giovedì 5 giugno 2014

Dolls



Dolls di Takeshi Kitano - Genere: drammatico - Giappone, 2002

Negli ultimi due mesi circa, per ragioni strettamente legate all'università, mi sono trovato ad approfondire la filmografia di Takeshi Kitano, del quale avevo visto molto poco e che non ero riuscito a digerire completamente, a fronte di un indiscusso talento registico e di messa in scena. Violent Cop, ad esempio, si era fatto apprezzare per l'idea di fondo e per il crudo sarcasmo di alcune sue scelte, ma manifestava uno stile ancora troppo impreciso per dare l'idea del grande autore che Kitano senza dubbio è. Dolls, film in concorso a Venezia 2002, ha spazzato via tutti i miei dubbi residui derivanti dalla visione dei titoli che già conoscevo e mi ha confermato, con la forza del suo stile e delle sue scelte, la grandezza del cineasta giapponese.

Entro la cornice di un tradizionale spettacolo di Bunraku (una sorta di equivalente delle marionette occidentali), Kitano incrocia tre vicende diverse, accomunate dalla loro profonda drammaticità. Si tratta di tree linee narrative che, per quanto del tutto indipendenti, si troveranno a intrecciarsi spesso l'una con l'altra in una maniera assolutamente splendida (e splendidamente resa dalla regia sempre elegante di Kitano). Attorno al vacuo peregrinare di due giovani amanti legati da una corda rossa (immagine quasi senza tempo per la icasticità e la sua forza visiva, che diventa ancora più pregnante se si considerano le motivazioni di questo accadere), si collegano il languido ritorno di un capo yakuza (soggetto prediletto di Kitano) su una panchina dove la donna che amava lo ha atteso per tutta la vita e la patetica vicenda del rapporto fra una pop star e un suo grande fan. Utilizzando un montaggio che oscilla continuamente sui piani temporali e ricompone poi le sequenze narrative in un quadro sempre credibile ed estremamente agile, Kitano confeziona un prodotto di grande pregio che riesce a toccare senza essere stucchevole.

Abitato da un pessimismo estremo sull'esito delle vicende raccontate, meraviglioso per la sua bellezza autoreferenziale (che forse si traduce in un leggero vento d'accademismo? E' possibile, ma i pregi sono senza dubbio superiori nel bilancio complessivo), Dolls è un film che non può non rimanere impresso per la forza delle sue immagini e l'evocatività della sua scrittura. 

VOTO: 8/10 

martedì 27 maggio 2014

Oculus



Oculus di Mike Flangan - Genere: horror - USA, 2013

Devo ammettere che quando ho cominciato a sentire il trailer di questo film in radio, mi è sembrato subito una grande presa in giro, l'ormai classico film horror d'ascendenza paranormale che probabilmente avrebbe deluso più o meno tutti. Poi, per qualche settimana, non mi è più capitato di sentirne parlare se non da uno youtuber piuttosto noto che per l'appunto ne tesseva gli elogi e si dichiarava stupito di come il risultato finale lo avesse ben impressionato. Così, quando dopo qualche tempo, mi è capitato di poterlo vedere, ho deciso di accantonare i miei pregiudizi e di gettarmi nella visione di questo lungometraggio di Mike Flangan (regista di cui - ammetto - non avevo mai sentito nulla; girando su internet però mi pare che questo non sia solo un mio limite). Per una volta, pur in presenza di un prodotto di genere che sembrava decisamente poco promettente, posso dire non senza soddisfazione di essere rimasto piacevolmente colpito dalla proiezione di Oculus.

Contro ogni aspettativa, almeno per quanto mi riguarda, la scrittura è molto valida e anche dal punto di vista tecnico i risultati raggiunti sono notevoli. Per quanto riguarda il primo aspetto Oculus propone una narrazione articolata su due livelli temporali che si richiamano continuamente l'uno con l'altro, permettendo un passaggio molto efficace e fortemente evocativo dal livello del ricordo a quello dell'esperienza dei protagonisti. Questo ecamotage, al di là di un prologo piuttosto nebuloso che non permette di comprendere a pieno la vicenda (ma che pure non fonda in maniera forte il meccanismo della suspense), dà per tutta la pellicola buoni risultati e mantiene viva l'attenzione per una vicenda altrimenti certo non originalissima. Il tutto si traduce dal punto di vista compositivo in un uso sbrigliatissimo e quasi ipercinetico del montaggio, che diventa il mezzo privilegiato per passare in maniera fluida e capace attraverso i piani temporali coinvolti. L'uso intelligente di questo mezzo salva anche in questo caso una fotografia e una composizione non certo imperdibili e di questi tempi è già un risultato da considerare.

Nel complesso Oculus è un film di genere ben fatto che, pur non avendo elevatissime pretese, fa il suo lavoro e intrattiene efficacemente con un buon ritmo e un interessante comparto tecnico. Se si volesse continuare su questa strada è probabile che per migliorare si dovrebbero scegliere sceneggiature meno inflazionate e spingere ancora di più sul lato visivo, arrivando a lambire i confini della sperimentazione.

VOTO: 6/10 

lunedì 26 maggio 2014

Django



Django di Sergio Cobucci - Genere: western - Italia, Spagna, 1966

Chi mi conosce sa che il western è senza dubbio il genere cinematografico che amo (e conosco meno). Questo per svariati motivi, sia personali (non mi attrae e lo trovo piuttosto noioso di norma), sia storici (mi sembra che non sia un genere più attuale; come ho sentito recentemente a una conferenza interessante il western è un genere che - almeno nella sua declinazione canonica - è morto da tempo). Quindi fino ad ora non solo ho visto pochissimi film di questo tipo, ma non ne ho mai recensito uno su questo blog. Non mi dispiace interrompere questa comunque disdicevole tradizione (dopotutto è sempre una fetta - peraltro importante - di storia del cinema) con un film come Django. Avendo recentemente visto il film di Tarantino che in un certo qual modo riprende il lavoro di Cobucci, mi sembrava doveroso andare a ripescare anche questo titolo di genere dai meandri della filmografia italiana. 

Django, interpretato da un Franco Nero incredibile, è stato poi un personaggio di grandissima fortuna all'interno dell'immaginario collettivo e ha dato origine a una serie di seguiti e adattamenti che hanno toccato addirittura l'estremo Oriente grazie all'opera di quel mezzo genio di Takashi Miike. Voglio precisare sin da subito che il film mi è piaciuto molto, l'ho trovato parecchio divertente e piacevole; per certi versi, pur se sotto due profili diversi, l'ho anche preferito al Django unchained di Quentin Tarantino, al quale ho già avuto modo di muovere diverse critiche nella sua recensione. Al di là di questo però è bene riconoscere che se l'autentico talento tarantiniano, sviluppatosi con il cinema italiano e con quello di genere, non avesse fatto uscire dal dimenticatoio l'opera di Cobucci, molti giovanissimi come me non l'avrebbero mai conosciuta. Questo perché a conti fatti si tratta di un titolo piuttosto dozzinale, con diversi problemi e qualche pregio; un prodotto eminentemente commerciale e di intrattenimento sul quale Tarantino, al di là della riuscita finale, è comunque riuscito a fare un discorso bello e interessante.

Django è un film che mi sento di consigliare un po' a tutti, perché l'assurdità cinica dei suoi dialoghi, di alcune situazioni (la famosa scena della sparatoria con la mitragliatrice) e di qualche sequenza in particolare (come il "duello finale" nel cimitero) lo rendono un lavoro del tutto godibile anche ai neofiti del genere o a chi non lo ama particolarmente come me. Certo è necessario sottolineare con forza che Django è un tipo di western diverso, nato dall'appendice dello Spaghetti western e che per giunta ha caratteristiche peculiari anche in seno a quel bacino. Siamo ben lontani dal western classico alla Ford, per intenderci.

VOTO: 6.50/10 

sabato 24 maggio 2014

La mosca



La mosca di David Cronenberg - Genere: fantascienza/horror - USA, 1986

Remake de L'esperimento del dottor K e indiscusso capolavoro diretto dal genio visionario di David Cronenberg, La mosca è uno dei film più amati del regista canadese e i motivi che giustificano questa passione cinefila sono molteplici. Il più scontato è senza dubbio quello relativo agli effetti speciali, premiati con l'Oscar al miglior trucco nel 1986: Walas e Dupuis (che lavoreranno ancora con Cronenberg in diversi film successivi), sono infatti riusciti a confezionare un prodotto assolutamente straordinario, che racconta la degenerazione di Brundle con una apticità assolutamente fuori dal comune. Raggiungendo un effetto simile a quello di Carpenter ne La Cosa, il make-up de La mosca riesce a rendere concrete e quasi tattili le immagini del film; da questo punto di vista è emblematica la scena in cui Brundle, accorgendosi delle prime preoccupanti mutazioni del suo aspetto, si stacca le unghie delle dita, lasciando scoperta la carne viva e sgocciolante. Le sequenze del genere sono molteplici e non è questa la sede di citarle tutte, ma bisogna rendere merito a un lavoro che ha sicuramente influito fortemente, forse in misura preponderante, alla riuscita del film.

Questo non faccia pensare, però, che la firma di Cronenberg non si percepisca. Tutt'altro: l'intera pellicola, che riesce a fondere perfettamente caratteristiche di genere e riflessione speculativa, è permeata di quell'estetica che ha reso celebre il cineasta, in particolare per quello che riguarda il trattamento e la messa in mostra del corpo nella sua natura squadernata e scomposta (vedasi la scena della primissima sperimentazione della telecapsula su un animale). Questo perché nell'86 Cronenberg aveva già prodotto alcuni film fondamentali, fra cui il capolavoro Videodrome, che avevano messo bene in evidenza le tematiche più care all'autore, che nel caso specifico si declinano forse in un senso più prevedibile e meno elevato ma che rimangono comunque di sicuro impatto. 

L'opera, straordinaria nelle sue caratteristiche, è riuscita a permeare di sé una buona parte della cultura visuale e più genericamente pop successiva, garantendosi il titolo di vera e propria opera di culto. Probabilmente per questo motivo venne prodotto anche l'indecente La mosca 2, ovviamente non firmato da Cronenberg e che prevedibilmente non è riuscito a bissare il successo del capostipite. Personalmente l'ho trovato un film davvero riuscito, anche se meno teoreticamente solido di quanto non lo fosse un Videodrome.

VOTO: 8/10 

giovedì 22 maggio 2014

Tom à la ferme



Tom à la ferme di Xavier Dolan - Genere: thriller/drammatico - Canada, Francia, 2013


L’uscita in DVD del film presentato dal giovane canadese Xavier Dolan alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia è un evento di grande importanza per tutti coloro che non hanno potuto essere al Lido in quelle magiche giornate. Al di là di un discorso che sarebbe necessario fare sulla necessità di realizzare delle edizioni italiane delle pellicole di Dolan, la diffusione sul circuito commerciale di Tom à la ferme non può che riaccendere la volontà di analizzare la pellicola criticamente ed esteticamente, così come la necessità di considerarla all’interno del progressivamente più consistente corpus dolaniano.
Che Dolan sia interessato all’analisi attenta e spesso tagliente delle relazioni umane e sentimentali all’interno di uno scenario contemporaneo sempre tratteggiato con padronanza di mezzi ed eleganza è fuori di dubbio. Tom à la ferme da questo punto di vista si presenta come una conferma e una messa in movimento delle scelte di scrittura a cui eravamo stati abituati: se da una parte è vero che rimane centrale il confronto con la figura materna (che, sin dal titolo, pare rimanere tale anche in Mommy, in questi giorni a Cannes), del tutto inedita è la tematica del lutto e della resilienza post-traumatica a cui Tom si sottopone penetrando all’interno della vita della famiglia del suo defunto compagno. È probabilmente in queste scene d’interno, dove i dialoghi si fanno pregnanti e drammatici che, aiutato da una composizione impeccabile e quasi pittorica per la scelta di alcuni toni cromatici, il film raggiunge i suoi punti migliori. Per quanto Dolan sia senza dubbio un buon attore, sotto questo profilo la performance di Lise Roy rimane toccante e assolutamente impareggiabile.
Anche la costruzione del personaggio di Francis (Pierre Yves-Cardinal) manifesta uno studio attento e preciso, che sullo schermo riesce a regalare un uomo perfettamente rappresentato nelle sue ipocrisie e paure; Francis è in ultima analisi un personaggio di una fragilità senza dubbio fastidiosa, ma necessaria allo sviluppo della vicenda. Meno riuscito, forse a causa di una volontà di suggerire più che di definire certi dettagli, è invece il succedersi dei comportamenti di Tom nei confronti del suo antagonista/oggetto del desiderio, che si altalenano in modo spesso scomposto e senza uno sviluppo preciso: questo rende le sequenze di Tom e Francis spesso poco legate, ma comunque di sicuro impatto (da questo punto di vista la scena del tango è magistrale sia nell’orchestrazione che nella capacità di muovere lo spettatore).
Ancora una volta Dolan cade, almeno parzialmente, nel finale. Per quanto il film sia molto più breve del precedente Lawrence Anyways, l’ultima sequenza precipita dell’aneddoto, palesando quella che fino a quel momento era rimasta semplicemente una storia implicita e per questo molto più affascinante. Al di là di questi dettagli però, anche per il coraggio e la capacità di aver saputo raccontare un thriller a tematica omosessuale con una maestria fuori dal comune, Tom à la ferme è senza dubbio un film che merita di essere visto e apprezzato come segno di una giovane generazione che avanza a grandi passi verso le vette di un riconoscimento internazionale. 
VOTO: 8.50/10 

mercoledì 21 maggio 2014

La stirpe del Male



La stirpe del Male di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett - Genere: horror - USA, 2014
 
Ho precisato con una certa forza della recensione di Cloverfield appena pubblicata come io trovi tutto sommato piuttosto fastidioso il ricorso insistente e poco ragionato allo stile mockumentary con camera a mano. Molto spesso infatti, per riprendere il filo del discorso, capita che questa scelta si riveli soltanto un adeguamento alla moda del momento e non si porti dietro nessuna forma di ragionamento sulla natura dell'immagine. Per intenderci, secondo me è travisante e sbagliato considerare la ripresa amatoriale come una cornice neutra da appiccicare all'immagine: se si fa una scelta di questo tipo la si deve portare fino in fondo, agendo sul supporto dell'immagine stessa e usandola come sito di un'azione attiva. Se già in Cloverfield il risultato mi era parso tutto sommato semplicistico e poco studiato, La stirpe del Male è - da questo punto di vista - un autentico disastro.
 
Per quanto la giustificazione della camera a mano sia più plausibile di quanto non accada nel film sopraccitato, il risultato è di una banalità sconfortante. Ne consegue un film che non si prende la briga di abbracciare nessuno stile e fa della telecamera amatoriale un oggetto privo di qualsiasi identità, che serve solo a marcare uno stile (à la R.E.C.), che in realtà viene costantemente negato dallo sviluppo stesso del film. Questo, torno a ripeterlo, tradisce una assoluta incapacità di ragionare sull'immagine e traduce la scelta in un mero espediente commerciale. Se il problema de La stirpe del Male fosse solo questo, il risultato complessivo sarebbe certo insufficiente ma più o meno assimilabile a Cloverfield. Purtroppo, le difficoltà non si limitano a questo punto e permeano l'intero prodotto degli esordienti (?) registi americani.
 
La trama ripete senza troppe variazioni quella di Rosemary's baby, semplificandola di tutte le problematizzazioni così innovative che Polanski aveva saputo dare alla sua opera. Appiattendo completamente tutti i personaggi ci si sarebbe potuti aspettare quantomeno una successione di scene truculente, che però sono state sistematicamente evitate; mi spiego: anche Polanski sceglie di non scadere nel grottesco e nel suo caso è una linea vincente. La coppia Bettinelli-Gillett invece non intraprende nessun percorso di sviluppo della trama, che rimane ancorata a un blando intreccio piuttosto scontato.
 
La stirpe del Male è dunque un film assolutamente sconsigliato, senza fantasia e privo di qualsiasi elemento interessante. Uno dei molti, moltissimi titoli che purtroppo ammorbano le nostre sale.
 
VOTO: 2/10 

martedì 20 maggio 2014

Cloverfield



Cloverfield di Matt Reeves - Genere: fantascienza - USA, 2008

Penso di aver perso il conto dei film a soggetto catastrofico che negli ultimi sei o sette anni hanno invaso le nostre sale cinematografiche. Al di là del fatto che senza dubbio questa diffusione di una tendenza comune e non unicamente statunitense rappresenta un segno dei tempi, di una prima decade del XXI secolo che si è rivelata, sin da subito, strettamente legata al tema della distruzione di massa, al rischio dell'annientamento inaspettato. La locandina di Cloverfield, film campione d'incassi del 2008, potrebbe tranquillamente sembrare un'immagine post-undici Settembre, magari immaginando il caso in cui le conseguenze avrebbero potuto essere più elevate e importanti. Ma come è noto, spesso i film vincenti al botteghino, al di là di un evidente interesse sociologico (perché il film è piaciuto così tanto? quali corde tocca nella nostra contemporaneità?), spesso sono piuttosto carenti dal punto di vista dell'appeal tecnico ed estetico. Questo per me, al di là di alcune recensioni positive, è il caso in esame.

Al di là di una trama piuttosto scontata - dopotutto non mi aspettavo niente di diverso da un film di questo genere - in particolare mi hanno infastidito due cose: la costruzione dei personaggi e lo stile di regia. Preciso subito invece che gli effetti speciali sono molto validi, soprattutto per quanto riguarda i misteriosi invasori che mettono a ferro e fuoco New York. Dunque, per quanto riguarda la costruzione dei personaggi, non posso dire che in generale si tratti di una scelta sbagliata, ma di una completa mancanza di iniziativa: mi spiego; in tutti i film di questo tipo, a partire almeno dai pieni anni Novanta, quasi tutti i personaggi sono costruiti nello stesso modo. Ce lo conferma il fastidioso eroismo del protagonista, ennesima riproposizione di un modello piuttosto stantio di uomo americano medio (già fastidioso ai tempi de La guerra dei mondi, per quanto mi riguarda). Si potrebbe anche dire che il finale garantisce un certo margine di originalità, ma se si scava un po' nella filmografia degli ultimi anni si scoprirà che non si tratta di qualcosa di così innovativo, anzi di piuttosto inflazionato per i miei gusti.

Per quanto concerne lo stile, è ormai piuttosto noto che la ripresa con camera a mano per me è diventata un insopportabile cliché del cinema contemporaneo. Intendiamoci: a partire da Paranormal Activity, ma con importanti prodromi, si usa praticamente qualsiasi scusa per inserire a forza nei film la scusa della videocamera e poi tutto il film viene ripreso in soggettiva. La cosa può anche essere accettabile, ma solo nel caso in cui la compenetrazione fra cinema e videoripresa sia completa, come accadeva già in The Blair witch project. Questo invece non è il caso: la ripresa a mano diventa una semplice cornice appiccicata a forza e senza nessuna problematicità sulla macchina da presa, il che testimonia una grave mancanza di attenzione a un dettaglio certo non marginale.

Nel complesso per quanto mi riguarda siamo di fronte a un film che, per quanto non assolutamente disdicevole, presenta dei gravi difetti di sviluppo teorico. Considerando però la buona fattura del settore di intrattenimento, mi sento di consigliarlo in ogni caso a chi cerca una visione all'insegna del disimpegno; sotto questo profilo la resa è garantita.

VOTO: 4/10 

lunedì 19 maggio 2014

Una commedia sexy in una notte di mezza Estate



Una commedia sexy in una notte di mezza Estate di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1982

Il genio creativo di Woody Allen è sempre stato molto, forse troppo prolifico: la sua filmografia è sterminata e in quest'ultimo periodo è riuscito a proporre un film all'anno fino al suo ultimo Blue Jasmine, premio Oscar di quest'anno. Già nel 1982, comunque, Una commedia sexy in una notte di mezza Estate veniva girato addirittura in contemporanea al già recensito Zelig, a riprova che il desiderio cinematografico di Allen spesso sconfina - mi pare - con la patologia. Comunque mi pare ormai risaputo che io apprezzo particolarmente questa "prima" fase della produzione alleniana e tendo a ritenere gli ultimi lavori un po' meno riusciti (ma non ho ancora visto l'ultimo, quindi la partita è ben aperta!). E' quindi con un po' di delusione che devo ammettere che il qui presente film, primo del sodalizio con la Farrow, sempre e comunque splendida, non è riuscito a conquistarmi come gli altri. 

Ho amato film come Prendi i soldi e scappa per il loro sapore sagacemente assurdo, umoristico fino al parossismo e debitore quasi dell'eredità screwball. Allo stesso tempo ho saputo apprezzare i grandi capolavori della seconda metà degli anni Settanta (Io e Annie e Manhattan - per me il migliore) per il disincantato cinismo, più sofisticato e intriso di una profonda capacità d'analisi dell'animo umano. Una commedia sexy, invece, pur mantenendo inalterati alcuni degli elementi che hanno fatto grande lo stile di Allen, come la ripresa a volte quasi decostruttiva dell'eredità bergmaniana, mi sembra un prodotto insipido e privo dell'autosufficienza degli altri titoli. Pur rimanendo in presenza di un prodotto tutto sommato gradevole, con delle indubbie qualità, il risultato complessivo non mi convince.

A partire da un intreccio piuttosto classico, che più che altrove si palesa debitore della grande stagione della commedia all'americana, l'intreccio si sviluppa attorno a una successione peraltro piuttosto lineare di equivoci e occasioni mancate, sempre sotto il segno dell'erotismo ma con la mancanza quasi completa di quella freschezza e agilità inventiva che ha fatto di Allen ciò che è. Anche il carattere allegramente nevrotico dei suoi personaggi e in particolare del suo alter-ego, un bizzarro inventore, risulta in fin dei conti notevolmente ridimensionato e tanto basta a tarpare le ali al frizzate umorismo che tanto mi ha fatto amare questo autore. Risollevano in parte il giudizio alcuni piccoli dettagli, come le gustose citazioni metacinematografiche che strizzano l'occhio, per nulla sottilmente, alla tradizione della lanterna magica. Un Allen piuttosto deludente, ma in fin dei conti ancora godibile.

VOTO: 6/10 

domenica 18 maggio 2014

Intruders



Intruders di Juan Carlos Fresnadillo - Genere: thriller/horror - Spagna, Regno Unito, 2011

Dopo aver diretto il non completamente riuscito sequel di 28 giorni dopo, Fresnadillo si è preso quattro anni di pausa, prima di tornare sulle scene con Intruders, film snobbato dai cinema italiani e giunto nel belpaese soltanto attraverso la distribuzione DVD. Per fortuna; sì perché il film - fiasco colossale costato 13 milioni di dollari e che ne ha incassati solo 3 in tutto il mondo - si presenta sin da subito come l'ennesimo film situato al crocevia di diversi generi che, pur con qualche idea interessante, finisce col risultare anonimo e poco studiato. In questo caso, la presenza fantasmatica di "Senzafaccia", essere inquietante che si muove piuttosto agilmente fra i due piani della narrazione (che, sul finale, si ricongiungeranno), regala al film un atmosfera piuttosto strana, sospesa fra il thriller, l'horror psicologico, l'horror di possessione, sconfinando pericolosamente perfino nei territori dello sci-fi. Questo, come solitamente accade, diventa il simbolo di una elevata sterilità creativa, o il segno tangibile dell'incapacità del regista di far prendere al suo lavoro una strada ben precisa. 

Pur non essendo a mio avviso particolarmente spiacevole sotto il profilo visivo, Intruders sceglie anche in questo caso la via della sicurezza, rifiutando di osare e proponendosi dal punto di vista tecnico come un film piuttosto anonimo quando non scolastico. Forse dieci anni fa questo non sarebbe stato necessariamente un male, ma considerando la quantità di prodotti che vengono riversati costantemente sul mercato e la pregnanza di alcune scelte estetiche sviluppate negli ultimi anni, nonché le condizioni dell'offerta e della fruizione attuali, mi pare che sia sempre necessario giocare le proprie carte con coraggio, rischiando di intraprendere anche una strada sbagliata. Nel caso di Intruders invece, i personaggi si ripiegano su ruoli ben consolidati della tradizione statunitense, a cui evidentemente Fresnadillo è molto debitore (Clive Owen in particolare è l'ennesimo mimo di una specie di personaggi partoriti a partire dal già non originalissimo Willis de Il sesto senso). 

Complessivamente, per il mio gusto, un film assolutamente senza sapore che pur non essendo completamente sbagliato risulta perdente sotto ogni punto di vista per la mancanza di un qualsiasi timbro stilistico. 

VOTO: 4/10 

venerdì 16 maggio 2014

Fargo



Fargo di Joel e Ethan Coen - Genere: thriller - USA, 1996

Fargo è senza dubbio uno dei film più noti dei fratelli Coen, osannato dalla critica e apprezzatissimo dal pubblico, si è aggiudicato (giustamente) un premio alla miglior regia al Festival di Cannes e ben due premi Oscar. La forza del film, che mi è decisamente piaciuto anche se devo ammetterlo non mi ha conquistato completamente, sta nel fatto di essere assolutamente innovativo per l'epoca, con una capacità straordinaria di precorrere i tempi, che si esprime nella libertà di alcune scelte registiche e nella complessità della sceneggiatura, firmata dai registi medesimi. William Macy (da me già apprezzato nei panni di Arbogast nel remake vansantiano di Psycho), ad esempio, interpreta un personaggio di una complessità e bellezza disarmanti, un vinto assoluto che ordisce suo malgrado la catena di eventi che si sviluppano nel film a partire da un motore per la verità piuttosto banale. Sì, perché Fargo riesce a reggersi magistralmente su un registro che, pur impreziosito dalla capacità registica e dalle ottime performance, non esorbita di troppo dal canovaccio standard del thriller medio. 

Se tutto si limitasse a questo però potremmo facilmente dimenticarci di questo film, per quanto apprezzabile. Mi pare invece che la sua grande caratteristica sia quella di non prendersi troppo sul serio, vale a dire di offrire tutta una serie di situazioni paradossali o perfino umoristiche, perfettamente cucite all'interno della trama degli eventi. Ad esempio la grottesca fuga della signora Lundegaard nel bianco algido delle spianate del Minnesota, dove la poverina si ritrova a rantolare in preda al panico, è completamente assurda e allo stesso tempo geniale. L'incongruenza ricercata di questi siparietti mi pare che prema sui margini della struttura e la apra inaspettatamente a dei piccoli lampi di genio, che costituiscono la vera e propria cifra di questa pellicola.

Il risultato complessivo è dunque doppiamente interessante, perché Fargo riesce a presentarsi come un film apparentemente conservatore, rassicurante e familiare, ma al tempo stesso a imporsi per la forza di alcune scelte particolarmente felici da molteplici punti di vista. Tutto sommato un film che mi sembra doveroso consigliare per il suo essere bello e divertente, anche se mi duole ammettere che non rientra nel novero delle pellicole che mi porto nel cuore.

VOTO: 7.50/10 

giovedì 15 maggio 2014

Violent cop



Violent cop di Takeshi Kitano - Genere: drammatico/azione/thriller - Giappone, 1989

Attenzione, quest'uomo è estremamente percioloso. Questa è la traduzione italiana del titolo originale giapponese del primo lungometraggio diretto e interpretato da Kitano, indiscusso maestro del cinema giapponese (già attore di altre pellicole di tono comico). Per quanto anche la lezione italiana della titolazione rimanga fedele allo spirito della pellicola, la traslitterazione originale dei kanji rende sicuramente meglio il clima anche culturale che sta dietro a questo lavoro. In ogni caso già da questo suo primo film Kitano impagina degli elementi di grandissimo interesse: a partire da un canovaccio piuttosto convenzionale, il regista riesce a far emergere un prodotto decisamente interessante che è stato ben accolto sia dalla critica che dal pubblico. Attraverso gli occhi del poliziotto Azuma, Kitano ci racconta di una discesa ad inferos che sembra però investita di un forte valore morale: per quanto sia indubbiamente uno sconfitto, il personaggio di Kitano assume una valenza quasi titanica nella sua lotta (condotta, come da titolo, con mezzi ben poco convenzionali) contro la corruzione degli altri strati della polizia.

E' un racconto morale, ma non moralistico. Lo stile personalissimo del regista garantisce al film una pregnanza particolare e una discreta qualità complessiva, anche se ancora non ai livelli dei suoi capolavori. Violent cop è a mio avviso un film interessante ma non ancora pienamente maturo, da vedersi per completismo o se si cerca un film di genere diverso dal solito, impreziosito da una regia comunque attenta e intellettuale, che non mancherà di lasciarsi gustare con piacere da chi ha occhio in materia. Per quanto mi riguarda l'eccesso di violenza che lo stesso Kitano ha visto a posteriori in questo suo debutto è del tutto ingiustificato; anzi, mi pare che - conoscendo il coraggio del cinema orientale in questo senso - si sarebbe potuto osare decisamente di più.

VOTO: 6/10 

lunedì 12 maggio 2014

12 anni schiavo



12 anni schiavo di Steve McQueen - Genere: drammatico - USA, 2013

Ho sempre considerato gli Oscar un premio importante e ambito, ma di certo non rappresentativo di quelli che sono i miei gusti cinematografici. A livello di ricerca sul linguaggio filmico mi pare che i risultati più interessanti si vedano a Venezia o a Cannes. L'Academy invece tende a premiare sempre film di una certa commercialità, ovviamente con alcune gradite eccezioni come il bel Gravity (che pure ha una sceneggiatura smaccatamente pop, ma si eleva grazie a una perizia registica decisamente fuori dall'ordinario). E così 12 anni schiavo, film che ha fatto incetta di premi all'ultima edizione, partorito da un regista talentuoso come McQueen e con un bravo attore come Fassbender, non mi ha impressionato positivamente. Tengo subito a precisare che il problema non sta assolutamente nella regia, che è anzi assolutamente meritoria (d'altronde dal regista di un film freddamente perfetto come Shame non mi sarei aspettato niente di meno). 

Il problema di questo film secondo me deriva innanzitutto dalla sceneggiatura; preciso di non aver letto il testo originale da cui McQueen ha tratto il suo film, ma mi pare che in generale la pellicola fosse infarcita di episodi del tutto marginali per lo sviluppo della vicenda, messi apposta per infiocchettare un prodotto dal forte patetismo e dalla sicura presa commerciale. Mi spiego: è evidente che la schiavitù è stata una grave piaga della società americana rispetto alla quale gli Stati Uniti devono ancora porsi in una maniera precisa. Tuttavia, la vera e propria strumentalizzazione del dramma collettivo perpetrata da 12 anni schiavo per costruire un prodotto ben poco coraggioso è secondo me del tutto disdicevole. McQueen avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto, osare di più nel raccontare un evento tanto drammatico. Attraverso una narrazione che si vuole d'impatto ma che in realtà è piuttosto (anzi troppo) blanda, il risultato non è altro che una perpetuazione di stereotipi consolidati, conditi da situazioni stereotipiche e da performance attoriali di contorno che, spiace ammetterlo, non sempre sono all'altezza (Pitt ne è in questo film un chiaro esempio). 

L'errore che imputo al film di McQueen è insomma quello di essere troppo facile e semplificatorio. Rinunciando alla contraddizione, che pure ha alimentato il fenomeno dello schiavismo, il regista propone un panorama depauperato dalle sue istanze più interessanti, che vengono ignorate in modo praticamente assoluto. Per assurdo, un film ovviamente ben diverso come Django Unchained, parla della schiavitù in modo molto più problematico e interessante di quanto non abbia fatto 12 anni schiavo, proponendoci una versione per famiglie benpensanti di un problema storico e sociale che meriterebbe di essere sviscerato senza qualunquismi di sorta, che qui invece abbondano.

VOTO: 5/10 

domenica 11 maggio 2014

Gioventù bruciata

 

Gioventù bruciata di Nicholas Ray - Genere: drammatico - USA, 1955

E' probabile che quando Gioventù bruciata uscì nelle sale americane gli spettatori furono in qualche modo sconcertati. In una ripresa molto stretta sul protagonista ma con elevata profondità di campo, mentre i titoli di testa scorrono su una musica trionfalisticamente hollywoodiana, un ubriaco James Dean cincischia con oggetti di poco conto, fra cui un giocattolo. Una busta di carta (oggetto anche questo stereotipicamente hollywoodiano), stride con il vestito elegante di Jim. Pochissimi film prima di allora, forse nessuno, avevano raccontato in questo modo il proprio eroe, entro un sistema produttivo ancora fortemente legato ai modelli della Hollywood classica dove il divo era forte anche quando era una parodia di sé stesso. Gioventù bruciata, insieme a una manciata di altri film (Fronte del porto e sicuramente La valle dell'Eden, con lo stesso Dean), hanno contribuito a mettere in seria discussione questo sistema, aprendo la strada a uno svecchiamento dei modelli retorici dell'industria cinematografica americana. 

Ed ecco che uno straordinario James Dean, accompagnato dalla performance recitativa altrettanto eccezionale dei suoi compagni di avventura Nathalie Wood e Sal Mineo (entrambi morti, come lo stesso Dean, in circostanze tragiche e sospette), diretto dall'audace macchina da presa di Ray, riesce a raccontare un'America ancora buonista ma indebolita nelle sue convinzioni, nella quale i giovani mettono in discussione il sistema di valori dei padri e più in generale della famiglia (cosa che almeno in parte era stata fatta, seppure in tono vivacemente scherzoso, dalla commedia americana classica, s'intende).Tutto si svolge in una notte, seguendo un modello ancora fortemente legato al continuity script ma già foriero di un'aria nuova: la scelta dei piani di ripresa ma soprattutto l'impostazione della sceneggiatura sembrano preludere alla stagione degli eroi deboli della Nuova Hollywood (Taxi Driver, Easy Rider), anche attraverso la rinuncia al fittizio happy ending a cui praticamente tutto il cinema classico ci aveva abituato.

Più ancora di Jim dunque è il personaggio di John a diventare il simbolo di una generazione che ha perso, dopo l'esperienza traumatica della guerra, i punti di riferimento per orientarsi nel mondo e - non potendo più contare su quelli tradizionali incarnati dalla legge del padre - decide di costruirsene di propri, anche a costo di sfidare le autorità costituite e con il rischio ben presente che il proprio sogno di felicità si trasformi in tragedia. Gioventù bruciata, oltre ad avere una innegabile importanza storica, è dunque un film che ancora oggi si lascia guardare con grande piacere e che non sembra sentire il peso dei propri anni. Il che è certamente la conferma che il cinema di qualità non invecchia, o forse che acquisisce sempre nuove possibilità proprio col passare del tempo.

VOTO: 10/10 

sabato 10 maggio 2014

La promessa dell'assassino



La promessa dell'assassino di David Cronenberg - Genere: thriller - USA, Regno Unito, Canada, 2007

Finalmente riesco a trovare, nella sempre interessantissima filmografia di Cronenberg, un film potente e realizzato in maniera attenta e sapiente. Dopo Videodrome, devo ammettere che ho faticato a trovare una pellicola altrettanto interessante: Crash, per quanto idealmente accattivante non mi è parso così ben realizzato e Cosmopolis secondo me è un parziale buco nell'acqua. Discreto invece A history of violence, che non a caso si avvicina già dalla scelta dell'attore protagonista (Viggo Mortensen, qui ben più convincente) ma che è affine a La promessa dell'assassino anche per l'idea di base, con Mortensen che impersona un individuo scisso fra due universi esistenziali e sopratutto morali, dei quali uno rimane sotterraneo per la maggior parte del film. A partire da un intreccio per la verità insolitamente banale, almeno a mio avviso, per un film di Cronenberg, il regista canadese riesce a tirar fuori il meglio da una trama thriller piuttosto classica, orbitante attorno alla criminalità organizzata russa.

Pur non presentando sperimentazioni esorbitanti per quel che riguarda l'impostazione registica, La promessa dell'assassino regge molto bene sotto il profilo della composizione e soprattutto della fotografia che, in particolare negli interni, regala alle scenografie un'atmosfera straordinariamente intensa grazie a scelte cromatiche particolarmente indovinate. Tutto o quasi, questa volta, mi pare si regga però sulle interpretazioni degli attori, tutto sommato molto buone anche se devo riconoscere che per quanto mi riguarda Naomi Watts si è rivelata qui piuttosto debole; interessante e molto ben scritto anche il personaggio di Vincent Cassel, attore che non amo particolarmente ma che qui riesce ad uscire parzialmente dalla sua parte stereotipica (che pure gli ha garantito un certo successo in un film come L'odio). 

Personalmente, conoscendo Cronenberg almeno in parte, mi sarei aspettato delle scelte più coraggiose a livello di sceneggiatura (già An history of violence mi era sembrata piuttosto blanda in quanto a scrittura drammatica, ma qui la situazione mi pare ancora più seria; per fortuna la compensazione offerta dal profilo visivo è decisamente meritoria) e forse un maggiore approfondimento di alcuni personaggi, ma tutto sommato La promessa dell'assassino rimane un film che, a fronte di alcune difficoltà, intrattiene molto bene ed è decisamente valido per quello che riguarda la tecnica di messa in scena.

VOTO: 8/10 

giovedì 8 maggio 2014

Django Unchained



Django Unchained di Quentin Tarantino - Genere: azione - USA, 2012


A volte si ha bisogno di colmare le proprie lacune. In questo caso la mia riguardava un clamoroso successo commerciale di pochi anni fa, di cui peraltro ho sentito parlare davvero molto sia da parte del pubblico che da parte di "specialisti" del settore. Django Unchained, riedizione tarantiniana di uno spaghetti western di qualità neppure troppo elevata, è da una parte un punto di svolta e dall'altra parte una conferma del cinema di Tarantino. E' una novità perché è il film più lungo da lui diretto, il primo in cui Tarantino va a scavare in un'altra delle grandi ferite del popolo americano. E' una conferma perché si deve comunque ammettere sinceramente che Django non aggiunge molto a quanto già affermato, forse con più forza e convinzione, in Bastardi senza gloria. L'idea teorica è la stessa; qui si aggiunge una più evidente passione per il cinema di genere, ripreso con criterio spesso filologico e un ritorno a un gusto smaccatamente e spesso umoristicamente splatter già visto in modo ben più drammatico ne Le Iene.

Dal punto di vista della qualità registica, non si possono muovere critiche di sorta. Tarantino sa come muoversi agilmente e con convinzione utilizzando sempre uno stile eclettico e ultracinematografico, piegato di volta in volta alle sue esigenze. Ma se Bastardi rappresentava per me il capolavoro (o uno dei capolavori) del Nostro, Django ha degli evidenti problemi, che però non chiamerei veri e propri difetti. Mi pare che lo stile di Django e molte delle scelte che lo hanno generato siano il risultato di uno stile mutuato senza troppe differenze dal precedente successo, il che a mio avviso ha generato un prodotto piuttosto sterile e manieristicamente incancrenitosi su un risultato già raggiunto. Clement Greenberg in un suo famoso saggio, parlando del rapporto fra avanguardia e kitsch, fa riferimento al concetto di alessandrinismo accademico e immobile, che mi pare calzante per il caso in esame.

Intendiamoci, Django Unchained rimane comunque un film ben realizzato e gustoso dal punto di vista dell'appealing. La straordinaria interpretazione di Cristoph Waltz (già apprezzato nel precedente film di Tarantino) così come il cameo di Franco Nero garantiscono al film una certa presa. Ma, ad esempio, c'era davvero bisogno di prolungare il film sino alla sua conclusione ultrapop? Non sarebbe stato sufficiente calare il sipario dopo la mattanza realizzata da Django a Candyland? Del tutto irrilevanti mi sembrano invece le polemiche sorte all'uscita del film sull'utilizzo del termine "negro"; credo che chiunque sia in grado di approcciarsi a un testo sull'argomento con maturità sappia (o dovrebbe sapere) discernere con facilità le scelte estetiche e quelle etiche (anche se di questi tempi e nel caso di un regista polemico come Tarantino mi rendo conto che possa essere difficile); lo stesso valga per le tanto discusse scene di violenza: ad eccezione della lotto fra mandingo, davvero d'impatto, non ho trovato tutto questo surplus di insistenza sul corpo ferito. Spesso, anzi, mi pareva che le scelte in questo senso fossero più umoristiche che altro.

Django Unchained è in definitiva un film riuscito solo a metà e che mi ha parzialmente deluso. E' comunque una visione consigliata a tutti gli amanti di Tarantino e non, almeno per la sua grande riuscita tecnica.
VOTO: 6/10

mercoledì 7 maggio 2014

Sonatine



Sonatine di Takeshi Kitano - Genere: drammatico - Giappone, 1993

Mi sono sempre trovato estremamente colpito dal cinema giapponese e più in genere orientale: il mio amore per Kim Ki-duk e l'insana passione per Takashi Miike saranno certamente note ai lettori di questo blog. Eppure il mio primo approccio con Takeshi Kitano, notissimo cineasta nipponico riportato in quasi tutte le storie nazionali della settima arte, è stato piuttosto problematico. Forse le mie aspettative erano sbagliate e certamente non sono riuscito a comprendere fino in fondo ciò che Sonatine significa e rappresenta; di certo una più completa conoscenza della filmografia di Kitano mi aiuterebbe nell'impresa e senza dubbio i suoi sono film che desidero recuperare al più presto. Eppure, Sonatine per me è un film irrisolto, incompleto, forse troppo criptico per una esegesi matura, almeno attualmente. Spesso si dice che i critici hanno torto o ci vedono poco chiaro e molte volte posso essere d'accordo. Ma se critica e pubblico sono concordi nel ritenere che un film sia meritevole e io in quanto spettatore letterato non lo ritengo tale, qualche domanda vale la pena di porsela, per quanto il giudizio rimanga immutato. Nel caso specifico credo di non essere riuscito a entrare nell'ottica giusta, oppure di non aver guardato con sufficiente attenzione. E' senza dubbio un peccato.

Quel che è certo è che Kitano è riuscito ad aprire alla riflessione (meta?)cinematografica una trama piuttosto scontata come quella della crime story all'orientale, abbandonando progressivamente la fascinazione di una narrazione forte a favore di una diegesi fredda, molto evocativa ma estremamente debole e dilatata sino all'inverosimile. Gli uomini di Murakawa passano con il loro capo delle giornate vuote, in attesa che il loro destino si compia. Il tempo qui si allunga all'inverosimile e lo spettatore non può che seguire con un certo sconcerto le pantomime assurde che gli yakuza mettono in scena su una spiaggia bianchissima e quasi irreale. Di certo siamo di fronte a un'opera fastidiosa, disarmonica, ruvida e difficile da comprendere. Inoltre sono assolutamente certo che dietro alla diafana camicia di Kitano (qui anche attore oltre che regista), alla granitica inconsistenza della sabbia al di fuori del tempo, sia ben presente un lampo di genialità che non sono ancora riuscito ad assimilare. Come per alcuni film di Lars von Trier, spero di arrivare a comprenderne pienamente il senso e la grandezza. Per ora, il giudizio non può che rimanere parzialmente sospeso.

VOTO: 7/10 

martedì 6 maggio 2014

Amore Tossico



Amore Tossico di Claudio Caligari - Genere: drammatico - Italia, 1983

Gli anni Ottanta sono quelli del reflusso, del disimpegno politico, dell'illusione del benessere televisivo, della corsa agli acquisti. Sono anche, così ce li racconta il documentarista Caligari, gli anni dell'eroina. Abbandonando la pure documentalità ma mantenendo una cornice stilistica disadorna e quantomai scarna, Caligari realizza un film dalla grande fortuna di pubblico, che è riuscito a raccontare in medias res la drammatica situazione dei giovani spostati che in una inospitale ed estiva periferia romana, passano le loro giornate cercando la droga necessaria. Mediamente apprezzato dalla critica per la coscienza con cui persegue uno stile "puro", Amore Tossico è stato praticamente canonizzato dal pubblico come un vero e proprio film di culto, per il disincanto non pietistico con cui il regista è riuscito a parlare direttamente e con franchezza della situazione da cui la pellicola trae ispirazione.

La scelta di attori non professionisti che avessero condiviso davvero l'esperienza della tossicodipendenza con i personaggi che avrebbero interpretati è da questo punto di vista vincente e garantisce delle performance fresche e convincenti anche di fronte all'evidente asciuttezza e terrosità dei dialoghi della sceneggiatura. Situandosi a metà fra una ripresa delle scelte più cogenti del Neorealismo e un recupero dell'eredità pasoliniana per quanto riguarda l'utilizzo dei corpi e il racconto degli ambienti, Amore Tossico si lascia apprezzare come un documento valido e di forte impatto emotivo. Questo elemento assolutamente non sottovalutabile non dovrebbe però portare a una valutazione affrettata: la consapevole scelta stilistica di Caligari a volte si rivela poco utile, mentre la caduta di stile del finale lacrimoso chiaramente ispirato alla poetica di Pasolini conferma la tentazione sempre presente di precipitare nel gorgo del banale.

Per tutti questi motivi la pellicola di Caligari è senza dubbio un film che mi sentirei di consigliare più per la sua importanza storico-documentaria che per le sue qualità artistiche. La gravità del tema raccontato non dovrebbe precludere una serena valutazione critica del film e delle sue scelte formali.

VOTO: 5.50/10 

lunedì 5 maggio 2014

Bronson



Bronson di Nicolas Winding Refn - Genere: drammatico/grottesco - Regno Unito, 2008

La grande stima che nutro per Nicolas Winding Refn, quest'anno membro della giuria di qualità a Cannes, e la bellezza dei suoi ultimi lavori (Solo Dio perdona, Drive etc.), mi hanno convinto a recuperarne le precedenti lavorazioni, per apprezzare lo sviluppo della sua poetica e confermare la mia impressione, secondo cui il regista danese è uno dei migliori interpreti del grande cinema contemporaneo. Bronson, biopic dedicata al "più pericoloso criminale inglese", pur non avendo soddisfatto appieno le mie aspettative, si qualifica come un film dal forte spirito intrattenente e che mostra chiaramente i prodromi di un netto miglioramento stilistico intercorso nelle successive produzioni di Refn. Scegliendo di affrontare il genere biografico Refn sarebbe potuto facilmente cadere in tutta una serie di stereotipi visivi e drammatici che avrebbero interamente compromesso la godibilità della sua opera, infarcendola di cliché troppo spesso buonisti e scontati. Per fortuna non è stato così.

Da quel che mi è dato capire del personaggio protagonista, perfettamente interpretato da Tom Hardy, posso infatti affermare che la scelta di Refn di incorniciarne la vicenda entro una struttura teatrale ai limiti del grottesco, dove l'uso del corpo e dell'overacting costituiscono una scelta eccezionalmente valida, è stata vincente. La prospettiva adottata permette di giocare molto più liberamente con i piani narrativi, enfatizzando i momenti smaccatamente umoristici del personaggio di Bronson pur senza sacrificare la forza delle immagini e quell'amore per il corpo ferito che sembra accompagnare Refn dai tempi di Valhalla Rising (primo suo film che mi è stato dato di vedere). Tutto sommato, pur in presenza di alcune perplessità per quanto riguarda l'impostazione e il ritmo del racconto, la perfetta interpretazione offerta da Hardy da un corpo del tutto rispettabile a questa atipica biografia cinematografica, che riesce a sfruttare in maniera valida ma non ancora perfettamente calibrata (come sarà invece nei film successivi) la visionarietà immaginifca di Refn.

Un film che ambisce chiaramente a qualcosa di più, ma non riesce a raggiungere del tutto il suo scopo. Rimane in ogni caso un titolo dalla forte carica intrattenitiva e che presenta in nuce molte delle qualità che si possono apprezzare nei film più curati di Refn.

VOTO: 6.50/10 

domenica 4 maggio 2014

Miss Violence



Miss Violence di Alexander Avranas - Genere: drammatico - Grecia, 2013

La mia conoscenza del cinema greco, come credo quella della maggior parte degli spettatori non professionisti, è piuttosto limitata. Eccettuata la felice scoperta di Dogtooth, firmato dal visionario Lanthimos, devo riconoscere con tutta franchezza che non conosco altri autori degni di nota. Limite importante, ma che almeno in parte si può scusare considerando la scarsa penetrazione di certe cinematografie nazionali nei nostri schermi. Proprio per questo motivo, la presenza di Miss Violence a Venezia 70 è stata una vera scoperta e i premi importanti che gli sono stati tributati mi hanno particolarmente incuriosito. Le aspettative non sono state deluse: per quanto diversi critici abbiano considerato questo film un prodotto non degno di eccessivi onori, a me pare che si tratti di un prodotto estremamente ben realizzato e profondamente drammatico nella sua trattazione delle dinamiche familiari (cosa peraltro già tragicamente emersa nei film di Lanthimos, come se la decostruzione dell'immaginario da famiglia felice all'americana fosse uno dei tratti qualificanti la cinematografia greca). 

Sì, perché Miss Violence nasce da un trauma, il suicidio di una delle figlie di famiglia che signifcativamente non viene mostrato; l'unica testimonianza della ferita aperta nel tessuto familiare è la macchia di sangue sulla locandina, ripresa come se fosse lo schizzo sulle piastrelle di una doccia più che su una pavimentazione. Da qui si sviluppa l'analisi del gruppetto di individui di Avranas, raccontati con una capacità chiaroscurale notevole per quanto non eccessiva: non sappiamo molto dei bambini o del nonno, ma quanto basta per renderci conto di quale sia lo stato della famiglia, rappresentata come in Lanthimos sotto forma di un organismo di potere disciplinante molto ben definito. Mentre in Dogtooth la narrazione prendeva strade più metafisiche, Avranas sceglie di trattenersi sulla mondanità, mostrando senza remore i biechi meccanismi di convivenza messi in atto dal capofamiglia e le metodologie di asservimento delle giovani sottoposte. Si tratta di una scelta che non riesco a condividere appieno, avendo apprezzato alla follia la cura quasi nevrotica che Lanthimos aveva messo in questi aspetti della sua opera. 

Ciò nondimeno, Miss Violence rimane un film estremamente interessante, permeato di un senso malato della famiglia e della società che colpisce per la sua crudezza asettica. Formalmente, la cura di Avranas nella composizione delle inquadrature e nell'utilizzo in senso espressivo della macchina da presa, con inquadrature gelide e desolanti, trasmette perfettamente il senso della sua opera e ne costituisce il perfetto contraltare visivo. Per tutti questi motivi, a mio modesto avviso, Miss Violence è un film importante e meritevole dei premi che si è portato a casa, sopratutto il Leone d'argento alla miglior regia.

VOTO: 8.50/10 

venerdì 2 maggio 2014

Hunger (2009)



Hunger di Steven Hentges - Genere: horror - USA, 2009

Preciso subito, anche se la cosa dovrebbe capirsi dal titolo, che questo Hunger non è il film di Steve McQueen datato 2008. Lo specifico perché io stesso, cercando la pellicola con Fassbender protagonista, ho erroneamente reperito questo horror americano di un anno successivo e diretto da un regista questa volta veramente sconosciuto. Questo a dimostrazione di come molto spesso la rete possa giocare dei brutti scherzi (e di come a volte la scelta di un titolo può essere utile anche a prodotti di serie B). Al di là di questa annotazione primaria, bisogna però ammettere che - guardando Hunger senza alcun preconcetto, si deve riconoscere che almeno dal punto di vista visivo, il lavoro di Hentges si lascia apprezzare per il cromatismo e alcune scelte di fotografia. E, per un film che per molti è soltanto il risultato venuto fuori cercando qualcos'altro, è già un risultato più che dignitoso. 

Il vero problema di questo horror senza troppe pretese sta però nella sceneggiatura. Ispirandosi a un canovaccio ormai ben sedimentato nel genere horror e evidentemente debitore di quel vero cambiamento che fu Saw: L'enigmista, il testo di Hentges non fa altro che ripetere con minime e spesso impercettibili variazioni un modello retorico ormai piuttosto inattuale. A fronte di alcune trovate interessanti, il regista non approfondisce a sufficienza la psicologia dei personaggi per far emergere un intreccio che sia valido e appiattisce notevolmente l'entertainment  del prodotto. Anche a livello di ritmo bisogna poi rilevare che l'azione stenta a svilupparsi e tutta la prima parte del film è, quand'anche non noiosa, decisamente poco funzionale ai fini del film. 

Nel complesso Hunger è un film mediocre ma non del tutto spiacevole, che comunque si potrebbe rivelare adatto a una serata all'insegna del disimpegno. C'è certamente di meglio nel genere, ma considerando anche la grande massa di immondizia cinematografica che viene regolarmente immessa sul mercato, lo spettatore medio non dovrebbe sentirsi troppo insoddisfatto.

VOTO: 5/10 

giovedì 1 maggio 2014

Il mio vicino Totoro



Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki - Genere: animazione - Giappone, 1988

A volte è sorprendente pensare che, in una società che si vorrebbe globalizzata, dominata dai flussi e nella quale ogni informazione e ogni testo parrebbero essere immediatamente reperibili, un film dei tardi anni Ottanta abbia dovuto aspettare più di un decennio per essere presentato in Italia, nei primi anni Duemila. Questo dovrebbe suscitare una riflessione collettiva sul fatto che i film che possiamo ritenere grandi capolavori perché hanno cittadinanza nei nostri cinema in realtà nascondono un sottobosco di titoli, spesso ben più gustosi, che non arrivano sui nostri schermi. Detto questo, voglio precisare che non sono fra gli estimatori sperticati di Miyazaki, pur avendo visto e apprezzato i suoi lavori più noti (La città incantata in primis). Questo non a causa di un qualche demerito artistico ma semplicemente perché il mio gusto mi induce ad apprezzare di più produzioni forse meno liriche (vedasi Akira). 

Detto ciò, ho comunque deciso di approcciarmi a Totoro perché è stato ben apprezzato dalla critica e dal pubblico, oltre che per colmare le mie lacune nella filmografia di uno dei migliori interpreti dell'animazione giapponese. Posso dire sinceramente di essere molto felice della mia scelta. Con grande sensibilità e un lirismo impensabile per un occidentale (o almeno per la maggior parte di essi), Miyazaki è riuscito a raccontare una storia che, per quanto narrativamente piuttosto debole, si fa ricordare con piacere e tenerezza dagli spettatori. Questo perché nel film il regista sposa perfettamente un realismo concreto nella rappresentazione della vita dei protagonisti con la grande libertà inventiva che anima le sue creazioni (lo stesso Totoro, il bus-gatto che pare una citazione piuttosto palese di Alice e i "corrifuliggine" ne sono un chiaro esempio). 

Questi mondi paralleli ma comunicanti grazie alla capacità che le due piccole protagoniste di vederne le interconnesioni si uniscono poi nel finale, dove la ricerca di Mei da a Miyazaki la possibilità di liberare la sua vena creativa in un crescendo di fantasia molto accattivante e dal quale non sono accantonate le derive emozionanti. Per quanto Miyazaki intraprenda una strada fortemente diversa rispetto all'animazione americana (penso ovviamente alla Pixar e alla sua impaginazione della storia dove le figure digitali sono trattate e considerate come corpi attoriali veri e propri), la sua semplicità disegnativa e drammatica risulta forse vincente sotto il profilo dei sentimenti. 

Nel complesso Il mio vicino Totoro è un film decisamente interessante, snobbato all'epoca della sua uscita ma che credo andrebbe recuperato per il profondo lirismo che ne permea le immagini. Gradevolissima anche la colonna sonora.

VOTO: 7.50/10 

martedì 29 aprile 2014

Fuoco cammina con me



Fuoco cammina con me di David Lynch - Genere: thriller - USA, 1992

Oltre a essere un celebratissimo cineasta e artista poliedrico, David Lynch ha firmato anche una vera e propria serie cult, I  misteri di Twin Peaks, datata 1990, di cui Fuoco cammina con me rappresenta il prequel. Preciso sin da subito due elementi, che credo sia necessario tenere in conto nel prendere in considerazione il mio giudizio verso il film. In primo luogo non ho avuto modo di vedere le puntata della serie, quindi non potrò valutare in nessun modo il modo in cui il film si integra rispetto ai contenuti del telefilm. In secondo luogo tengo a dichiarare che Lynch non è un cineasta che amo particolarmente, soprattutto per quanto riguarda le sue ultime produzioni; per quanto film come Lost Highways e Inland Empire siano senza dubbio realizzazioni straordinarie, devo ammettere che in tutta onestà non mi hanno convinto fino in fondo e soprattutto nella sua ultima opera è forte la sensazione che Lynch abbia profondamente travalicato i confini dello spazio filmico, per aprire la sua arte su prospettive che a mio parere non appartengono (almeno non completamente) alla critica cinematografica.

Ciò detto è necessario riconoscere che, almeno per me, Fuoco cammina con me rappresenta la migliore prova registica di David Lynch, una perfetta miscela di avanguardia linguistica, suggestione immaginifica e solidità narrativa. Pur essendo grossomodo spartibile in due parti ben distinte il film mantiene una sua unitarietà stilistica e drammatica, giungendo a compimento nel finale dove si raggiunge l'acme della poetica lynchiana. La trama thriller è raccontata con efficacia, ma non predomina sulle componenti più caratteristiche dello stile di Lynch, come l'attenzione morbosa per gli oggetti che - ripresi a distanza volutamente troppo ravvicinata - sembrano quasi assumere una vita feticizzata che li fa emergere dando loro una dignità simile a quella dei personaggi. A ciò si aggiunge, ovviamente, l'immancabile persistenza sul confine dei registri stilistici, potremmo dire fra il concreto e l'astratto, fra l'onirico e il reale (non si allude ovviamente, almeno non in maniera così ingenua, al Reale nel senso lacaniano del termine). 

Senza dubbio per chi conosce la serie di Twin Peaks il film avrà rappresentato la conferma e la spiegazione di nodi insoluti della vicenda, mentre per chi come me non si è ancora approcciato a questo prodotto, Fuoco cammina con me mantiene una salutare patina di mistero che - ben lungi dall'essere sintomo di incompletezza- garantisce un fascino magnetico al film e alla vicenda così efficacemente raccontata da Lynch. Mi rendo conto che in questo come in altri casi sarebbe forse apprezzabile un commento più circostanziato sulle qualità del film, ma credo che questa non sia la sede adeguata per questo scopo. Di fronte a un'opera potente come questa la soluzione migliore è forse, nell'ambito di una recensione, quella di fornire degli stimoli per suscitare la visione. Concludendo in breve a questo scopo, il film ispirato a Twin Peaks si lascia apprezzare per lo splendore della tecnica compositiva e linguistica di Lynch, cui si unisce in questo caso una sceneggiatura eccellente e fortunatamente lontana dagli eccessi sperimentali e a volte troppo confusivi cui ci hanno abituato le sue opere più recenti.

VOTO: 10/10 

lunedì 28 aprile 2014

Quattro mosche di velluto grigio



Quattro mosche di velluto grigio di Dario Argento - Genere: thriller - Italia, 1971

Con questa recensione si chiude la Trilogia degli animali diretta da Dario Argento. Inaugurata dal bel L'uccello dalle piume di cristallo e proseguita con il discutibile Il gatto a nove code, è la serie di film che più di tutti ha contribuito a fondare il genere del giallo all'italiana, che ha avuto una notissima diffusione e fortuna e che meriterebbe di essere rivalutato anche in sede critica più di quanto non si faccia. Per quanto io appartenga più al gruppo degli estimatori del sottovalutatissimo Lucio Fulci e non sia un amante degli argentiani, devo riconoscere che l'inizio e l'epilogo della trilogia sono senza dubbio interessanti. Sebbene con minore freschezza rispetto a quanto mostrato ne L'uccello, qui Argento riesce ancora a proporre uno stile libero e veloce, fatto di inquadrature fortemente influenzate dal cinema moderno. 

Ambientato a Roma, location tipica del regista, il film si sviluppa attorno ai temi più cari ad Argento, senza farsi mancare neppure il riferimento all'omosessualità, questa volta incarnata dal detective privato Arrosio. E' probabile che sotto il profilo della queer theory la scelta di Argento potrebbe essere criminalizzata, per le modalità di rappresentazione, ma devo dire che tutto sommato l'effetto complessivo non è spiacevole e anzi garantisce a Quattro mosche di velluto grigio degli spazi umoristici che difficilmente è possibile trovare nelle produzioni del genere (men che mai nelle successive dell'autore) e che penso ne costituiscano uno dei tratti più interessanti. Risponde a questa esigenza anche il cammeo (decisamente più mediocre, in verità) di Bud Spencer, strappato al suo ruolo caratteristico da scazzotatore di saloon improvvisati.

Nel complesso Quattro mosche risolleva le sorti di una trilogia pesantemente affossata da Il gatto a nove code, vero e proprio fallimento stilistico e di struttura. Pur non trattandosi di un capolavoro assoluto, si tratta di un film del tutto dignitoso, infiocchetato anche da una serie di riferimenti eruditi che non spiacciono nonostante la loro autoreferenzialità. Senza dubbio uno dei migliori lavori di Argento dopo Profondo Rosso.

VOTO: 6.50/10 

domenica 27 aprile 2014

Distretto 13: Le brigate della morte



Distretto 13: Le brigate della morte di John Carpenter - Genere: thriller - USA, 1976

John Carpenter è senza dubbio uno degli autori che ha contribuito a fondare un tipo di cinema, troppo spesso snobbato dalla critica e dal pubblico, che ha condizionato fortemente il nostro immaginario. Universalmente noto (ma mai sufficientemente celebrato) per il capolavoro Halloween: La notte delle streghe, Carpenter si è sempre presentato come un regista abile e dallo stile sorvegliatissimo. Lo dimostra benissimo questo Distretto 13, sua seconda opera immediatamente precedente al primo capitolo della saga di Michael Meyers. Fortemente influenzato da Romero e dalla fondazione dello zombie movie, Carpenter realizza un film profondamente contemporaneo ancora oggi, che si presenta come un'accurata riflessione sulla violenza urbana e su alcune fondamentali caratteristiche della società americana (La notte del giudizio a confronto è un nonnulla). 

Pur senza ricadere nella vacua previdibilità di una analisi sociologica inconsistente, già nel '76 Carpenter era riuscito a diagnosticare con evidenza il ruolo che la violenza ha all'interno della mentalità yankee, adottando significativamente lo stile dell'assalto che di solito - lo abbiamo detto - è tipico della massa di non-morti, agglomerato decerebrato guidato soltanto da un oscuro istinto di morte. In un primo tempo snobbato praticamente da chiunque, Le brigate della morte ha conosciuto una grande rivalutazione negli ultimi tempi, arrivando a presentarsi come un film molto quotato sui maggiori siti di cinema (4/5 per Mymovies e 10/10 per Comingsoon). Pur non condividendo i toni forse eccessivamente entusiastici di questa rifioritura critica, devo riconoscere che il film di Carpenter si lascia apprezzare per la libertà linguistica, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei piani e la composizione dell'inquadratura. 

Completa il tutto una nutrita serie di citazioni erudite che riprendono alcuni stereotipi di genere satellite, come il noir (viene perfettamente mimata una scena originalmente attribuita alla coppia divistica Bogart/Bacal). Questo rende Distretto 13 un film ancora oggi validissimo, che si lascia apprezzare sotto il profilo tecnico forse più che sotto quello drammatico. Certamente un titolo da recuperare per l'ottima gestione del thrilling e del ritmo narrativo.

VOTO: 6.50/10 

sabato 26 aprile 2014

La Via Lattea



La Via Lattea di Luis Bunuel - Genere: drammatico/grottesco - Francia, 1969

Bunuel è noto ai più solo come l'autore dei due massimi capolavori del cinema surrealista (non che ce ne siano stati molti altri in quel periodo), realizzati in collaborazione con Salvador Dalì, Un chien andalou e L'age d'or. In realtà Bunuel è stato un cineasta incredibilmente prolifico che è riuscito, pur mantenendo costante una propria linea di ricerca, ad adattarsi ai tempi che cambiavano velocemente. Diventato uno dei massimi maestri del cinema moderno europeo, il regista spagnolo ha fatto sentire la propria influenza soprattutto in America latina dove ha contribuito a fondare per la prima volta il senso di una cinematografia nazionale. Ed è proprio in questo contesto che dev'essere letta La Via Lattea, film impegnativo dal punto di vista teorico e stilistico nel quale Bunuel affronta con disincanto e amara e sferzante ironia, il problema della religione da un punto di vista non solo cinematografico ma, ci verrebbe da dire, filosofico. 

Seguendo il percorso di due viandanti in pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, Bunuel realizza una composizione aperta, dove il protagonismo dei personaggi viene del tutto meno, lasciando il posto a una struttura quasi episodica, in cui i due pellegrini hanno un ruolo a volte persino marginale. Ridotti a osservatori molto spesso impotenti dei siparietti grotteschi che Bunuel realizza, i due vengono ad assumere lo stesso valore epistemologico degli spettatori, di cui si fanno figura. Di fronte ai loro (e dunque ai nostri) occhi si dipana con una sagacia che spesso sconfina nella satira vera e propria un vero carnevale della teologia, nel quale Bunuel - perdendo completamente il senso della coerenza temporale - arriva a cucire un arazzo di frammenti a tratti persino blasfemi. Stilisticamente, non che ci sia bisogno di dirlo, il lavoro è poi curatissimo e diventa un perfetto esempio di uno stile coerentemente lanciato verso la negazione del paradigma classicista, che non viene abbandonato completamente (non siamo al Neoralismo), ma integrato e complessificato con soluzioni più elaborate per quello che riguarda la regia e la fotografia.

Ciò nondimeno La Via Lattea si fa apprezzare, almeno così mi pare, più per il contenuto e il portato filosofico/morale che per la qualità visiva, che sconta i suoi anni almeno in parte. 

VOTO: 7.50/10 

giovedì 24 aprile 2014

Oblivion



Oblivion di Joseph Kosinski - Genere: fantascienza - USA, 2013

Il 2013 sembra essere stato l'anno di grazia per la fantascienza, da Pacific Rim (con il quale, lo ammetto, avrei dovuto essere più clemente in termini di giudizio) all'orrido After Earth. E se ognuno di questi titoli ha avuto il suo divo come protagonista (non dimentichiamoci Matt Damon in Elysium), non poteva certo mancare un titolo sci-fi che ruotasse intorno all'americanissimo Tom Cruise. Dalla regia di Kosinski, già autore del sequel di quel successo indiscusso che fu Tron, mi sarei aspettato qualcosa di più legato alla sua opera di debutto (appunto, Tron: Legacy). Invece, confermando quello che ormai sembra un vero e proprio neo-stereotipo del genere fantascientifico, il poliedrico artista statunitense ci propone una Terra in rovina, abbandonata dai suoi abitanti messi in scacco da un popolo invasore. 

Attraverso una sceneggiatura decisamente ben scritta ma a tratti eccessivamente involuta e capziosa (quindi un po' forzata!), la narrazione si snoda attorno al grande inganno centrale, di cui il nostro povero Cruise rimane suo malgrado vittima. Le due metà del film, piuttosto lungo, si compenetrano efficacemente ma questo non basta a farlo decollare del tutto; purtroppo l'intera struttura della narrazione è viziata da una serie di piccoli difetti che ne mettono in crisi la struttura. Al di là della mancata esuberanza stilistica laddove ci si sarebbe aspettati un tripudio di effetti speciali accompagnati magari da scelte di regia più impegnative, il vero problema di Oblivion sta secondo me nella sua ostinata e ormai vecchiotta morale americana. 

Tutto, nella Terra abbandonata e nei protagonisti che la abitano, ci parla di un mondo/America che sembra essere il fallimento del progetto di assorbimento culturale messo in atto dagli Stati Uniti. La ripresa di elementi tipici della yankee culture è continua: il campo da baseball, l'eroismo eticamente incorrotto di Cruise e quello saggio dell'ormai attempato Freeman (un personaggio, spiace dirlo, piuttosto ridicolo in questo caso), il mito della famiglia/coppia americana e molto altro ancora. Conclude il tutto una citazione del capolavoro kubrickiano 2001: Odissea nello spazio, con una ripresa scoperta dell'occhio rosso di Hal9000, segno di come anche il grande cinema d'autore possa essere asservito a questo genere di prodotti.

VOTO: 4.50/10 

mercoledì 23 aprile 2014

L'age atomique



L'age atomique di Héléna Klotz - Genere: drammatico - Francia, 2012

Ho guardato questo film perché ero incuriosito dal titolo (l'importanza del paratesto quando si presenta un prodotto è - checché se ne dica - fondamentale) e dall'assoluta essenzialità della trama. Ammetto che, da grande fan del regista canadese, mi aspettavo un film alla Xavier Dolan. Sulla carta le premesse parevano esserci: due giovani abitanti della notte parigina, di cui uno a metà fra l'omosessualità e l'androginia e fra i quali si sviluppa un rapporto abbastanza indefinito e a tratti quasi morboso. E' un peccato che piuttosto in fretta io mi sia dovuto ricredere e abbia visto scemare le mie aspettative, forse troppo alte.

Per fare subito chiarezza ci tengo a dire che, al di là di qualche momento poco felice, L'age atomique è un film che sotto il profilo visivo funziona piuttosto bene. Soprattutto per quanto concerne la fotografia d'esterni, che secondo me ne rappresenta il punto di forza assoluta. Ambienti vuoti e desolati, quelli della capitale francese ripresa di notte con grande sensibilità, si alternano alle riprese d'interni nella discoteca dove i nostri due protagonisti si ritrovano. In questa seconda frazione di scene la ricerca dell'effetto Dolan è palese ma - mi pare - non riuscita. Il vero problema di questo film è a livello narrativo: nonostante la sua estrema brevità (60 minuti scarsi), L'age atomique è - spiace dirlo - un prodotto davvero noioso; per meglio dire, pretenzioso. Questo perché la caratterizzazione dei due protagonisti è piuttosto abborracciata e si accontenta di presentarceli come due tipi che vorrebbero recuperare lo spirito bohemiene senza in realtà riuscirci in nessun caso; anzi, spesso l'effetto complessivo è piuttosto ridicolo (come nella lunga, lunghissima sequenza in cui si incontrano gli altri tre ragazzi "figli di papà"). 

Purtroppo il giudizio per questo titolo non può che essere negativo, ed è un vero peccato. A fronte di indubbi meriti tecnici che ne avrebbero potuto garantire il fascino magmatico, il film della Klotz si accartoccia del tutto sulla sceneggiatura e finisce col diventare un oggetto di cui non mi sento di consigliare la visione.

VOTO: 4/10 

martedì 22 aprile 2014

Fight Club



Fight Club di David Fincher - Genere: thriller/drammatico - USA, 1999

David Fincher, regista che ha dato il meglio di sé alla fine degli anni Novanta, è l'autore (ci sarebbe da chiedersi quanto noto), di uno dei film più noti e citati di tutti i tempi. Dopo lo straordinario successo di Seven (1995) e quello del film qui presente, il cineasta di Denver si è eclissato, fuoriscendo dall'anonimato a partire dall'interessante Zodiac, datato 2007, che ha cercato e almeno in parte è riuscito a rifondare la strada del genere thriller. Dal genio di Palahniuk, Fincher crea una pellicola efficace che riprende e approfondisce alcuni degli aspetti tematici già abbozzati nel film precedente, che vedeva ancora il buon Brad Pitt come protagonista. Forse potrei essere di parte, ma considerando che Fight Club, per quanto mi sia piaciuto non rappresenti per me un capolavoro indiscusso (almeno non ai livelli a cui di solito viene valutato), posso dire sinceramente che Fincher è riuscito a raccontare, molto prima e molto meglio del sopravvalutato Nolan i meccanismi della mente e della psicologia umana.

Fight Club ci propone per la prima volta una struttura drammatica à la Saw, dove tutto è apparentemente a portata di mano per la comprensione della vicenda. Giocando con le aspettative dello spettatore il regista orchestra una diegesi che si rivela solo nell'epifania finale, raggelando la capacità di analisi del pubblico. Tutto orbita attorno alle ottime performance recitative di Brad Pitt e dell'eccellente Edward Norton, vero e proprio centro nevralgico dell'intera opera; seguendo la sua esistenza in modo non lineare, con un uso libero e dinamico della grammatica visiva, Fincher confeziona un'opera agile che sembra girata addosso al suo protagonista (o dovremmo dire ai suoi?), alternando con un ritmo davvero riuscito episodi comico-macchiettistici, riflessioni di carattere più alto (che spesso sono più suggerite che mostrate) e sequenze d'azione/dinamismo molto ben studiate.

Tutto sommato non si può non rendere merito a Fincher per la freschezza e la piacevolezza della sua opera, che per quanto mi riguarda non riesce comunque a eguagliare i livelli di ricercatezza drammatica e formale del suo predecessore Seven. Si mantiene comunque un titolo validissimo, che non sente per nulla il peso dei suoi ormai quindici anni. 

VOTO: 7.50/10 

lunedì 21 aprile 2014

Ichi the killer



Ichi the killer di Takashi Miike - Genere: thriller - Giappone, 2001

Takashi Mike è senza dubbio uno dei registi più controversi della cinematografia giapponese e, per alcuni suoi titoli importanti come Audition, pure uno degli interpreti più interessanti della contemporaneità. Ichi the killer è forse uno dei suoi film più noti; non particolarmente apprezzato dalla critica per motivi in parte condivisibili, la pellicola è presto diventata un vero e proprio prodotto di culto entro cerchie ben determinate di fans. Opera fondamentale per comprendere la poetica del regista e il suo rapporto alle cose, oltre che il suo modo di tratteggiare elementi fondamentali dell'animo umano, Ichi è utile addirittura per gettare luce su scelte apparentemente fuori registro della sua filmografia, come il già recensito Yattaman

Delirio ultrapop di una mente apparentemente malata, Ichi propone una struttura diegetica abbastanza tradizionale che si inscrive agevolmente nell'ambito del noir contemporaneo, una crime story di Yakuza che apparentemente potrebbe non avere troppo da dire: il rapimento di un capo mafioso dà il via a uno sviluppo drammatico che in realtà, pur mantenendo una salda compattezza narrativa, si arricchisce di tanti "piccoli" elementi incongruenti che ne costituiscono la fortuna. Il film è talmente gonfio di assurdità apparentemente convenzionali che a mio avviso illumina magistralmente quello strano gusto dei giapponesi per l'assurdo (e che è poi uno dei motivi per cui, almeno un certo loro cinema, o lo si ama o lo si odia; Mike ne è un classico esempio).

Solo a partire da questa considerazione si possono comprendere meglio e forse completamente tutte le sequenze ultraviolente che hanno contribuito a inserire il film nella classifica dei cinquanta titoli più disturbanti stilata da un noto sito di cultura popolare. Una tecnica registica praticamente magistrale si associa così a scene di tortura spinte sino al parossismo e a un gusto per il grottesco e l'atto dello smembramento che spesso supera il limite di sopportazione dello spettatore medio; a tutto ciò si aggiunge poi, integrandosi in maniera inaspettata ma del tutto naturale la sequela di piccole infiorettature pseudocomiche che costituiscono la cifra fondamentale, il gusto autentico del film. 

Nel complesso si tratta di un film molto bello dal mio punto di vista, anche se sono propenso a condividere alcune critiche dei più; di certo non si tratta di un lavoro che consiglierei a tutti. Bisogna essere abbastanza forti da accettare, nel giro di pochi secondi, di passare da un sorriso alla comprensione della grande tragicità sottocutanea che scorre ostinatamente lungo tutto il film, rivelando un lato esistenzialista che a prima vista si potrebbe non cogliere.

VOTO: 8/10 

domenica 20 aprile 2014

Sinister



Sinister di Scott Derrickson - Genere: horror - USA, 2012

L'analisi di Sinister, film partorito dal genio creativo di Scott Derrickson (regista di non più di una manciata di film, fra cui l'improponibile Hellraiser 5 e il certamente più riuscito L'esorcismo di Emily Rose), conferma una delle tendenze condivise dal cinema contemporaneo sotto il profilo commerciale, che si applica soprattutto nel caso del cinema horror/thriller (oggi giorno la demarcazione mi sembra diventata molto sfumata...). Mi riferisco all'idea per cui un prodotto di successo (ovviamente al botteghino, non alludo alla qualità estetica!), debba dettare legge per gli anni a venire. Nel caso in esame  è singolare notare come i produttori siano gli stessi di Insidious, film dal quale Sinister copia in maniera evidente tanto l'impostazione drammatica quanto parte dei topoi. Si dirà che questo si è sempre fatto, ed  è assolutamente vero. Ma se negli anni Settanta/Ottanta i filoni di film-cloni nascevano da prodotti abbastanza validi sotto il profilo tecnico, nel nostro caso la situazione è ben diversa; già Insidious infatti era quello che si potrebbe tranquillamente definire un film di bassa lega. 

A partire dall'ormai trita e ritrita idea della casa infestata, Derrickson mette in piedi una trama debole che arriva a scomodare addirittura antiche divinità babilonesi, palesatesi nel nostro secolo con sembianze piuttosto ridicole. Al di là della assoluta inconsistenza dell'intreccio, però, bisogna dire che qualche merito il film ce l'ha, soprattutto sotto il profilo visivo. La regia è decisamente buona e l'impaginazione delle immagini è ben studiata e interessante; inoltre, questo è poi l'aspetto che mi pare più importante, Derrickson tenta di proporre, nelle sequenze in cui il suo protagonista visiona i misteriosi Super8 trovati in soffitta, alcune riflessioni di carattere metacinematografico. Il risultato è senza dubbio non centratissimo, ma lo sforzo è certamente apprezzabile, soprattutto di questi tempi. 

Ethan Hawke, attore di lunga carriera già visto ne La notte del giudizio, si trova qui costretto a interpretare la parte assolutamente stereotipica dello scrittore in fallimento col pallino per gli omicidi che, proprio guardando le immagini (à la Blow out, potremmo dire se non temessimo di stare formulando un'eresia), scopre l'intrigo del sopraccitato demone mesopotamico. Peccato che il suo ruolo lo costringa a recitare in una maniera assolutamente piatta e decisamente poco convincente. Sinister, insomma, è un film che non convince, al di là di alcuni innegabili meriti tecnici sotto il profilo della regia e della fotografia. I toni trionfalistici col quale la critica non professionistica (leggasi il pubblico) lo hanno accolto, sono decisamente fuori luogo. 

VOTO: 5/10 

giovedì 17 aprile 2014

La sottile linea rossa



La sottile linea rossa di Terence Malick - Genere: drammatico/guerra - USA, 1998

Malick è un regista nei confronti del quale ho difficili problemi di rapporto e non mi vergogno certo a riconoscerlo. Di più, posso dire tranquillamente che, per quelli che sono i miei gusti e in base a quello che cerco dal cinema, lui di certo non mi piace e non è uno dei registi che apprezzo in senso assoluto, soprattutto considerando l'impressione abbastanza negativa (The tree of life) o molto negativa (To the wonder) che mi hanno fatto i suoi ultimi film. Probabilmente si tratta di un mio limite e su questo ovviamente si può discutere, ma tant'è. Ero molto scettico dunque quando ho deciso di prendere in mano questo La sottile linea rossa, film arrivato in Italia quasi parallelamente al forse più noto film spielbergeano Salvate il soldato Ryan, il quale senza dubbio costituisce un esempio solo mediocre di come si possa realizzare un film sulla guerra. Ero intimorito dalla durata colossale dell'opera, lunga quasi tre ore, e i miei trascorsi con Malick non mi lasciavano ben sperare. Fortunatamente, posso ammettere in tutta tranquillità, che questo film è veramente ben fatto e mi ha molto colpito (anche se questo, va da sé, non modifica la mia opinione sul regista o sui suoi ultimi titoli). 

Preciso subito: personalmente credo che ci troviamo di fronte a un lavoro del quale si potrebbe parlare per ore, confrontandosi su argomenti molteplici, come l'appartenenza di genere; io stesso sono restio a classificarlo primamente come film di guerra, ma le generalizzazioni a volte aiutano e sono comunque una indicazione fondamentale per il pubblico. Come mi è capitato di fare più volte con film particolarmente complessi, mi limiterò a gettare qualche elemento interessante, senza pretese di completezza o sistematicità; senza dubbio si tratta di una visione che merita di essere fatta. 

Al di là di una regia che, come sempre in Malick (e questa è la parte migliore dei suoi ultimi film) è attentissima e dal punto di vista della fotografia è probabilmente insuperabile in quanto a bellezza e pulizia, il grande merito che dev'essere tributato al regista de La sottile linea rossa è relativo alla sua grande capacità di non ridurre il tema bellico a una sequela di combattimenti infarciti di una retorica stanca e troppo spesso manichea (come nel caso del buon Spielberg). Durante il racconto, non per questo meno crudo, della conquista da parte dell'esercito americano di una posizione strategica in Oceania nella Seconda Guerra mondiale, Malick riesce a ritagliare uno spazio concreto per divagazioni (nel senso più alto del termine) di una voce speculativa che si trova a riflettere su problemi ontologici o comunque smaccatamente filosofici. Questo fa in modo che il film possa elevarsi e assumere un tono speculativo che coinvolge tutti i personaggi, interpretati, in maniera sempre apprezzabile, da un cast importante dove si contano vari nomi del cinema di un certo livello di oggi e dell'immediato passato. 

Ho detto personaggi, perché proprio per evitare i facili eroicismi della guerra (soprattutto della Holy War del 1939-45), Malick sembra rigettare l'idea di uno o più protagonisti e affida il suo lavoro a una conduzione corale che snocciola, domanda dopo domanda, un poema drammatico e toccante che esula dalla guerra e finisce col parlarci profondamente della nostra condizione come esseri viventi. 

VOTO: 8/10