammiferaia il grido di desolazione e solitudine della protagonista trovava un riscontro estremo nel desiderio di vendetta, Le luci della sera è in questo senso connotato da un pessimismo estremo: viene meno qualsiasi possibilità di rivalsa e non è neppure ventilata l'eventualità che la guardia giurata di cui seguiamo le vicissitudini, con un estremo slancio vitalistico, rivendichi sé stesso e la sua posizione nel mondo. Arreso all'evidenza dei fatti egli si muove in spazi dal sapore hopperiano che, anche grazie a una sorvegliatissima messa in scena e fotografia, si rivelano sempre più ostili e inabitabili; il finale, di una drammaticità intensa e materica, conferma ancora una volta la nostra intuizione: non c'è possibilità di salvezza per i subalterni, che non possono far altro che accettare la loro condizione nella passività più totale.
VOTO: 7/10

sabato 15 giugno 2013

Inland Empire: L'impero della mente



Inland Empire: L'impero della mente di Daivd Lynch - Genere: drammatico/grottesco - USA, Polonia, Francia, 2006. 

La genialità di David Lynch si è sempre caratterizzata per la sua perturbante stravaganza e per la sorprendente capacità di dividere il pubblico e la critica. Il Farinotti attribuisce (ingiustamente) la valutazione minima fra quelle disponibili a Strade perdute e lo stesso Inland empire ha ricevuto pareri decisamente discordanti su molti dei siti che ho consultato. In effetti si tratta di una sensazione che, se proprio non si vuole condividere, vale almeno la pena di comprendere e il prodotto che stiamo considerando rende facilmente ragione di questi dati di fatto. Anche solo considerando la durata - praticamente di tre ore - si riesce facilmente a capire che il cinema di Lynch (soprattutto quello dell'ultima stagione, di cui fanno parte entrambi i film citati) non è un cinema per tutti e si caratterizza per uno stile e una modalità di messa in scena fortemente respingenti rispetto al pubblico, di cui evidentemente non interessa cercare il consenso. 

Se però in Strade perdute Lynch si manteneva quantomeno entro una cornice narrativa esistente ancorché lasciata esplodere in una formazione diegetica incoerente e contraddittoria, Inland Empire è, da questo punto di vista, ancora più estremo. Non c'è neanche il tentativo di creare lo scheletro di una narrazione che si possa definire tale e il risultato complessivo andrebbe inserito nella categoria dell'esperienziale più che in quella del visuale. Inland empire è forse più simile a una videoinstallazione o a un'insieme di queste ultime, piuttosto che a un film. 

Le sequenze che compongono questa summa lynchiana sono molteplici, conflittuali e tra loro contradditorie; non solo non c'è illusione di realtà ma anche la stessa idea di un percorso filmico coerente viene completamente meno. Si mescolano i più diversi registri sia nella forma che nel contenuto e tutto concorre a creare un senso di spaesamento che comunque non sembra mettere in discussione le innegabili caratteristiche fascinatorie di un titolo tanto controverso. Tutto è surreale e sospeso nel tempo e nello spazio e le sequenze con i conigli (fra le più geniali di tutto il film) rappresentano la quintessenza di questo concetto e non possono non ricordare alcune delle realizzazioni più felici del Surrealismo artistico (Max Ernst, Dalì e altri). 

Paradossalmente ci troviamo di fronte a un film che sembra non voler essere guardato, come se la pellicola si fosse autoimpressionata per errore e fosse meritoria solamente di essere dimenticata in un cassetto. Inland Empire non è neanche un film, forse. Certamente è un vero e proprio capolavoro del genio umano, che - a mio modesto avviso - non ha bisogno né presuppone spiegazioni. Online ho trovato molti tentativi di stabilire il senso delle immagini messe in campo da Lynch, ma davvero ricostruire una nozione di questo genere è utile e possibile? La volontà tassonomica che sembra dominarci (si pensi a quanti modelli sono stati elaborati per spiegare Inception!) non rischia forse di non rispettare la singolarità estetica di alcuni prodotti che di questi schemi classificatori si fanno continuamente beffa? Io credo che sia molto più interessante ed esteticamente funzionale, perdersi nel labirinto delle immagini e dei cunicoli narrativi senza uscita.
VOTO: 8.50/10

Pietà



Pietà di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2012

Che Kim Ki-duk sia uno dei registi più interessanti di questi ultimi anni, almeno a mio avviso, è un dato di fatto. Pur non avendo avuto modo di vedere ancora tutta la sua filmografia ho già avuto modo di parlare spesso dei suoi lavori e non mi sono mai trovato meno che estasiato dopo aver guardato uno dei suoi film. Pietà non fa eccezione e il Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia è meritatissimo. E' un film grandioso, profondamente contemporaneo ma al tempo stesso intriso di sensazioni e movimenti che hanno tutta la valenza di un sapere arcaico. 

Conformità di fondo con il lirismo compositivo che lo ha sempre contraddistinto, ma che questa volta si sposa perfettamente con un'idea completamente diversa della vita e delle cose. Si abbandona il leggiadro incedere delle forme che aveva caratterizzato Ferro 3 o Soffio e si va ad indagare un mondo che si presenta sporco, putrido, brulicante di individui che faticano ad esistere e che - nonostante questo - sono dotati di un'umanità profonda e incontestabile. E' come se la pellicola prendesse corpo da sé, come se il regista non avesse avuto bisogno di orchestrarla nei minimi particolari: c'è qualcosa di profondamente reale in queste immagini che descrivono l'Inferno sulla Terra. E' un realismo che però è ben lontano dall'essere epistemologicamente attendibile e ciò che ne risulta, alla fine, è un senso di imminenza escatologica pericoloso e distruttivo.

Siamo di fronte a un lavoro deciso, estremo. Un film che fin dal primo minuto mette in scena uno sguardo visionario e profondamente metafisico, dotato di una capacità che ho già avuto modo di definire figurale. E' come se dietro ogni sguardo - ripreso con una sapienza che pare un melange fra Impressionismo ed Espressionismo - ci fosse non un sentimento ma un'Idea, la prefigurazione di un Assoluto che è pronto a manifestarsi eppure così sfuggente e momentaneo. Il messaggio (sebbene questo concetto sia da ridiscutersi in un'ottica più generale) è quello di un mondo alla deriva, imputridito dall'arrivismo e dalla vorace fagocitosi di denaro, di un denaro che annulla anche i sentimenti umani più elementari e che lascia posto solamente a un nichilistico desiderio di autodistruzione.

La religione del mondo moderno è qui, in questi fotogrammi. Commovente a dir poco.
VOTO: 10/10

venerdì 14 giugno 2013

House at the end of the street



House at the end of the street di Mark Tonderai - Genere: thriller - USA, Canada, 2012

Il sottotitolo di questa recensione potrebbe essere: "ovvero: come prendere una puntata di Criminal minds, l'idea di base di Psycho e farne venire fuori un film". In effetti il film di Tonderai, nelle sale in questi giorni, risulta complessivamente poco originale sia per quanto riguarda l'impostazione generale della storia sia per i continui e malcelati riferimenti ad altre pellicole. Non che l'intertestualità sia di per sé un male in ambito cinematografico, anzi. In questo caso però sembra che il regista non sia riuscito a reinterpretare i suoi modelli e li abbia traslati senza troppi adattamenti al suo prodotto; questo è sintomo di poca originalità, anche se si tratta di una pratica enormemente diffusa oggigiorno (il che non implica che non sia da stigmatizzare!). 

Comunque House at the end of the street risulta, a una prima occhiata, un prodotto accettabile per quanto piuttosto scontato, che si lascia guardare anche se non apporta particolari innovazioni al genere in cui si inserisce peraltro perfettamente. La narrazione è semplice e segue una linea a volte troppo prevedibile; fortunatamente la tendenza si inverte nella seconda parte del lavoro e il coup de theatre messo in scena dalla regia si rivela efficace e interessante; ne consegue un buon ritmo, che riesce a tenere gli spettatori ben incollati al teleschermo.

Al di là di questo però, poco o nulla da segnalare. Se si eccettuano alcuni passaggi piuttosto riusciti a livello di fotografia (che sono - guarda caso - quelli meno funzionali al dispiegarsi della trama) e a un uso del montaggio discreto, di questo prodotto non rimane poi molto. A livello di sceneggiatura, soprattutto nella prima parte del lavoro, emergono dei grossolani problemi nell'impostazione dialogica che - complice anche una prova non sempre felice da parte degli attori - non è sempre convincente. 

Anche in questo caso devo dire che il tutto è decisamente migliorato nella seconda parte della pellicola, ma forse non è abbastanza: è vero che a questo punto si apprezza un intreccio più complesso, meno prevedibile e più strutturato, ma a chiunque abbia un minimo di cultura cinematografica non potrà non essere venuto in mente lo schema di base di Psycho, che qui - come si diceva - sembra essere stato ripreso senza variazioni grossolane. Soprattutto sul finale poi, il riuso sfocia nella citazione più pura e le due pellicole appaiono strettamente interdipendenti. 

La domanda che a questo punto varrebbe la pena di porsi riguarda il senso di questa operazione che, ai miei occhi, è sembrato inesistente; non c'è nessun ragionamento sulla pratica della copiatura dietro questa citazione erudita e il potenziale effetto eversivo ne risulta completamente sopito. Un vero peccato, perché House at the end of the street finisce col risultare nient'altro che uno dei soliti prodotti da cinema di genere. 
VOTO: 5.50/10

giovedì 13 giugno 2013

Tokyo decadence



Tokyo decadence di Ryu Murakami - Genere: drammatico - Giappone, 1992

Il cinema giapponese di qualità sembra essere morbosamente attratto dalle situazioni estreme; ho già più volte avuto modo di commentare questa tendenza e il film di Murakami (tratti dall'omonimo romanzo del medesimo autore) non fa che confermare questa mia impressione. Tokyo decadence è un film visivamente molto potente ma anche profondamente scabroso; bandito in una manciata di Paesi è stato distribuito in Italia in una versione profondamente amputata (90 minuti contro una versione originale di circa 130). Io ho visto proprio la versione arrivata nel nostro paese tramite la Lucky Red (che comunque va ringraziata per averci donato questo film) e quindi anche il commento sarà relativo a quella parte di pellicola che è consentito vedere con il doppiaggio in lingua.

La narrazione è elementare e praticamente non c'è progressione diegetica, se non nel finale che però a mio avviso è uno dei passaggi meno riusciti di tutta l'opera. Il film procede linearmente giustapponendo situazioni estreme in cui la protagonista si trova implicata, dovendo soddisfare i desideri sessuali dei propri clienti. La volontà del regista di riprendere nella loro interezza questi episodi ne ha fortemente ridotto il numero complessivo: in novanta minuti sono tre o quattro le situazioni che vengono rappresentate, ma tanto basta per dare un'idea abbastanza approfondita e della psicologia dei personaggi e delle movenze ideali che stanno alla base della "decadenza di Tokyo", che vengono ben illustrate proprio durante uno degli scambi dialogici migliori del film.

Al di là di un comparto tecnico che regge decisamente la prova, pur senza situarsi su livelli astronomici, ciò che resta di questo film è la verace sensazione, quasi corporale, che i suoi brani trasmettono. E' come se l'illusione di realtà risultasse profondamente amplificata dalla violenza delle situazioni che vengono rappresentate: più la protagonista scende nella torbida parabola della perversione più la nostra visione si fa aptica e sembra poter toccare la carne ferita dalle frustate. 

A bilanciare questa qualità sensoriale delle immagini contribuisce un modo freddo di riprendere la scena, che rifugge dall'immedesimazione emotiva nei personaggi: non c'è compassione per la nostra infelice protagonista, proprio perché quel destino è stato da lei consapevolmente scelto e abbracciato nella sua interezza. Murakami riesce nella difficile impresa di stabilire una dialettica intelligente fra attrazione e repulsione, facendo in modo che nessuna delle due polarità risulti avvantaggiata. Ne viene fuori un'opera affascinante e perversa, certamente da vedere.
VOTO: 7/10

mercoledì 12 giugno 2013

Canzoni del secondo piano



Canzoni del secondo piano di Roy Andersson - Genere: drammatico - Svezia, Norvegia, Danimarca, 2000

Vincitore del Premio della giuria al Festival di Cannes nel 2000, il film di Andersson, anteriore di sette anni rispetto al già recensito You the living, ne presenta già in nuce tutte le caratteristiche, anche se con alcune leggere variazioni che ne garantiscono l'indipendenza e la singolarità. Rimane comunque inalterata l'impostazione di fondo, tanto a livello linguistico quanto a livello dei contenuti. La diegesi è spezzata e, anche se risulta internamente più coerente rispetto a quanto avviene in You the living, le linee narrative sono praticamente inesistenti. Il regista sceglie di procedere per compartimenti ben definiti, cornici elementari entro cui si compie l'azione drammatica. Sono contenitori chiusi, anche se non ermeticamente: spesso accade che i personaggi si incontrino e si trovino a passare nei medesimi ambienti, anche se non c'è mai interazione fra di essi.

Arriviamo così al grande messaggio esistenziale che sottende tutta l'opera e che rimarrà inalterato anche nel bellissimo film del 2007. Non c'è possibilità di interazione fra gli individui che, per quanto tentino di instaurare dei dialoghi, alla fine risultano sempre irrimediabilmente soli; è una concezione negativa che investe anche la sfera linguistica, defraudata della possibilità di essere elemento cementificante all'interno del consorzio umano. Ogni uomo è un'isola, potremmo dire, anche se Canzoni del secondo piano appare forse leggermente meno pessimista rispetto a quanto non sia You the living in merito a questo aspetto. 

L'idea che anima la regia si traduce anche a livello grammaticale: anche qui la fotografia è ottima, ma disegna ambienti asfittici che opprimono l'individuo in una dimensione che dovrebbe formalmente appartenergli ma che in realtà mette in crisi lo stesso concetto di abitabilità. Lo spazio è autoreferenziale e non è pensato per ospitare gli individui che, anzi, risultano sempre più soffocati quanto più vi entrano. Questo porta anche alla scelta di un montaggio estremo, un grado zero potremmo dire, molto simile a quanto poteva capitare di vedere nel cinema delle origini (prima dell'istituzionalizzazione del montaggio narrativo, prima di Nascita di una nazione, per intenderci). E' un elemento che ritroviamo fortemente anche nella pellicola del 2007, ma in quel caso la sensazione era quantomeno smorzata dall'idea di montaggio tramite la luce; qui questo elemento appare invece solo accennato e a farla da padrone è una sorta di tableaux postmoderno. 

Canzoni del secondo piano è un lavoro profondo, meno ironico di You the living e profondamente pervaso di uno spirito che si rivela al contempo religioso ed eretico, per quanto paradossale questo possa sembrare. Memorabile è a tal proposito la scena della Prima Comunione (che ricorda molto il dipinto di Ensor, L'entrata di Cristo a Bruxelles) che si traduce nell'omicidio intenzionale di tutti i bambini: gioco mortale fine a sé stesso o recupero di un'ideale vicinanza al Cristo? Certo è che la sfera della religiosità gioca in questo lavoro un ruolo fondamentale ma costantemente ambivalente: anche la figura di Gesù, costantemente evocata nella materia e negli scambi dialogici, rimane vittima di questo gioco. 

Siamo di fronte a un film estremo che, al di là dei gusti, deve essere necessariamente visto e ricordato come il manifesto di un cinema antico e contemporaneo. E' antico nei modi, ma estremamente moderno nei contenuti, sagace e tagliente nel disegnare il degenerare della nostra società, che viene distaccatamente dipinta come un grigio insieme di stanze post-apocalittiche, dove i flussi che tanto stanno a cuore a tutto un certo modo di intendere l'esistenza e l'abitabilità, si ingorgano irrimediabilmente. Ognuno è bloccato nella sua posizione, in uno stallo che non può risolversi, perché muoversi significherebbe essere annientati (o considerati folli).
VOTO: 9/10

Il gatto a nove code



Il gatto a nove code di Dario Argento - Genere: thriller - Italia, Francia, Germania, 1971

Che secondo me Dario Argento sia ormai un regista all'empasse è un fatto risaputo; lo dimostrano tanto l'infelice conclusione della trilogia sulle streghe (La terza madre) in cui si perde completamente l'atmosfera dei due precedenti lavori, quanto l'imbarazzante riedizione del mito draculiano (Dracula 3D), fatta in modo goffo e approssimativo. Il gatto a nove code si situa in una situazione ben diversa, agli inizi della carriera del regista che ha rifondato il genere del giallo all'italiana, che in questo caso si colora decisamente di tinte thriller, in pieno stile argentiano. Siamo quindi di fronte a un lavoro ben più degno delle ultime tremende prove del cosiddetto "maestro del brivido", quando ancora la sua poetica era innovativa e capace di formare e attrarre le giovani generazioni di registi: da questo genere di film discenderà tutto un filone cinematografico fatto di epigonismo e di copie più o meno riuscite; è per questo genere di film, insomma, che Argento merita di essere ricordato.

Intendiamoci subito specificando che, comunque, si tratta di un prodotto appena discreto: l'apogeo della sua carriera il regista lo raggiungerà con Suspiria e Profondo rosso, ma l'importanza storica della cosiddetta "Trilogia degli animali" (di cui Il gatto fa parte), è innegabile. Nel film considerato è ben presente tutta l'estetica tipica di Argento, tanto a livello formale quanto a livello narratologico. La vicenda è abbastanza lineare e si dipana attraverso una successione di morti perpetrate da un assassino misterioso, cui danno la caccia alcuni individui, mai appartenenti alle forze dell'ordine (in questo caso un giornalista e un enigmista cieco; sulla cecità in Argento ci sarebbe da scrivere credo: è interessante notare come spesso i personaggi più intelligenti nel comprendere la dinamica dei fatti sono ciechi, come qui e in Suspiria: non è da escludersi la presenza di un messaggio metacinematografico, ma la questione andrebbe approfondita). 

A livello linguistico troviamo dispiegati gli elementi tipici della grammatica thriller, con l'aggiunta di un uso molto accentuato della soggettiva, che talvolta diventa quasi esagerato ma che ci fa assumere il punto di vista dell'assassino (in modo simile al brano iniziale di Halloween: la notte delle streghe). Aggiungiamo solo un breve cenno ad alcuni passaggi molto riusciti in cui la percezione distorta della realtà da parte del protagonista cieco trova riscontro in una progressione discontinua, realizzata tramite l'interpolazione di brevi frammenti extra-diegetici all'interno del tessuto narrativo. Nel complesso ci troviamo quindi di fronte a un titolo che è importante più da un punto di vista storicistico che contenutistico, ma che comunque riesce a farsi guardare con interesse e a intrattenere, nonostante i ritmi strutturati in maniera decisamente diversa rispetto al cinema attuale.
VOTO: 6/10

Chacun son cinéma



Chacun son cinéma di Autori vari - Genere: drammatico - Francia, 2007

Giles Jacob, per festeggiare la sessantesima edizione del Festival del Cinema di Cannes, concepì questo film antologico, chiamando a dirigere i più di trenta cortometraggi che lo compongono alcuni fra i registi più in vista del momento (van Sant, von Trier, Ming Liang e altri), componendo un manifesto visivo eterogeneo ma accomunato, nelle sue diverse declinazioni, da un identico spirito cinefilo, da un amore per la settima arte che risulta insopprimibile e profondissimo. Trentatré lavori, di tre minuti circa, cui si aggiunge un cortometraggio di David Lynch, assente nella versione cinematografica e inserito a posteriori per la grande distribuzione e un epilogo, che raccoglie un frammento de Il silenzio è d'oro di René Clair. Il tema di fondo di questa collettanea è il cinema inteso come luogo fisico, un elogio alla sala cinematografica che, nella sua materialità, spesso viene dimenticata. 

I singoli corti affrontano poi i temi più diversi della questione, dal ricordo nostalgico alla critica aspra. Sarebbe veramente difficile riassumere tutte queste suggestioni in poche righe quindi il più grande suggerimento che si può dare è quello di guardare Chacun son cinéma e di rendersi conto di come la medesima materia di base abbia trovato suggestioni diverse (anche se non sempre molto originali e felici) presso i vari interpreti. In generale si può solo notare, per tutti  i corti, l'ottima qualità tecnica mentre duole vedere come non tutti siano stati in grado di interpretare in maniera efficace la spinta propositiva di base, arrivando a volte a dei risultati confusi o poco adeguati. Di ciascuno di questi film, indicati in ordine di apparizione, riporteremo semplicemente una valutazione numerica, essendo praticamente impossibile riassumere tutta la complessità di questi brevi frammenti cinematografici. 

Cinéma d'èté (di Raymond Depardon) 6.50/10

One fine day (di Takeshi Kitano) 7.50/10

Trois minutes (di Theo Angelopopulus) 9/10

Dans le noir (di Andrej Koncalovskij) 5/10

Diario di uno spettatore (di Nanni Moretti) 7/10

The electric princess picture house (di Hous Hsiao-hsien) 7/10

Dans l'obscurité (di Jean-Pierre e Luc Dardenne) 5.50/10

Anna (di Alejandro Gonzalez Inarritu) 5.50/10

En regardant le film (di Zhang Yimou) 6/10

Le Dibbouk de Haifa (di Hamos Gitai) 8.50/10

The Lady bug (di Jame Campion) 6/10

Artaud double bill (di Atomos Egoyan) 6/10

Valimo (di Aki Kaurismaki) 5/10

Recrudescence (di Oliver Assayas) 4/10

47 ans après (di Youssef Chahine) 7/10

It's a dream (di Tsai Ming-Liang) 6.50/10

Occupations (di Lars von Trier) 7.50/10

Le don (di Raoul Riz) 7.50/10

Cinéma de Boulevard (di Claude Lelouch) 5.50/10

First kiss (di Gus van Sant) 8/10

Cinéma erotique (di Roman Polanski) 8/10

No reanslation needed (di Michael Cimino) 5/10

At the suicide of the last Jew in the world in the last cinema in the world (di David Cronenberg) 9/10

I travelled 9000 Km to give it to you (di Wong Kar Wai) 5/10

Where is my Romeo (di Abbas Kiarostami) 10/10

The last dating show (di Bill August) 6/10

Irtebak (di Elia Suleiman) 6.50/10

Rencontre unique (di Manoel de Oliveira) 5/10

A' 8944 Km de Cannes (di Walter Salles) 6/10

War in Peace (di Wim Wenders) 5/10

Zhanxiou Village (di Chein Kaige) 7/10

Happy Ending (di Ken Loach) 6.50/10

Absurda (di David Lynch) 9/10

martedì 11 giugno 2013

V/H/S/2



V/H/S/2 di Autori vari - Genere: horror - USA, Canada, Indonesia, 2013

E' la prima volta che mi trovo nella situazione di dover recensire un film che, al di là del genere di appartenenza (horror/gore in questo caso), presenta una struttura antologica. Si tratta di una tradizione felice del cinema, anche italiano (si pensi a Capriccio all'italiana in cui compare lo splendido Cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini). Per rendere ragione delle diversità degli episodi che compongono questo lavoro internazionale appena uscito nelle sale statunitensi, dividerò la recensione analizzando separatamente la cornice narrativa e le quattro storie che si inseriscono in questa struttura generale. Mi permetto solo di segnalare che nel complesso il film è decisamente interessante e i suoi elementi di forza potrebbero essere considerati come dei punti di partenza per una riscrittura del genere horror; in generale credo che la formazione antologica sia particolarmente interessante proprio perché la breve durata si presta ad essere laboratorio di analisi di nuove strategie linguistiche.

Tape 49 (Cornice narrativa - regia di Simon Barrett)
Sulla cornice narrativa che lega le varie storie narrate nella pellicola, non c'è molto da dire. In realtà è la parte meno riuscita di tutto il lavoro, che si presenta in modo più tradizionale nonostante sfrutti la tecnica della soggettiva e del found-footage. Il problema è che la tecnica qui non lascia spazio a indagini più complesse e il risultato è piuttosto mediocre. Anche a livello di progressione narrativa si tratta di un frammento piuttosto inutile, che lascia tutto avvolto nel mistero e alla fine sfocia in un finale abbastanza prevedibile ed eccessivamente citazionista. 
VOTO: 5/10

Phase 1 Clinical trials (regia di Adam Wingard)
Chiaramente ispirato ai più celebri titoli dell'horror giapponese e orientale in generale, si basa completamente sull'idea della possibilità di vedere i morti, possibilità che viene scientificizzata veicolando il concetto che è possibile percepire le presenze dell'aldilà grazie ad impianti che implementano i sensi e captano delle frequenze che normalmente non sono attingibili. Il lavoro è decisamente ben fatto: i colpi di scena sono un po' prevedibili ma la soggettiva sul protagonista è suggestiva e il rapporto con il suo occhio è la parte migliore di tutto questo nodo narrativo. Il nostro sguardo è costantemente sovrapposto al suo e questo appaiamento mette in seria crisi la nostra percezione: il finale è veramente ben fatto e l'estrazione dell'occhio corrisponde alla nostra separazione dal protagonista, separazione in seguito alla quale lui passa a miglior vita (come a dire che la sua essenza era intimamente cinematografica e che esisteva per farci guardare la sua vita).
VOTO: 8/10

A ride in the park (regia di Eduardo Sanchez)
Classica riproposizione dello schema zombie-movie, mutuato perfettamente da un titolo come REC. Anche qui la progressione narrativa è di per sé molto banale e alla lunga, ripetitiva. Si salvano alcune trovate abbastanza interessanti che concernono, come sempre, la posizione del nostro sguardo in relazione a quella dei personaggi: per la prima volta (?) in tutta la storia del cinema, assumiamo il punto di vista di uno zombie e questo è già un interessante passo avanti rispetto ai prodotti medi del genere.
VOTO: 6/10

Safe Heaven (regia di Gregg Hale, Gareth Huw Evans e Timo Tjahjanto)
Abbastanza scontato che un film come V/H/S/2, che risulta profondamente ispirato dal cinema asiatico, avesse proprio in una non precisata zona dell'Asia, uno dei suoi episodi. A fare da sfondo alla vicenda, molto bella da un punto di vista diegetico e ben realizzata a livello formale, è l'idea (abbastanza masticata) di una setta religiosa che propugna un'imminente fine del mondo, con la relativa salvezza di tutti i suoi credenti. Tutta l'atmosfera, dalla prima inquadratura all'escalation finale in stile Suicide club è profondamente permeata di uno spirito nipponico o più generalmente legato al cinema del Sol Levante. Il finale è decisamente interessante e, anche se assume tinte decisamente gore, risulta gradevole per la realizzazione dell'idea escatologica che sorregge tutto il sistema
VOTO: 7/10

Alien abduction slumber party (regia di Jason Eisener)
Una vera e propria caduta di stile, sia a livello narrativo che a livello formale. Al di là della generale implausibilità della trama (cosa che ovviamente era comune agli altri episodi, ma qui si esagera...), tutto il concetto estetico che sottendeva il film sembra venire meno e non si percepisce più la stessa freschezza e la lucidità con cui la retorica del found footage e la ripresa in soggettiva venivano usati nei precedenti tre frammenti. Anche qui possiamo salvare l'intelligenza di alcuni passaggi, ma siamo ben lontani dai livelli illustrati poco sopra; peccato.
VOTO: 4.50/10

La fiammiferaia



La fiammiferaia di Aki Kaurismaki - Genere: drammatico - Finlandia, Svezia, 1990.

Favola nera contemporanea, ultimo episodio di una trilogia che Kaurismaki dedica agli sconfitti e agli umili. La fiammiferaia è la storia dell'arida esistenza di una ragazza eterea e leggera che lavora - appunto - in una fabbrica di fiammiferi. E' un'esistenza ingrata la sua, senza amore. Il motore della vicenda, che illumina con i suoi silenzi una parte sufficiente del passato della protagonista per capire il suo malessere, è proprio il suo tentativo perennemente insoddisfatto di essere amata, di trovare un proprio posto nel mondo. A fare le spese di questa ricerca sono l'immagine tradizionale della famiglia e la concezione positiva della relazione amorosa: la prima diventa luogo vampirico e parassitario, la seconda viene svuotata e si riduce a copulazione carnale.

Il comparto narrativo procede nell'inedia, raggiungendo quasi la noia per riflettere fedelmente la vita arida della giovane Iris, che si trascina senza interesse fra il suo alienante lavoro in fabbrica, la vita claustrale che conduce in casa e la ricerca di un riconoscimento sentimentale che non riesce ad arrivare. La diegesi è lineare e lenta, dilatata all'inverosimile sino a creare un effetto (certamente volontario) di respingimento, che è un ottimo pendant nei confronti del cromatismo anonimo e grigiastro che colora gli ambienti. I personaggi sono ben caratterizzati da un punto di vista psicologico, sebbene con pochi rapidi tocchi. La fiammiferaia è un film che si consegna quasi completamente al silenzio; le battute sono pochissime e gli scambi dialogici quasi sempre a senso unico, come a rappresentare un generale senso di incomunicabilità che avvolge Iris. 

Sulla volontarietà dell'effetto-noia possiamo essere certi, soprattutto se consideriamo la bellezza della realizzazione, che soprattutto nella fotografia trova la sua vera e propria punta di diamante. Nel disegnare spazi angusti e desolati o nel seguire con sguardo vuoto il procedere meccanico dei marchingegni industriali Kaurismaki rappresenta una artificialità morta, uno sfondo esistenziale in marcescenza che accoglie l'incedere devitalizzato di Iris. Soltanto alla fine della pellicola, quando al suicidio subentra la vendetta, la nostra silenziosa protagonista riaffermerà con forza la sua individualità, risarcendo con la morte tutti coloro che l'hanno lentamente uccisa. Poco importa se alla fine due poliziotti la scorteranno via (non sappiamo se per interrogarla o per incarcerarla, questo Kaurismaki non lo dice e forse non lo sa), Iris sarà comunque riuscita a urlare pur senza voce, rivendicando la propria esistenza fino a quel momento passata sotto un'alone di anonimato.
VOTO: 7.50/10

Tre colori: Film rosso



Tre colori: Film rosso di Krzysztof Kieslowski - Genere: drammatico - Francia, Polonia, Svizzera, 1994

Terzo capitolo della trilogia kieslowskiana dedicata ai colori e ai valori cardine della bandiera francese ed ultimo film del regista, prematuramente scomparso dopo la sua realizzazione. Rosso riprende i meriti dei due film precedenti, rinnovandosi profondamente tanto nella forma quanto nel contenuto, per giungere infine a un rovesciamento generale del messaggio complessivo, che ci permette di riconsiderare il senso anche dei due lavori precedenti. Al livido pessimismo di Blu e alla inattingibile ricerca di Bianco, subentra in Rosso una riflessione sul senso del dovere, che schopenauerianamente oscilla fra due estremi.

Da una parte un insopprimibile senso del dovere anima l'incedere della protagonista, che maternamente si configura come un elemento di salvazione per tutti coloro che incontra sul suo cammino. Tanto il cane che salva quanto il vecchio giudice in pensione sono entità che filmicamente esistono e agiscono in relazione alla sua presenza. Al contempo è proprio l'anziano giurista che bilancia e rende dinamica questa spinta, con la sua misantropica tendenza a considerare ogni individuo come intimamente malvagio. Vettore di questa sua consapevolezza sono le intercettazioni telefoniche, che diventano per lui una sorta di mania e un infantile ripiegamento ai tempi del suo unico vero amore, un ritorno amniotico alle origini. L'ultimo elemento di questo sistema in movimento è rappresentato dal giovane studente di legge che, come figura dell'arcigno voyeur uditivo, legherà la sua esistenza a quella della modella protagonista.

I pezzi si incastrano perfettamente e il film assume una struttura a puzzle, nonostante un andamento diegetico piuttosto lineare. La forma è quella di un arazzo, sul modello di quello intarsiato da Ioselliani in Addio, terraferma! In questo caso la situazione è analoga, anche se non predomina un uso quasi danzante del piano-sequenza, come invece avveniva in quel caso. In Rosso la composizione è invece semplice dal punto di vista formale; nonostante la perfezione fotografica vengono almeno parzialmente abbandonati o smussati i giochi tecnici che avevano animato Blu e solo parzialmente Bianco. La storia assume un andamento più serrato; sembra essere più importante il cosa che non il come.

Molto interessante è poi tutta la riflessione che può scaturire dall'analisi della prima parte dell'opera, in cui è centrale l'elemento dell'intercettazione telefonica e, più in generale, dell'ascolto delle conversazioni altrui. In effetti è bene notare che il telefono ha una funzione essenziale nell'economia dei rapporti di Rosso, visto che per esempio anima la "relazione" fra la protagonista e il suo anonimo uomo (che esiste e parla solo per tramite del telefono). Come  ne La conversazione di Coppola, anche qui l'idea dell'ascolto è centrale e vale la pena chiedersi quale sia il grado di narratibilità di ciò che si ascolta; come dice Valentine, è giusto che ognuno abbia i propri segreti (?) oppure ci sono dei contesti in cui l'intercomunicabilità deve essere assoluta?

Infine va notata la chiusa di Rosso, che chiude il cerchio di tutti e tre i film con un messaggio ottimistico. I protagonisti di tutti e tre i lavori di Kieswloski si ritrovano su un battello che affonda e, fra tutti i morti a causa del disastro, loro sono fra i salvati. E' sufficiente questo per dare l'idea di uno sguardo che protegge, della possibilità di una salvezza che compensa il vissuto individuale e nel contempo lo trascende. Si annullano così i finali eticamente neutri tanto di Blu quanto di Bianco, che traggono nuovo senso interpretativo proprio da questa breve, ma estremamente significativa, sequenza finale.
VOTO: 8/10

lunedì 10 giugno 2013

Black Cat



Black cat di Lucio Fulci - Genere: thriller- Italia, 1981

La grande difficoltà delle trasposizioni cinematografiche di opere nate in ambito letterario, teatrale etc. è quella di adottare un atteggiamento intelligente. Da un lato si può scegliere di mantenere fede al dettato originale, ma si corre il rischio di perdere di vista le specificità linguistiche dei media utilizzati. Un esempio molto bello a questo riguardo è l'ultima trasposizione sullo schermo di Anna Karenina, che fonde perfettamente un impianto narrativo coerente con un'esaltazione virtuosistica della fotografia e del montaggio come veicoli espressivi propri della settima arte.

Fulci, per mettere la firma al suo Black cat sceglie di sconvolgere quasi completamente la trama del racconto di Poe, che risulta simile al lavoro del cineasta italiano solo a grandi linee: l'allineamento più forte si percepisce solo nel finale. La storia assume così toni più paranormali che oscuri, adattandosi a una tonalità tipica dell'epoca ma che non ho mai apprezzato particolarmente; l'inclinazione allo spiritismo si percepiva già chiaramente in alcuni titoli di Argento e da questo punto di vista il film di Fulci non risulta certo particolarmente felice. Anche la sceneggiatura appare spesso forzata, aneddotica e senza spunti di interesse che possano rendere l'idea di un lavoro più approfondito sul testo dell'autore inglese. Non c'è neanche il tentativo di ricreare le stesse atmosfere che, già da sole sarebbero state sufficienti a creare un prodotto di miglior qualità.

Con questo non si vuole mettere in dubbio la qualità di Fulci come regista (di genere), ma è innegabile che Black cat sia un titolo che stenta a coinvolgere. D'altra parte bisogna pure riconoscere una fattura quantomeno discreta dal punto di vista tecnico, con alcune intuizioni felici che avrebbero potuto essere sfruttate meglio in un contesto diegetico più felice (si vedano le riprese in soggettiva, soprattutto quelle che ci fanno assumere il punto di vista del gatto, molto ben fatte). Per il resto purtroppo il film si spegne molto velocemente e risulta anche un po'noioso, nonostante sia innegabilmente fulciano (l'inquadratura tipica, con il primissimo piano sugli occhi che ritorna incessantemente, ce lo conferma).
VOTO: 4/10