giovedì 5 giugno 2014

Dolls



Dolls di Takeshi Kitano - Genere: drammatico - Giappone, 2002

Negli ultimi due mesi circa, per ragioni strettamente legate all'università, mi sono trovato ad approfondire la filmografia di Takeshi Kitano, del quale avevo visto molto poco e che non ero riuscito a digerire completamente, a fronte di un indiscusso talento registico e di messa in scena. Violent Cop, ad esempio, si era fatto apprezzare per l'idea di fondo e per il crudo sarcasmo di alcune sue scelte, ma manifestava uno stile ancora troppo impreciso per dare l'idea del grande autore che Kitano senza dubbio è. Dolls, film in concorso a Venezia 2002, ha spazzato via tutti i miei dubbi residui derivanti dalla visione dei titoli che già conoscevo e mi ha confermato, con la forza del suo stile e delle sue scelte, la grandezza del cineasta giapponese.

Entro la cornice di un tradizionale spettacolo di Bunraku (una sorta di equivalente delle marionette occidentali), Kitano incrocia tre vicende diverse, accomunate dalla loro profonda drammaticità. Si tratta di tree linee narrative che, per quanto del tutto indipendenti, si troveranno a intrecciarsi spesso l'una con l'altra in una maniera assolutamente splendida (e splendidamente resa dalla regia sempre elegante di Kitano). Attorno al vacuo peregrinare di due giovani amanti legati da una corda rossa (immagine quasi senza tempo per la icasticità e la sua forza visiva, che diventa ancora più pregnante se si considerano le motivazioni di questo accadere), si collegano il languido ritorno di un capo yakuza (soggetto prediletto di Kitano) su una panchina dove la donna che amava lo ha atteso per tutta la vita e la patetica vicenda del rapporto fra una pop star e un suo grande fan. Utilizzando un montaggio che oscilla continuamente sui piani temporali e ricompone poi le sequenze narrative in un quadro sempre credibile ed estremamente agile, Kitano confeziona un prodotto di grande pregio che riesce a toccare senza essere stucchevole.

Abitato da un pessimismo estremo sull'esito delle vicende raccontate, meraviglioso per la sua bellezza autoreferenziale (che forse si traduce in un leggero vento d'accademismo? E' possibile, ma i pregi sono senza dubbio superiori nel bilancio complessivo), Dolls è un film che non può non rimanere impresso per la forza delle sue immagini e l'evocatività della sua scrittura. 

VOTO: 8/10 

martedì 27 maggio 2014

Oculus



Oculus di Mike Flangan - Genere: horror - USA, 2013

Devo ammettere che quando ho cominciato a sentire il trailer di questo film in radio, mi è sembrato subito una grande presa in giro, l'ormai classico film horror d'ascendenza paranormale che probabilmente avrebbe deluso più o meno tutti. Poi, per qualche settimana, non mi è più capitato di sentirne parlare se non da uno youtuber piuttosto noto che per l'appunto ne tesseva gli elogi e si dichiarava stupito di come il risultato finale lo avesse ben impressionato. Così, quando dopo qualche tempo, mi è capitato di poterlo vedere, ho deciso di accantonare i miei pregiudizi e di gettarmi nella visione di questo lungometraggio di Mike Flangan (regista di cui - ammetto - non avevo mai sentito nulla; girando su internet però mi pare che questo non sia solo un mio limite). Per una volta, pur in presenza di un prodotto di genere che sembrava decisamente poco promettente, posso dire non senza soddisfazione di essere rimasto piacevolmente colpito dalla proiezione di Oculus.

Contro ogni aspettativa, almeno per quanto mi riguarda, la scrittura è molto valida e anche dal punto di vista tecnico i risultati raggiunti sono notevoli. Per quanto riguarda il primo aspetto Oculus propone una narrazione articolata su due livelli temporali che si richiamano continuamente l'uno con l'altro, permettendo un passaggio molto efficace e fortemente evocativo dal livello del ricordo a quello dell'esperienza dei protagonisti. Questo ecamotage, al di là di un prologo piuttosto nebuloso che non permette di comprendere a pieno la vicenda (ma che pure non fonda in maniera forte il meccanismo della suspense), dà per tutta la pellicola buoni risultati e mantiene viva l'attenzione per una vicenda altrimenti certo non originalissima. Il tutto si traduce dal punto di vista compositivo in un uso sbrigliatissimo e quasi ipercinetico del montaggio, che diventa il mezzo privilegiato per passare in maniera fluida e capace attraverso i piani temporali coinvolti. L'uso intelligente di questo mezzo salva anche in questo caso una fotografia e una composizione non certo imperdibili e di questi tempi è già un risultato da considerare.

Nel complesso Oculus è un film di genere ben fatto che, pur non avendo elevatissime pretese, fa il suo lavoro e intrattiene efficacemente con un buon ritmo e un interessante comparto tecnico. Se si volesse continuare su questa strada è probabile che per migliorare si dovrebbero scegliere sceneggiature meno inflazionate e spingere ancora di più sul lato visivo, arrivando a lambire i confini della sperimentazione.

VOTO: 6/10 

lunedì 26 maggio 2014

Django



Django di Sergio Cobucci - Genere: western - Italia, Spagna, 1966

Chi mi conosce sa che il western è senza dubbio il genere cinematografico che amo (e conosco meno). Questo per svariati motivi, sia personali (non mi attrae e lo trovo piuttosto noioso di norma), sia storici (mi sembra che non sia un genere più attuale; come ho sentito recentemente a una conferenza interessante il western è un genere che - almeno nella sua declinazione canonica - è morto da tempo). Quindi fino ad ora non solo ho visto pochissimi film di questo tipo, ma non ne ho mai recensito uno su questo blog. Non mi dispiace interrompere questa comunque disdicevole tradizione (dopotutto è sempre una fetta - peraltro importante - di storia del cinema) con un film come Django. Avendo recentemente visto il film di Tarantino che in un certo qual modo riprende il lavoro di Cobucci, mi sembrava doveroso andare a ripescare anche questo titolo di genere dai meandri della filmografia italiana. 

Django, interpretato da un Franco Nero incredibile, è stato poi un personaggio di grandissima fortuna all'interno dell'immaginario collettivo e ha dato origine a una serie di seguiti e adattamenti che hanno toccato addirittura l'estremo Oriente grazie all'opera di quel mezzo genio di Takashi Miike. Voglio precisare sin da subito che il film mi è piaciuto molto, l'ho trovato parecchio divertente e piacevole; per certi versi, pur se sotto due profili diversi, l'ho anche preferito al Django unchained di Quentin Tarantino, al quale ho già avuto modo di muovere diverse critiche nella sua recensione. Al di là di questo però è bene riconoscere che se l'autentico talento tarantiniano, sviluppatosi con il cinema italiano e con quello di genere, non avesse fatto uscire dal dimenticatoio l'opera di Cobucci, molti giovanissimi come me non l'avrebbero mai conosciuta. Questo perché a conti fatti si tratta di un titolo piuttosto dozzinale, con diversi problemi e qualche pregio; un prodotto eminentemente commerciale e di intrattenimento sul quale Tarantino, al di là della riuscita finale, è comunque riuscito a fare un discorso bello e interessante.

Django è un film che mi sento di consigliare un po' a tutti, perché l'assurdità cinica dei suoi dialoghi, di alcune situazioni (la famosa scena della sparatoria con la mitragliatrice) e di qualche sequenza in particolare (come il "duello finale" nel cimitero) lo rendono un lavoro del tutto godibile anche ai neofiti del genere o a chi non lo ama particolarmente come me. Certo è necessario sottolineare con forza che Django è un tipo di western diverso, nato dall'appendice dello Spaghetti western e che per giunta ha caratteristiche peculiari anche in seno a quel bacino. Siamo ben lontani dal western classico alla Ford, per intenderci.

VOTO: 6.50/10 

sabato 24 maggio 2014

La mosca



La mosca di David Cronenberg - Genere: fantascienza/horror - USA, 1986

Remake de L'esperimento del dottor K e indiscusso capolavoro diretto dal genio visionario di David Cronenberg, La mosca è uno dei film più amati del regista canadese e i motivi che giustificano questa passione cinefila sono molteplici. Il più scontato è senza dubbio quello relativo agli effetti speciali, premiati con l'Oscar al miglior trucco nel 1986: Walas e Dupuis (che lavoreranno ancora con Cronenberg in diversi film successivi), sono infatti riusciti a confezionare un prodotto assolutamente straordinario, che racconta la degenerazione di Brundle con una apticità assolutamente fuori dal comune. Raggiungendo un effetto simile a quello di Carpenter ne La Cosa, il make-up de La mosca riesce a rendere concrete e quasi tattili le immagini del film; da questo punto di vista è emblematica la scena in cui Brundle, accorgendosi delle prime preoccupanti mutazioni del suo aspetto, si stacca le unghie delle dita, lasciando scoperta la carne viva e sgocciolante. Le sequenze del genere sono molteplici e non è questa la sede di citarle tutte, ma bisogna rendere merito a un lavoro che ha sicuramente influito fortemente, forse in misura preponderante, alla riuscita del film.

Questo non faccia pensare, però, che la firma di Cronenberg non si percepisca. Tutt'altro: l'intera pellicola, che riesce a fondere perfettamente caratteristiche di genere e riflessione speculativa, è permeata di quell'estetica che ha reso celebre il cineasta, in particolare per quello che riguarda il trattamento e la messa in mostra del corpo nella sua natura squadernata e scomposta (vedasi la scena della primissima sperimentazione della telecapsula su un animale). Questo perché nell'86 Cronenberg aveva già prodotto alcuni film fondamentali, fra cui il capolavoro Videodrome, che avevano messo bene in evidenza le tematiche più care all'autore, che nel caso specifico si declinano forse in un senso più prevedibile e meno elevato ma che rimangono comunque di sicuro impatto. 

L'opera, straordinaria nelle sue caratteristiche, è riuscita a permeare di sé una buona parte della cultura visuale e più genericamente pop successiva, garantendosi il titolo di vera e propria opera di culto. Probabilmente per questo motivo venne prodotto anche l'indecente La mosca 2, ovviamente non firmato da Cronenberg e che prevedibilmente non è riuscito a bissare il successo del capostipite. Personalmente l'ho trovato un film davvero riuscito, anche se meno teoreticamente solido di quanto non lo fosse un Videodrome.

VOTO: 8/10 

giovedì 22 maggio 2014

Tom à la ferme



Tom à la ferme di Xavier Dolan - Genere: thriller/drammatico - Canada, Francia, 2013


L’uscita in DVD del film presentato dal giovane canadese Xavier Dolan alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia è un evento di grande importanza per tutti coloro che non hanno potuto essere al Lido in quelle magiche giornate. Al di là di un discorso che sarebbe necessario fare sulla necessità di realizzare delle edizioni italiane delle pellicole di Dolan, la diffusione sul circuito commerciale di Tom à la ferme non può che riaccendere la volontà di analizzare la pellicola criticamente ed esteticamente, così come la necessità di considerarla all’interno del progressivamente più consistente corpus dolaniano.
Che Dolan sia interessato all’analisi attenta e spesso tagliente delle relazioni umane e sentimentali all’interno di uno scenario contemporaneo sempre tratteggiato con padronanza di mezzi ed eleganza è fuori di dubbio. Tom à la ferme da questo punto di vista si presenta come una conferma e una messa in movimento delle scelte di scrittura a cui eravamo stati abituati: se da una parte è vero che rimane centrale il confronto con la figura materna (che, sin dal titolo, pare rimanere tale anche in Mommy, in questi giorni a Cannes), del tutto inedita è la tematica del lutto e della resilienza post-traumatica a cui Tom si sottopone penetrando all’interno della vita della famiglia del suo defunto compagno. È probabilmente in queste scene d’interno, dove i dialoghi si fanno pregnanti e drammatici che, aiutato da una composizione impeccabile e quasi pittorica per la scelta di alcuni toni cromatici, il film raggiunge i suoi punti migliori. Per quanto Dolan sia senza dubbio un buon attore, sotto questo profilo la performance di Lise Roy rimane toccante e assolutamente impareggiabile.
Anche la costruzione del personaggio di Francis (Pierre Yves-Cardinal) manifesta uno studio attento e preciso, che sullo schermo riesce a regalare un uomo perfettamente rappresentato nelle sue ipocrisie e paure; Francis è in ultima analisi un personaggio di una fragilità senza dubbio fastidiosa, ma necessaria allo sviluppo della vicenda. Meno riuscito, forse a causa di una volontà di suggerire più che di definire certi dettagli, è invece il succedersi dei comportamenti di Tom nei confronti del suo antagonista/oggetto del desiderio, che si altalenano in modo spesso scomposto e senza uno sviluppo preciso: questo rende le sequenze di Tom e Francis spesso poco legate, ma comunque di sicuro impatto (da questo punto di vista la scena del tango è magistrale sia nell’orchestrazione che nella capacità di muovere lo spettatore).
Ancora una volta Dolan cade, almeno parzialmente, nel finale. Per quanto il film sia molto più breve del precedente Lawrence Anyways, l’ultima sequenza precipita dell’aneddoto, palesando quella che fino a quel momento era rimasta semplicemente una storia implicita e per questo molto più affascinante. Al di là di questi dettagli però, anche per il coraggio e la capacità di aver saputo raccontare un thriller a tematica omosessuale con una maestria fuori dal comune, Tom à la ferme è senza dubbio un film che merita di essere visto e apprezzato come segno di una giovane generazione che avanza a grandi passi verso le vette di un riconoscimento internazionale. 
VOTO: 8.50/10 

mercoledì 21 maggio 2014

La stirpe del Male



La stirpe del Male di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett - Genere: horror - USA, 2014
 
Ho precisato con una certa forza della recensione di Cloverfield appena pubblicata come io trovi tutto sommato piuttosto fastidioso il ricorso insistente e poco ragionato allo stile mockumentary con camera a mano. Molto spesso infatti, per riprendere il filo del discorso, capita che questa scelta si riveli soltanto un adeguamento alla moda del momento e non si porti dietro nessuna forma di ragionamento sulla natura dell'immagine. Per intenderci, secondo me è travisante e sbagliato considerare la ripresa amatoriale come una cornice neutra da appiccicare all'immagine: se si fa una scelta di questo tipo la si deve portare fino in fondo, agendo sul supporto dell'immagine stessa e usandola come sito di un'azione attiva. Se già in Cloverfield il risultato mi era parso tutto sommato semplicistico e poco studiato, La stirpe del Male è - da questo punto di vista - un autentico disastro.
 
Per quanto la giustificazione della camera a mano sia più plausibile di quanto non accada nel film sopraccitato, il risultato è di una banalità sconfortante. Ne consegue un film che non si prende la briga di abbracciare nessuno stile e fa della telecamera amatoriale un oggetto privo di qualsiasi identità, che serve solo a marcare uno stile (à la R.E.C.), che in realtà viene costantemente negato dallo sviluppo stesso del film. Questo, torno a ripeterlo, tradisce una assoluta incapacità di ragionare sull'immagine e traduce la scelta in un mero espediente commerciale. Se il problema de La stirpe del Male fosse solo questo, il risultato complessivo sarebbe certo insufficiente ma più o meno assimilabile a Cloverfield. Purtroppo, le difficoltà non si limitano a questo punto e permeano l'intero prodotto degli esordienti (?) registi americani.
 
La trama ripete senza troppe variazioni quella di Rosemary's baby, semplificandola di tutte le problematizzazioni così innovative che Polanski aveva saputo dare alla sua opera. Appiattendo completamente tutti i personaggi ci si sarebbe potuti aspettare quantomeno una successione di scene truculente, che però sono state sistematicamente evitate; mi spiego: anche Polanski sceglie di non scadere nel grottesco e nel suo caso è una linea vincente. La coppia Bettinelli-Gillett invece non intraprende nessun percorso di sviluppo della trama, che rimane ancorata a un blando intreccio piuttosto scontato.
 
La stirpe del Male è dunque un film assolutamente sconsigliato, senza fantasia e privo di qualsiasi elemento interessante. Uno dei molti, moltissimi titoli che purtroppo ammorbano le nostre sale.
 
VOTO: 2/10 

martedì 20 maggio 2014

Cloverfield



Cloverfield di Matt Reeves - Genere: fantascienza - USA, 2008

Penso di aver perso il conto dei film a soggetto catastrofico che negli ultimi sei o sette anni hanno invaso le nostre sale cinematografiche. Al di là del fatto che senza dubbio questa diffusione di una tendenza comune e non unicamente statunitense rappresenta un segno dei tempi, di una prima decade del XXI secolo che si è rivelata, sin da subito, strettamente legata al tema della distruzione di massa, al rischio dell'annientamento inaspettato. La locandina di Cloverfield, film campione d'incassi del 2008, potrebbe tranquillamente sembrare un'immagine post-undici Settembre, magari immaginando il caso in cui le conseguenze avrebbero potuto essere più elevate e importanti. Ma come è noto, spesso i film vincenti al botteghino, al di là di un evidente interesse sociologico (perché il film è piaciuto così tanto? quali corde tocca nella nostra contemporaneità?), spesso sono piuttosto carenti dal punto di vista dell'appeal tecnico ed estetico. Questo per me, al di là di alcune recensioni positive, è il caso in esame.

Al di là di una trama piuttosto scontata - dopotutto non mi aspettavo niente di diverso da un film di questo genere - in particolare mi hanno infastidito due cose: la costruzione dei personaggi e lo stile di regia. Preciso subito invece che gli effetti speciali sono molto validi, soprattutto per quanto riguarda i misteriosi invasori che mettono a ferro e fuoco New York. Dunque, per quanto riguarda la costruzione dei personaggi, non posso dire che in generale si tratti di una scelta sbagliata, ma di una completa mancanza di iniziativa: mi spiego; in tutti i film di questo tipo, a partire almeno dai pieni anni Novanta, quasi tutti i personaggi sono costruiti nello stesso modo. Ce lo conferma il fastidioso eroismo del protagonista, ennesima riproposizione di un modello piuttosto stantio di uomo americano medio (già fastidioso ai tempi de La guerra dei mondi, per quanto mi riguarda). Si potrebbe anche dire che il finale garantisce un certo margine di originalità, ma se si scava un po' nella filmografia degli ultimi anni si scoprirà che non si tratta di qualcosa di così innovativo, anzi di piuttosto inflazionato per i miei gusti.

Per quanto concerne lo stile, è ormai piuttosto noto che la ripresa con camera a mano per me è diventata un insopportabile cliché del cinema contemporaneo. Intendiamoci: a partire da Paranormal Activity, ma con importanti prodromi, si usa praticamente qualsiasi scusa per inserire a forza nei film la scusa della videocamera e poi tutto il film viene ripreso in soggettiva. La cosa può anche essere accettabile, ma solo nel caso in cui la compenetrazione fra cinema e videoripresa sia completa, come accadeva già in The Blair witch project. Questo invece non è il caso: la ripresa a mano diventa una semplice cornice appiccicata a forza e senza nessuna problematicità sulla macchina da presa, il che testimonia una grave mancanza di attenzione a un dettaglio certo non marginale.

Nel complesso per quanto mi riguarda siamo di fronte a un film che, per quanto non assolutamente disdicevole, presenta dei gravi difetti di sviluppo teorico. Considerando però la buona fattura del settore di intrattenimento, mi sento di consigliarlo in ogni caso a chi cerca una visione all'insegna del disimpegno; sotto questo profilo la resa è garantita.

VOTO: 4/10 

lunedì 19 maggio 2014

Una commedia sexy in una notte di mezza Estate



Una commedia sexy in una notte di mezza Estate di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1982

Il genio creativo di Woody Allen è sempre stato molto, forse troppo prolifico: la sua filmografia è sterminata e in quest'ultimo periodo è riuscito a proporre un film all'anno fino al suo ultimo Blue Jasmine, premio Oscar di quest'anno. Già nel 1982, comunque, Una commedia sexy in una notte di mezza Estate veniva girato addirittura in contemporanea al già recensito Zelig, a riprova che il desiderio cinematografico di Allen spesso sconfina - mi pare - con la patologia. Comunque mi pare ormai risaputo che io apprezzo particolarmente questa "prima" fase della produzione alleniana e tendo a ritenere gli ultimi lavori un po' meno riusciti (ma non ho ancora visto l'ultimo, quindi la partita è ben aperta!). E' quindi con un po' di delusione che devo ammettere che il qui presente film, primo del sodalizio con la Farrow, sempre e comunque splendida, non è riuscito a conquistarmi come gli altri. 

Ho amato film come Prendi i soldi e scappa per il loro sapore sagacemente assurdo, umoristico fino al parossismo e debitore quasi dell'eredità screwball. Allo stesso tempo ho saputo apprezzare i grandi capolavori della seconda metà degli anni Settanta (Io e Annie e Manhattan - per me il migliore) per il disincantato cinismo, più sofisticato e intriso di una profonda capacità d'analisi dell'animo umano. Una commedia sexy, invece, pur mantenendo inalterati alcuni degli elementi che hanno fatto grande lo stile di Allen, come la ripresa a volte quasi decostruttiva dell'eredità bergmaniana, mi sembra un prodotto insipido e privo dell'autosufficienza degli altri titoli. Pur rimanendo in presenza di un prodotto tutto sommato gradevole, con delle indubbie qualità, il risultato complessivo non mi convince.

A partire da un intreccio piuttosto classico, che più che altrove si palesa debitore della grande stagione della commedia all'americana, l'intreccio si sviluppa attorno a una successione peraltro piuttosto lineare di equivoci e occasioni mancate, sempre sotto il segno dell'erotismo ma con la mancanza quasi completa di quella freschezza e agilità inventiva che ha fatto di Allen ciò che è. Anche il carattere allegramente nevrotico dei suoi personaggi e in particolare del suo alter-ego, un bizzarro inventore, risulta in fin dei conti notevolmente ridimensionato e tanto basta a tarpare le ali al frizzate umorismo che tanto mi ha fatto amare questo autore. Risollevano in parte il giudizio alcuni piccoli dettagli, come le gustose citazioni metacinematografiche che strizzano l'occhio, per nulla sottilmente, alla tradizione della lanterna magica. Un Allen piuttosto deludente, ma in fin dei conti ancora godibile.

VOTO: 6/10 

domenica 18 maggio 2014

Intruders



Intruders di Juan Carlos Fresnadillo - Genere: thriller/horror - Spagna, Regno Unito, 2011

Dopo aver diretto il non completamente riuscito sequel di 28 giorni dopo, Fresnadillo si è preso quattro anni di pausa, prima di tornare sulle scene con Intruders, film snobbato dai cinema italiani e giunto nel belpaese soltanto attraverso la distribuzione DVD. Per fortuna; sì perché il film - fiasco colossale costato 13 milioni di dollari e che ne ha incassati solo 3 in tutto il mondo - si presenta sin da subito come l'ennesimo film situato al crocevia di diversi generi che, pur con qualche idea interessante, finisce col risultare anonimo e poco studiato. In questo caso, la presenza fantasmatica di "Senzafaccia", essere inquietante che si muove piuttosto agilmente fra i due piani della narrazione (che, sul finale, si ricongiungeranno), regala al film un atmosfera piuttosto strana, sospesa fra il thriller, l'horror psicologico, l'horror di possessione, sconfinando pericolosamente perfino nei territori dello sci-fi. Questo, come solitamente accade, diventa il simbolo di una elevata sterilità creativa, o il segno tangibile dell'incapacità del regista di far prendere al suo lavoro una strada ben precisa. 

Pur non essendo a mio avviso particolarmente spiacevole sotto il profilo visivo, Intruders sceglie anche in questo caso la via della sicurezza, rifiutando di osare e proponendosi dal punto di vista tecnico come un film piuttosto anonimo quando non scolastico. Forse dieci anni fa questo non sarebbe stato necessariamente un male, ma considerando la quantità di prodotti che vengono riversati costantemente sul mercato e la pregnanza di alcune scelte estetiche sviluppate negli ultimi anni, nonché le condizioni dell'offerta e della fruizione attuali, mi pare che sia sempre necessario giocare le proprie carte con coraggio, rischiando di intraprendere anche una strada sbagliata. Nel caso di Intruders invece, i personaggi si ripiegano su ruoli ben consolidati della tradizione statunitense, a cui evidentemente Fresnadillo è molto debitore (Clive Owen in particolare è l'ennesimo mimo di una specie di personaggi partoriti a partire dal già non originalissimo Willis de Il sesto senso). 

Complessivamente, per il mio gusto, un film assolutamente senza sapore che pur non essendo completamente sbagliato risulta perdente sotto ogni punto di vista per la mancanza di un qualsiasi timbro stilistico. 

VOTO: 4/10 

venerdì 16 maggio 2014

Fargo



Fargo di Joel e Ethan Coen - Genere: thriller - USA, 1996

Fargo è senza dubbio uno dei film più noti dei fratelli Coen, osannato dalla critica e apprezzatissimo dal pubblico, si è aggiudicato (giustamente) un premio alla miglior regia al Festival di Cannes e ben due premi Oscar. La forza del film, che mi è decisamente piaciuto anche se devo ammetterlo non mi ha conquistato completamente, sta nel fatto di essere assolutamente innovativo per l'epoca, con una capacità straordinaria di precorrere i tempi, che si esprime nella libertà di alcune scelte registiche e nella complessità della sceneggiatura, firmata dai registi medesimi. William Macy (da me già apprezzato nei panni di Arbogast nel remake vansantiano di Psycho), ad esempio, interpreta un personaggio di una complessità e bellezza disarmanti, un vinto assoluto che ordisce suo malgrado la catena di eventi che si sviluppano nel film a partire da un motore per la verità piuttosto banale. Sì, perché Fargo riesce a reggersi magistralmente su un registro che, pur impreziosito dalla capacità registica e dalle ottime performance, non esorbita di troppo dal canovaccio standard del thriller medio. 

Se tutto si limitasse a questo però potremmo facilmente dimenticarci di questo film, per quanto apprezzabile. Mi pare invece che la sua grande caratteristica sia quella di non prendersi troppo sul serio, vale a dire di offrire tutta una serie di situazioni paradossali o perfino umoristiche, perfettamente cucite all'interno della trama degli eventi. Ad esempio la grottesca fuga della signora Lundegaard nel bianco algido delle spianate del Minnesota, dove la poverina si ritrova a rantolare in preda al panico, è completamente assurda e allo stesso tempo geniale. L'incongruenza ricercata di questi siparietti mi pare che prema sui margini della struttura e la apra inaspettatamente a dei piccoli lampi di genio, che costituiscono la vera e propria cifra di questa pellicola.

Il risultato complessivo è dunque doppiamente interessante, perché Fargo riesce a presentarsi come un film apparentemente conservatore, rassicurante e familiare, ma al tempo stesso a imporsi per la forza di alcune scelte particolarmente felici da molteplici punti di vista. Tutto sommato un film che mi sembra doveroso consigliare per il suo essere bello e divertente, anche se mi duole ammettere che non rientra nel novero delle pellicole che mi porto nel cuore.

VOTO: 7.50/10