domenica 29 settembre 2013

Evangelion 3.0: You can (not) redo



Evangelion 3.0: You can (not) redo - Genere: animazione - Giappone, 2012


A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, è indubitabile che nell’educazione e nella formazione della cultura visuale dei bambini e dei ragazzi, una parte progressivamente crescente sia stata condizionata dalla visione dei prodotti di animazione giapponese, proposti principalmente sulle reti private del gruppo Mediaset e su alcuni canali secondari (la RAI sembra non aver quasi mai ritenuto opportuno questo genere di contenuto per il proprio palinsesto). Si tratta di una tendenza che a partire dagli anni Duemila si è progressivamente invertita, anche per l’appiattimento dell’offerta e della qualità dei prodotti. Il punto di svolta di questo processo dunque, l’apogeo di una tendenza ormai in dissoluzione, è da rintracciarsi fra la fine degli anni Novanta e i primi anni del XXI secolo. Non è un caso allora che proprio in quel periodo, MTV (emittente musicale che proponeva un insieme di serie animate ignorate dalle altre reti) avesse cominciato a trasmettere Neon Genenis: Evangelion. Il ritorno al cinema della serie con la tetralogia Rebuild of Evangelion, arrivata in questi giorni al terzo episodio (Evangelion 3.0: You can (not) redo) ha quindi smosso le fasce di fan che aspettavano l’uscita del titolo, quelle stesse che l’11 Settembre del 2001 (data ancor più emblematica per un cartone animato denso di escatologia), erano pronti a sintonizzarsi su MTV.

Evangelion 3.0, a differenza dei due precedenti lavori di Rebuild, non si preoccupa di riscrivere la vicenda narrata nella pur non eccessivamente prolissa serie televisiva, se non in piccola parte. La vicenda è infatti quasi completamente nuova, non fosse che per alcuni dettagli contingenti e per la presenza di quella chiave di volta che è Kaworu Nagisa, personaggio molto sacrificato dall’anime che riesce a trovare una dignità maggiore in questa occasione, anche se la natura del suo ambiguo rapporto con il protagonista Shinji non riesce ad emergere con la stessa incisiva chiarezza che aveva nel manga originale.

Il mondo di 3.0 è devastato da un’apocalisse causata, pure in maniera involontaria, proprio da quello Shinji Ikari che avrebbe dovuto sventarla, pilotando le unità EVA cui si fa cenno nel titolo. Lo scontro con gli Angeli, nemici tradizionali delle puntate dell’anime, dal nome biblico e dalle oscure facoltà, viene completamente messo da parte per quasi tutta la durata della pellicola e un’attenzione molto maggiore viene data a quegli elementi che, pur costituendo il fascino di Evangelion erano rimasti avvolti nel mistero (le vere intenzioni della NERV, i piani della SELEE, la natura di Rey Hayanami, il rapporto fra l’unità EVA01 e la madre di Shinji). La conseguenza di questa profonda riscrittura narrativa è una gestione diversa dei personaggi, che vengono profondamente mutati e per lo spettatore affezionato risultano in alcuni casi quasi irriconoscibili; questo è il caso, ad esempio, di Misato Katsuragi, che perde del tutto la vena divertente e spiritosa che faceva da contraltare alla sua sempre lucida riflessione sulla difficile posizione che era chiamata a ricoprire.



Un altro motivo di perplessità potrebbe risiedere nella difficoltà di gestire i rapporti fra questo episodio della tetralogia e le puntate della serie originale, anche considerando il lungometraggio End of Evangelion. In particolare You can (not) redo pone delle problematiche di plausibilità di non facile risoluzione se si considera che esso è in tutto e per tutto incompatibile con la conclusione dell’anime e con questo evidenziato nel film sopraccitato. Si apre dunque un ulteriore universo di possibilità, anche più drammatico almeno per quanto è stato possibile vedere sino a questo momento. Stante questo è evidente che l’attesa per il quarto e ultimo capitolo di questa riscrittura cinematografica, divenuta ormai profonda a tal punto da mettere in crisi l’edificio visivo messo in piedi dal cartone animato di base, è estrema. La chiusura del cerchio che tutti si aspettano potrebbe anche non arrivare mai ed è molto verosimile pensare che i profondi cambiamenti messi in atto da questo terzo episodio di Rebuild potrebbero aver lasciato scontenti alcun fan, perplessi dal nuovo stato di cose aperto da questa apprezzabile ma forse azzardata operazione filologica. 

Nel complesso un film valido, non eccelso, senza infamia né lode. Non saprei se consigliarlo o meno a un amante della saga, poiché le reazioni potrebbero essere decisamente contrastanti.

VOTO: 6/10 

mercoledì 25 settembre 2013

L'odio



L'odio di Mathieu Kassovitz - Genere: drammatico - Francia, 1995

Pluripremiato film del francese Mathieu Kassovitz, già autore del fortunato I fiumi di porpora, recensito insieme al suo sequel su questo blog, L'odio è un film certamente più impegnato tanto da un punto di vista etico quanto da un punto di vista tecnico-formale rispetto al precedente analizzato. Una giornata nelle banlieu francesi, da sempre territorio di scontro fra le frange più eversive della popolazione giovanile e l'ordine costituito, diventa tragica metafora delle contraddizioni di un mondo in costante involuzione, che precipita sotto gli occhi distratti di spettatori spesso assenti nella spirale della dimenticanza. Il merito di Kassovitz è proprio quello di essere riuscito a riprendere questo magmatico ribollire di tensioni con uno spirito quasi giornalistico, attento a non prendere una posizione ben chiara nonostante il terzetto di protagonisti appartenga chiaramente a uno solo dei due mondi in conflitto.

Il trio di debosciati svogliati e costantemente sul piede di guerra, su cui spicca il personaggio ben interpretato da un Cassel convincente anche se a volte un po' didascalico, è infatti spesso talmente lanciato nella sua operazione suicida contro il sistema che non si può fare a meno di provare una certa antipatia per questi individui. Lo spettatore ha la capacità e la distanza per vedere le ragioni di ambedue le parti in causa e questo rende fastidiosi e stridenti i continui assalti che i ragazzi di periferia mettono in pratica, apparentemente solo per il gusto di fare rivoluzione. Nessun giudizio morale viene espresso, nel senso che non si prende posizione nel confronto sociale che L'odio rappresenta molto bene; alla fine, e l'expicit in questo caso è fondamentale, rimane solo un vasto senso di solitudine e la coscienza - come si legge in molte recensioni che parafrasano una felice battuta - che "l'odio porta sempre altro odio".

Il dettato registico è sorvegliatissimo e attento, cosa che non può che confermare la scelta della giuria di Cannes '95, che ha premiato il film con il riconoscimento alla miglior regia. Lo stile di Kassovitz è meno maestoso e televisivo di quello adottato per I fiumi di porpora e qui emerge in tutta la sua efficacia una retorica della discontinuità che sembra fondare i nessi fra le inquadrature non tanto sulla trasparenza, quanto più sulla libera connessione tematica, cosa che emerge soprattutto nei titoli di testa e comunque nella primissima parte della pellicola. La scelta del punto di ripresa è sempre felice e appare il frutto di una riflessione ben chiara, cosa che è confermata anche dall'uso frequente e felicissimo di numerose interpellazioni (sguardi in camera), che chiamano direttamente in causa lo spettatore come costituente del significato ultimo dell'immagine. Una nota meritoria hanno anche le due sequenze, piuttosto brevi in verità, in cui l'universo mentale/immaginario di Vinz (Vincent Cassel) si mescolano in maniera molto felice.

In conclusione, un film decisamente valido che - fra l'altro - non risente assolutamente dei suoi quasi vent'anni e tratteggia con uno stile ricercato ma non barocco un panorama ancora oggi attuale.

VOTO: 8/10 

martedì 24 settembre 2013

Moebius



Moebius di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2013

Reduce dall'ingombrante successo meritorio di un Leone d'Oro nel 2012, Kim Ki-duk si è ripresentato quest'anno a Venezia con il controverso film fuori concorso Moebius. Dopo il drammatico minimalismo di Arirang, altro titolo contestatissimo e non da tutti apprezzato, e la violenza visiva di Pietà, il talentuoso regista coreano ritorna ad indagare il tema delle relazioni familiari (lo aveva fatto con il suo ultimo lavoro e con diversi dei precedenti, fra cui certamente svetta per fattura e fortuna Ferro 3: La casa vuota), con una capacità di penetrazione visiva certamente fuori dal comune. Anche in questo caso la semplicità della trama è la conditio sine qua non per un lavoro sull'immagine che si esprime in questo caso soprattutto con una cura maniacale per la scelta dell'inquadratura, strategia che - come avremo modo di dire - non da' sempre i propri frutti. La vicenda è mossa da un episodio di evirazione familiare, episodio topico da Catullo in poi (si ricorderà che l'Evirazione di Attis è uno dei più celebri carmina docta del poeta latino), utilizzabile soprattutto - e questa è la direzione che sembra prendere Kim - per rileggere in chiave conciliante o conflittuale la dinamica del complesso edipico in psicanalisi. 

La scelta di azzerare completamente la sfera dialogica (opzione già sperimentata in L'Arco, primo film a raggiungere il massimo dei voti in una recensione su questo blog, precedentemente ospitato da wordpress) non appesantisce eccessivamente l'incedere della vicenda e fa in modo che lo spettatore sia chiamato a ricostruire la dinamica degli eventi e la strutturazione psicologica dei personaggi soltanto attraverso il divenire della loro gestualità. Si tratta di una decisione fortemente sperimentale che però non sempre sembra sortire l'effetto sperato: in particolare non ho trovato felice il continuo rendere conto delle ricerche che il padre del protagonista compie su internet per informarsi circa le possibilità di cura per il figlio. La cosa poteva funzionare la prima volta, ma il fatto che il regista ci mostri di continuo sequenze del genere lascia legittimamente sospettare che proprio a questi passaggi egli affidi la possibilità di decodifica del pubblico: il silenzio dei personaggi poteva invece essere usato in maniera più intelligente e una diegesi più ellittica avrebbe favorito una visione ancora più consapevole.

Altro punto abbastanza dolente riguarda proprio lo sviluppo delle relazioni fra i tre protagonisti (tutti gli altri sono accessori; la rosa potrebbe essere estesa a quattro se si includesse anche l'amante del padre di famiglia, ma la nostra scelta si può facilmente giustificare facendo notare che essa è interpretata dalla stessa attrice che impersona la moglie). Soprattutto nell'incipit e nella parte finale emergono alcune incongruenze comportamentali, che rendono la vicenda meno realistica del dovuto: questo di per sé non è un male, ma visto che Kim ha optato per un'orchestrazione fortemente legata alla sfera fenomenica, queste fratture finiscono con l'avere un effetto sbalestrante e, in ultima analisi, ingiustificato. Un' ultima annotazione deve essere fatta in merito a ciò che il regista sceglie di mostrare: come abbiamo già detto tutto l'universo narrativo è mosso da un Sacro Graal (il riferimento non è casuale) che si concretizza nell'organo sessuale maschile. Un'impostazione di questo genere richiede e sembra promettere la visione di immagini disturbanti presentate senza alcun tipo di censura, in pieno accordo con quell'aria sporca e materica che il regista aveva proposto già in Pietà. Così non è però e in tutte le sequenze potenzialmente shockanti viene scelto un punto di ripresa che, in un modo abbastanza infantile e tipico più della retorica televisiva che di quella cinematografica d'autore, maschera continuamente l'oggetto in questione. 

Ho sempre trovato abbastanza fastidiosa la mania autocensoria di molti registi e di certo non mi aspettavo di vederla messa in atto da un autore asiatico e provocatore come Kim Ki-duk; se Bernardo Bertolucci ha mostrato senza difficoltà le nefandezze sessuali dei tre protagonisti del bel The dreamers, perché Moebius sceglie di chiudere gli occhi al suo pubblico? La sensazione che si ricava da questa scelta, più o meno consapevole che sia, è quella di una forte indecisione stilistica, che indebolisce di molto le possibilità estetiche della pellicola. Nel complesso il film è comunque abbastanza interessante, ma l'ho trovato decisamente al di sotto delle capacità del suo autore e, quel che è peggio, ben lontano dalla vena sperimentale e provocatoria che aveva animato i suoi titoli precedenti. 

VOTO: 5/10

lunedì 23 settembre 2013

Un giorno di ordinaria follia



Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher - Genere: drammatico, thriller - USA, Francia, Regno Unito, 1993

Prendere il sogno americano e rovesciarlo di segno, mostrare il lato oscuro della tranquilla vita borghese. Il film ormai non più recentissimo di Schumacher ci proietta nella spietata crudeltà del mondo metropolitano, con le sue ipocrisie e le sue contraddizioni: il logorante immobilismo di un inutile ingorgo autostradale, ripreso con una maestria fuori dal comune, fa da incipit al drammatico scivolamento di un convincente Michael Douglas nella spirale della follia. La parte più convincente di questo lavoro sta proprio nella prima metà, quando il desiderio pseudoanarcoide del protagonista non è ancora completamente definito e risulta estremamente affascinante. Il montaggio alternato mette lo spettatore in guardia sullo sviluppo della storia, segnalando la presenza di un filo rosso che si inspessisce progressivamente connettendo fra di loro i vari personaggi, in verità in modo piuttosto prevedibile. 

Man mano che la vicenda si definisce e le relazioni si fanno più chiare la vicenda perde di smalto e risulta in fin dei conti abbastanza accademica. Rimane buona la caratterizzazione psicologica del personaggio interpretato da Douglas, che non perde il fascino oscuro e delirante che lo caratterizzava. Lo stesso non si può dire per tutti gli altri interpreti che finiscono con il ricoprire dei ruoli standardizzati e, per quanto riguarda il detective Prendergast, addirittura televisivo. Anche le modalità della progressione narrativa non sono, in realtà, molto originali: tutta la vicenda assume quasi un sapore videoludico con Bill Foster che, a spese delle sue vittime, si guadagna delle armi sempre più pericolose fino che, sul finale, non si ritrova praticamente disarmato. 

Lo stile della pellicola è trasparente e rende facile la lettura allo spettatore: i personaggi sono costruiti su opposizioni binarie destinate a rovesciarsi nella conclusione e l'unico elemento di interesse da questo punto di vista potrebbe riguardare il giudizio morale nei confronti del protagonista. Da un punto di vista etico come giudicare un individuo che, in fin dei conti, è vittima della nevrosi urbana contemporanea? L'incapacità di intendere e volere potrebbe forse essere un discriminante e bisogna ammettere che, soprattutto nella seconda parte del film, quando la vicenda si fa via via più aneddotica si potrebbe essere tentati di ritenere che Douglas sia dalla parte del giusto. Proprio a questo serve il detective Prendergast, monito vivente alla necessità di resistere di fronte alle brutture della propria vita. Il giudizio registico è dunque ben definito e anche questo elemento, unito ad un insieme di reminiscenze topiche dal sistema classico dei generi cinematografici, contribuisce a rendere ancor più inoffensivo e conciliante il portato del film.

Il film in generale si lascia guardare con piacere, ma è davvero un peccato che i buoni spunti che ne animavano la prima parte si siano poi placidamente ripiegati nel proseguo della vicenda.

VOTO: 5.50/10

Il settimo sigillo



Il settimo sigillo di Ingmar Bergman - Genere: drammatico - Svezia, 1957

Che Bergman sia uno dei grandi geni del cinema mondiale è fuori discussione: lo abbiamo affermato con forza nella recensione de Il posto delle fragole e possiamo tornare a ripeterlo qui, nel successivo Il settimo sigillo. Nonostante le affinità di fondo, immancabile residuato di una coscienza autoriale ben sviluppata e coerente come quella bergmaniana, le due opere non potrebbero essere più diverse. Tanto Il posto delle fragole era un dramma intimista, che riguardava solamente l'anziano professore che aveva come protagonista, tanto Il settimo sigillo è una narrazione epico-escatologica che ha ambizioni universali in quanto dedicata al dramma dello scivolamento nell'abisso che riguarda tutti gli uomini. 

In un Medioevo immaginario ma materico lacerato dalla pestilenza, sospesa fra il pallore innaturale dei corpi affaticati dagli stenti e l'oscurità di un cielo mai completamente sgombro, si consuma una improbabile partita a scacchi fra un cavaliere crociato e la Morte. Attorno a questo leitmotiv si intrecciano le vicende dei protagonisti, dapprima divisi in due gruppi e poi uniti, per l'imperscrutabile disegno del fato. La bizzarra compagnia attraversa le campagne alla volta di un castello e nel suo peregrinare vede attorno a sé i segni tangibili della distruzione portata dalla peste e del delirio collettivo conseguente alla sua diffusione. In un modo sempre più disilluso verso il potere salvifico di Dio si distinguono invece degli individui che cercano la purificazione della carne: sono proprio questi intermezzi i più belli del film, proprio perché spingono lo spettatore a riflettere sulla sua condizione circa ciò di cui si discute. Lo scollamento sensibile fra la non-morale di alcuni dei protagonisti e la fede cieca di questi personaggi, disposti ad annientarsi in vista di una ricompensa maggiore, amplifica enormemente l'effetto di queste sequenze, che culminano nel rogo della donna accusata di stregoneria, probabilmente debitore dello straordinario La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer. 

Su questo sfondo di oscurità entro il quale si sviluppa l'efficacissimo memento mori bergmaniano esistono però dei momenti di rottura, delle punte di ironia che permettono di riconsiderare la presenza del divino e l'immanentismo teologico che sembrerebbe animare il capolavoro di Bergman. E' proprio in questa dinamica di tendenze contrastanti, in questa sospensione incerta fra ironia e serietà che risiede, al di là degli indubitabili meriti tecnico-registici, la grandezza di un film che ancora oggi rimane uno dei più affascinanti della storia. 

VOTO: 9/10  

sabato 21 settembre 2013

The Eye



The Eye di Oxide Pang Chung e Danny Pang - Genere: thriller - Cina, 2002

I tre grandi padri innovatori del cinema horror asiatico e più in generale globale sono stati senza dubbio partoriti nei paesi del Sol Levante. Il primo fu il meraviglioso Ring di Hideo Nakata, liberamente tratto dall'omonimo e altrettanto splendido romanzo di Suzuki; poi fu la volta dell'altrettanto ben fatto Ju-On di Takashi Shimizu, targato 2000. The Eye è senza dubbio il terzo elemento per chiudere il cerchio. La grande capacità di innovazione di queste tre pellicole risiede in primis nel fatto che il loro comparto narrativo risponde alle medesime dinamiche di sviluppo, seppure con delle modifiche contingenti; in secondo luogo la ragione per cui ci si deve legittimamente interrogare sul loro successo ha a che vedere con la loro straordinaria generatività in termini di sequel e improbabili remake americani.

Anche in questo caso il motore della diegesi risiede nella comunicazione fra due mondi, quello umano e quello sovrasensibile/paranormale, filtrata non attraverso il nastro magnetico di una cassetta, ma tramite le cornee di una donna grazie alle quali la protagonista, cieca dalla nascita, comincerà a vedere le ultime immagini passatele davanti agli occhi in vita. Niente di nuovo sotto il sole ed in effetti, essendo il film del 2002, ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di meglio (in quel periodo già cominciavano a risentirsi le propaggini dell'effetto Ring); al di là della fotografia buona e dell'uso intelligente e libero del montaggio soprattutto nelle sequenze in cui viene ripreso il delirio "onirico" della protagonista, il film non si lascia ricordare particolarmente.

Bisogna ammettere comunque che la storia è, per alcuni tratti, sinceramente inquietante, soprattutto quando ancora non si riconoscono bene le cause di questa anormalità percettiva. Quando la vicenda comincia a farsi più chiara e i due protagonisti si avvicinano alla risoluzione dell'enigma tutto sembra ripiegarsi su sé stesso e concedersi a delle punte di scolarismo che potevano certamente essere evitate; in particolare si può fare riferimento al finale, veramente didascalico e riconciliante con tanto di voce over a condire il tutto. In fin dei conti è un lavoro che non può essere neppure classificato come horror ma che, per alcuni momenti di particolare tensione, si lascia incasellare piuttosto agevolmente entro i ranghi del thriller. 

Un film che da un punto di vista storico ha senza dubbio avuto un discreto peso nello sviluppo di un genere, pur senza raggiungere sotto il profilo stilistico le vette di precisione e bellezza che Ring o Ju-On si erano ampiamente concessi.

VOTO: 6.50/10

lunedì 16 settembre 2013

Harry a pezzi



Harry a pezzi di Woody Allen - Genere: drammatico, commedia - USA, 1997

Nelle pagine virtuali di questo blog ho più volte recensito film di Woody Allen, autore che ammetto di aver scoperto e cominciato ad apprezzare da poco. Harry a pezzi è il più maturo di quelli che ho visto fin'ora e conserva intatte alcune delle caratteristiche stilistiche del cinema alleniano, senza risparmiarsi alcune nuove trovate che ben si adattano, comunque, a quello spirito schizofrenico e un po'paranoide che caratterizza il periodare di questo regista. Anche in questo caso, come in molti altri, il nucleo tematico orbita attorno alla vicenda di un intellettuale outsider, fortemente fuori dagli schemi, che incarna e riflette la figura dello stesso regista, vero e proprio centro di irradiazione del suo cinema. Nevrotico, incline al tradimento eppure fortemente legato al ricordo, ateo e freddo nei confronti del rapporti umani, Harry è il classico esempio di un'umanità cinica e disillusa, elemento tipico del cinema di Allen.

La struttura di base ricorda molto quella del bel Il posto delle fragole, cosa che fra l'altro ci conferma l'amore di questo autore per il bergmanismo, tratto fondamentale di diversi suoi film. Harry sta per essere premiato dall'università che lo aveva cacciato e tutto il tragitto che il film ci porta a fare prenderà le sembianze di un ritorno alle origini a partire dal quale il protagonista intraprenderà un viaggio interiore per riconsiderare la sua esistenza. L'iter attraverso le insoddisfazioni e gli insuccessi di Harry si rifrangerà come in un sistema di specchi attraverso le creature che la sua penna ha creato, che mostreranno i chiari legami che legano la creazione artistica e la vicenda autoriale. Il camuffamento di personaggi ed eventi passa attraverso un linguaggio metaforico che riproponendo le stesse situazioni del mondo reale crea un diverso universo di possibilità: la virtù demiurgico-creatrice della scrittura e più in generale dell'atto artistico emerge dunque come uno degli assunti di base del film.

La formazione linguistica è quindi stratificata e spesso fortemente discontinua: la diegesi si compone grazie a un progressivo gravitare di detriti narrativi attorno al filone principale della vicenda: l'esistenza di Harry diventa quindi il centro propulsivo attorno al quale vengono attratti degli elementi che, presentati in discontinuità, mettono i due universi di riferimento in comunicazione e interscambio. Nel finale, a saldare definitivamente la connessione fra i due mondi interviene, come nel capolavoro bergmaniano, il mondo onirico che - con la sua capacità di travalicare il fenomenico - ricompatta gli elementi e irradia una speranza, mai prima presentatasi, sul destino del protagonista.

Il film è decisamente piacevole e ben strutturato ma, nonostante sia forse più ricercato degli altri film alleniani che ho recensito precedentemente, non mi ha convinto altrettanto. Siamo lontani, mi sembra, dall'intellettualistica drammaticità di Manhattan e ancor più dall'impreciso e scanzonato universo de Il dittatore dello stato libero di Bananas o di Prendi i soldi e scappa. Comunque un lavoro meritevole; sopratutto una valida alternativa alla mediocrità imperante del cinema comico, un melange dei generi e temi che complessifica l'immagine solitamente disimpegnata che viene data di questo tipo di film.

VOTO: 7/10 

Mamma Roma



Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini - Genere: drammatico - Italia, 1962

La filmografia di Pier Paolo Pasolini è sempre stata caratterizzata, soprattutto nella sua fase più matura - quella che normalmente viene etichettata come Trilogia della Vita e rispetto alla quale solo l'ultimo Salò appare eversivo proprio perché parte di una incompiuta Trilogia della morte - da un interesse estremo per l'esplorazione della sessualità nelle sue forme più vitalistiche o perverse e da un occhio critico nei confronti della dinamica delle corporeità. Mamma Roma, produzione di certo precedente per stile e per l'assenza del colore che in un certo senso sopisce la spiccata vena pittoricistica di Pasolini, presenta però tutti i prodromi di questa indagine, ancora condotta senza estremismi e collocata sullo sfondo.

La vicenda vede protagonista Mamma Roma, una prostituta interpretata dalla splendida Anna Magnani, che decide di cambiare vita per amore del figlio Ettore, guidata dal desiderio di regalargli una vita migliore. Eppure, la morale di questo racconto nero, di questa formazione che è anche precipitare nella disperazione, è proprio l'opposto: l'immutabilità della condizione umana. Non c'è speranza per Mamma Roma e per suo figlio, costantemente riportati dalle contingenze di una Provvidenza maligna nella loro condizione originale: la presenza di Carmine diventa il simbolo tangibile e corporeo di un passato che riemerge e che non può essere contenuto entro i confini del quartiere che Mamma Roma ha deciso di abbandonare. 

La narrazione, limpida nella sua drammaticità, è dotata di un forte valore educativo e ideale, che si ricollega all'ideale tutto pasoliniano del subproletariato italiano del dopoguerra e dell'aspra contestazione dello stile di vita e dei valori borghesi. Mamma Roma incarna con materna eleganza tutto il desiderio di rivalsa, costantemente negato nelle sue giuste pretese, dall'ineluttabilità di un fato immodificabile, di una dinamica di classe che si rifiuta di essere forzata dall'interno. 

Su questo sfondo si intrecciano molti altri temi cari a Pasolini, come la scoperta del sesso che per Ettore si intreccia con l'amore per Bruna, sempre condotto in quei luoghi campestri e periferici che Pasolini sapeva ritrarre con tanta eleganza. Non c'è nulla di esplicito, tutto è suggerito: non siamo ancora giunti alla fase scopertamente shockante del cinema pasoliniano che si avrà con il maestoso Salò: in Mamma Roma un ruolo molto più importante è riservato al tratteggio preciso dei sogni e delle disillusioni della classe proletaria. Soltanto in seguito, quando forse avrà intuito l'irrealizzabilità del suo progetto sociale, Pasolini si dedicherà a raggiungere attraverso le immagini un'idea concreta degli immaginari del corpo e del sesso, che saranno ritratti liberamente senza farsi contaminare dal panorama censorio della morale comunemente riconosciuta; solo allora la poetica cinematografica di Pasolini raggiungerà le sue vette più alte.

VOTO: 7.50/10 

martedì 10 settembre 2013

Bianca



Bianca di Nanni Moretti - Genere: commedia, drammatico - Italia, 1984

Devo dire che non ho mai apprezzato molto i (pochi) film di Nanni Moretti che ho visto fino a questo momento. Bianca, commedia surreale nella quale si intrecciano alcune punte di giallo e una buona dose di ironia, mi ha fatto ricredere ampiamente e fra l'altro ha confermato la mia impressione secondo cui la stagione più felice della commedia italiana si è chiusa con l'inizio degli anni Novanta. E' vero che il film è disimpegnato, eppure non rinuncia - anche all'interno di quella logica del riflusso che lo ha partorito - a proporre degli accenti critici alla società italiana dell'epoca; sorprendentemente (e forse è proprio questa la grandezza del lavoro morettiano), sono criticità che possono essere ritrovate anche oggi.

Michele, giovane insegnante di matematica all'istituto Marylin Monroe, edificio surreale perfettamente in linea con la mente un po' delirante del protagonista, è un alienato che vive costantemente alla ricerca di un perfezionamento della realtà che lo circonda, soprattutto dal punto di vista emotivo e relazionale. La sua insicurezza esistenziale si traduce nell'ossessiva ricerca di ordine, nell'atto di schedare con maniacale cura tutti gli individui con cui è entrato in contatto annotando le evoluzioni delle loro vite. Lo stesso linguaggio della matematica, con la precisione inappellabile e il rigido determinismo che lo governa, non è altro che un estremo tentativo di regolarizzare le asperità di un'esistenza imprevedibile, dalla quale Michele espelle continuamente ogni possibilità di sofferenza.

La grandiosità di questo personaggio sta proprio nella sua inconsistenza, nel suo essere costantemente staccato dal reale e nella sua capacità ostinata di vivere in un mondo schizofrenico ma profondamente morale, seppure in un modo estremo e diverso da quello della communis opinio. Così Moretti è l'anti-Allen per eccellenza: tanto l'uno ha il bisogno insopprimibile che tutto trovi la sua giusta collocazione nell'equazione della vita, tanto l'altro nuota con disillusione nella palude limacciosa dell'apatica fragilità dei sentimenti. Quello di Bianca è un mondo alla rovescia, dove gli studenti, bravissimi, cacciano gli insegnanti e dove l'outsider morettiano trova una sua collocazione, al riparo dalle intemperie delle relazioni interpersonali. 

La stessa protagonista femminile del film (una bella Laura Morante), non occupa nell'economia complessiva di questo giallo surreale che una porzione secondaria della vicenda. La storia d'amore che il film propone è più quella di Michele per la felicità altrui che per la propria ("Non sono abituato alla felicità", dirà a un certo punto a Bianca). Il film è splendido a livello ideale e narrativo e, anche se non arriva a un livello di ricerca formale invidiabile, si lascia ricordare con piacere soprattutto per la profondità della sceneggiatura, per l'ottima caratterizzazione dei personaggi (in particolare quello di Michele) e per i numerosi spunti di riflessione proposti (ci sarebbe da pensare, ad esempio, all'immagine dell'istituzione scolastica che esce fuori da qui...). Unica nota dolente, ma è davvero una questione di poco conto, la persistente fastidiosità del tema principale, non sempre ben raccordato con la narrazione anche a livello di intensità. 

VOTO: 7.50/10 

Il posto delle fragole



Il posto delle fragole di Ingmar Bergman - Genere: drammatico - Svezia, 1957

Capolavoro insuperato del cinema europeo e mondiale, uno dei massimi esempi di quello stile moderno che, forzando le rigide geometrie formali del classico, ha aperto ad una delle stagioni più belle e intense della settima arte. Con uno schema di base talmente semplice da sfiorare l'elemntarietà, Il posto delle fragole riesce a farsi ricordare, a qualche decade dalla sua uscita, come un film meraviglioso e intimamente umano. Il viaggio in auto del vecchio Isak insieme alla nuora diventa la parabola di una conversione, che si accompagna a una serena e lucida riflessione sulla vita e sulla morte (com'è nello spirito di Bergman, ce lo dimostra il meraviglioso Il settimo sigillo). La valorizzazione dei sentimenti umani e il ritrovamento di una dimensione di vera esistenza per Isak non sarà quindi legato ad un miglioramento delle condizioni di chi gli sta intorno e il destino individuale appare in ultima analisi legato alla propria egoità. 

Il passaggio fondamentale che conduce Isak a una nuova dimensione di vita si concretizza proprio durante il viaggio quando, forse inquietato da un incubo di sapore surrealista rappresentato con una maestria ancora oggi inimitabile da Bergman, decide di fermarsi nella vecchia casa di villeggiatura dove trascorreva l'infanzia. Lì i ricordi della sua gioventù si mischiano alla realtà, creando una discorsività dialettica fra due mondi dotati di un diverso regime di esistenza che fa smarrire il senso della realtà. Proprio in queste sequenze di sospensione narrativa, di cui non si capisce sino in fondo lo statuto, la grammatica cinematografica viene liberata in tutte le sue potenzialità. L'uso del montaggio si fa più libero e la voce fuori campo di Isak accompagna lo spettatore nell'esplorazione di un mondo tutto mentale in cui il ricordo e la realtà si fondono.

E' proprio il rapporto con la temporalità precedente (il ricordo) o successiva (l'incubo che getta l'ombra della morte su Isak) che incrina irrimediabilmente la concezione esistenziale di Isak, inducendolo a mutare il suo atteggiamento nei confronti della vita e delle persone. L'ideale dell'uomo perfezionante al di là della socialità e chiuso in una torre d'avorio si sgretola di fronte alla melanconica rimembranza dell'amore mai realizzato per la cugina Sarah, che prende corpo ed esce dal mondo onirico sotto forma dell'omonima turista che, con i suoi due amici (quasi figure di Isak e del cugino), accompagnerà il viaggio dell'anziano medico verso il suo giubileo professionale.

Un'opera cinematografica dotata ancora oggi di una potenza maestosa e, nel contempo, una delle migliori riflessioni sull'uomo e sulla sua più intima natura. 

VOTO: 10/10 

World War Z



World War Z di Marc Forster - Genere: azione, fantascienza, horror - USA, Malta, 2013

Tratto dal romanzo omonimo pubblicato nel 2006, WWZ si è proposto, sin dal suo annuncio pubblicitario, come un'opera epocale che - almeno sulla carta e, forse, nelle aspettative del pubblico - aveva l'arduo compito di ripensare o quantomeno contribuire a ridefinire la figura dello zombie nel cinema contemporaneo. In effetti sembra che in questo campo, dopo la grande innovazione romeriana avviata con il meraviglioso La notte dei morti viventi, le cose siano rimaste un po' ferme. Il motivo è da ricercarsi tanto nella solidità della figura edificata da Romero e costantemente riproposta dai sequel, tanto nel fatto che il cinema horror contemporaneo ha cercato di battere (senza troppo successo) altre strade (Ring e Paranormal Activiy hanno fatto scuola). 

Il fatto che questo tentativo derivi da un film che non è neanche completamente horror, ma sembra fortemente contaminato dai topoi fantascientifici della pandemia e dell'apocalisse, rende tutto ancora più interessante: un tentativo in questa direzione era già stato fatto con l'ibridazione fra horror e sci-fi con La Cosa di Carpenter (che poco ha a che vedere con gli zombie, ma è simile per l'idea di commistione fra generi). Sulla carta, dunque, buone aspettative: l'idea di un film che riproponesse uno scenario di guerra globale causata dai non morti tendeva a complessificare il filone cinematografico di riferimento e rendeva nel contempo ragione al clima di tensione attuale, dando eco alle ansie e alle paure per una eventuale terza guerra mondiale (già svariate volte ho sostenuto che le immagini del secondo conflitto mondiale siano state il patrimonio iconografico più pervasivo e shockante della storia dell'uomo). 

Alla prova dei fatti l'obiettivo appare raggiunto solo in parte: se è vero che il film contribuisce in effetti ad arricchire la figura dello zombie con nuove venature che la distaccano dal modello ingombrante ma ormai non più attuale voluto da Romero (cosa che comunque non priva i suoi film di una visionaria genialità), l'impressione generale che se ne ricava non è certo scevra da alcune perplessità. Si tratta non tanto di problemi relativi alla forma cinematografica, che è comunque molto buona, ma di quello che potremmo definire il "colpo d'occhio", oppure la sensazione che rimane a narrazione conclusa. 

Personalmente ho avuto l'impressione che il film, nonostante una piacevolezza di fondo che lo rende scorrevole nonostante le due ore di durata, non fosse altro che una grossa trovata commerciale, un estremo tentativo di pubblicizzazione delle potenzialità del cinema spettacolare, un'infilata di esplosioni scenografiche e di arzigogolati movimenti della macchina da presa che hanno il solo scopo di impressionare lo spettatore. Si capisce che un film che si propone di raccontare l'invasione zombie come un fenomeno globale a sfondo bellico non possa essere girato in maniera oscura e "intimista", ma alcuni passaggi sono evidentemente ed eccessivamente contaminati da questa volontà di stupire. Per il resto, torniamo a ripeterlo, un film piacevole anche se a tratti (soprattutto per quanto riguarda le azioni di Brad Pitt, classico protagonista americano in stile telefilm), eccessivamente autocompiaciuto della propria baldanza.

VOTO: 5.50/10

lunedì 9 settembre 2013

To the wonder



To the wonder di Terrence Malick - Genere: drammatico - USA, 2012

Quando Malick propose il suo fortunatissimo The tree of life al pubblico, suscitando reazioni contrastanti ma togliendosi diverse soddisfazioni, io ero fra i perplessi. Non che il film non fosse bello, intendiamoci; esteticamente si tratta di uno dei prodotti più riusciti degli ultimi anni che, con una fotografia bellissima, non può che colpire chi lo guarda in maniera molto positiva. Il problema nasceva secondo me dal fatto che i prodotti cinematografici, per quanto belli, non possono essere ridotti a catene di immagini ben girate. Quando il film (lungo più di due ore) non poteva fare a meno di mostrare la sua vacuità e il suo sterile autocompiacimento, per me la visione era già finita. The tree of life era insomma un film che si piaceva profondamente, una masturbazione per immagini insomma. Al di là di quello, a mio avviso, rimaneva ben poco e anche le voci fuori campo che ragionavano sul senso della vita perdevano gran parte del loro fascino proprio in virtù del criptico ermetismo che non permetteva di relazionarsi in maniera chiara con il film.

To the wonder conserva in effetti alcune di queste caratteristiche e l'effetto complessivo che se ne ricava non è poi tanto diverso. Anche questa volta Malick torna a indagare il cosmo delle relazioni interpersonali, dedicandosi forse meno alla famiglia e più al sentimento amoroso colto nella sua essenzialità. Anche qui la perfezione delle immagini è innegabile e la fotografia magnifica non può che rimanere inchiodata nella testa dello spettatore anche dopo che il film è finito. La scelta delle ambientazioni in questo è stata geniale e la bellezza di Mont Saint-Michel non può che uscire rafforzata dall'abilità di Malick di confezionare immagini esteticamente (molto) gradevoli. Ma un film, torno a ripeterlo, non è una cartolina. 

Se qualcuno si chiedesse cosa rimane dietro la perfezione formale del film, direi nulla. E' come se in profondità ci fosse il vuoto e dietro all'armonica geometria degli sguardi non rimanesse nulla. Al di là del colorismo, ciò che promana dalle inquadrature di To the wonder, dalla scelta sempre azzeccata dei punti di ripresa, dall'uso sapiente di raccordi sonori non sempre linearizzati, è una glaciale freddezza, una impersonalità rispetto alla quale non posso pensare che sia voluta. Il film è confusivo e le scelte di Malick lo rendono (non pensavo che l'avrei mai considerato un fattore negativo!) difficile da seguire. Anche la prova attoriale non è al meglio delle sue possibilità, soprattutto per quanto riguarda Ben Affleck, che ho trovato abbastanza inespressivo.

Il film non mi ha convinto e, anzi, non ha fatto altro che confermare il mio disamore per quest'ultimo Malick. Rimane solo la bellezza delle immagini e il film è consigliato proprio a chi stesse cercando questo tipo di esperienza che, ancora una volta, rimane irrimediabilmente solo estetica. 

VOTO: 4/10 

Comic Movie



Comic Movie di autori vari - Genere: commedia - USA, 2013

La forma del film antologico è senza dubbio fra le meno frequenti del cinema odierno; lo era molto di più tempo fa, soprattutto per quanto riguarda il cinema italiano (numerose commedie, ad esempio, seguivano questo schema anche tenendo ferma una unità di personaggi e topoi narrativi, come succede in tutti i film della saga di Fantozzi). Questo tipo di prodotti sembra essere legato al passato e gli anni Duemila, salvo rare eccezioni (tutte legate al mondo horror come ad esempio V/H/S) hanno confermato questa tendenza. Comic Movie rappresenta quindi una gradita novità nel panorama dei prodotti comici attualmente disponibili sul mercato e si assicura una fetta di pubblico non indifferente grazie al titolo e ai contenuti che ammiccano alla fortunata formula sperimentata dai vari Scary Movie; mentre in quel caso la parodia era rivolta solamente a un certo ventaglio di titoli tutti accomunati dal medesimo genere, in Comic Movie la scelta si fa più ampia e le situazioni comiche derivano non tanto dal rovesciamento umoristico di stereotipi ormai consolidati, quanto dalla demenzializzazione di elementi quotidiani che tutti viviamo ogni giorno. 

La presenza della cornice narrativa (la ricerca del Movie 43), lega insieme le disparate situazioni che i vari episodi vanno a proporre, anche se la costante riproposizione della medesima modalità di avvio delle sequenze risulta in fin dei conti abbastanza noiosa. Per quanto riguarda i singoli episodi, data la diversità delle mani registiche, è difficile fare un discorso che ne riassuma in pieno le differenze; basti dire che una buona parte è sinceramente divertente e solo alcuni lasciano un po' storcere il naso solitamente per una volgarità più accentuata. La presenza di un cast importante garantisce quantomeno una buonissima prova attoriale da parte di tutti i partecipanti, cosa che compensa la semplicità della messa in scena, sempre sacrificata in titoli del genere.

Nel complesso un film divertente e valido, ovviamente da guardarsi in compagnia se si cerca una serata all'insegna del disimpegno. 

VOTO: 6/10

domenica 8 settembre 2013

I spit on your grave 2



I spit on your grave 2 di Steven R. Monroe - Genere: horror - USA, 2013

Quando nel 2010 Steven R. Monroe si mise alle prese con il remake del capolavoro dell'horror Non violentate Jennifer, vero e proprio caposaldo che ha rinnovato un genere contribuendo a ripensarlo nel profondo, la mia reazione fu abbastanza sconcertata. Il lavoro era approssimativo e tradiva una forte incapacità di ricreare le stesse atmosfere disturbanti del film ispiratore. La colpa, a ripensarci, non era tanto di Monroe quanto dello statuto ontologico della pratica del remake che, se non è condotta con sapienza e capacità, spesso si rivela fallimentare. Il motivo è presto detto: non è possibile riproporre dopo due decadi di distanza o più un film di successo solamente per motivi commerciali; il fallimento è quasi matematico, proprio perché è molto difficile proporre i ritmi e le modalità di un certo cinema se non si vive quell'epoca dall'interno. 

Questo secondo capitolo, dunque, si lasciava immaginare come un completo disastro essendo, per inciso, il "sequel di un remake", vero e proprio monstrum cinematografico insomma. Invece non solo non è stato così, ma con mia grande sorpresa Monroe è riuscito a confezionare un prodotto decisamente valido e nel complesso non eccessivamente scontato (il che, per il panorama horror odierno, è già un ottimo risultato!). La durata leggermente più avanzata rispetto a quella media del genere ha consentito una gestione felice della struttura diegetica, che appare bipartita almeno per quanto riguarda la localizzazione geografica (New York per la prima parte, Bulgaria per la seconda). Il cambiamento di ambienti ha consentito al regista di divincolarsi dall'ingombrante eredità dell'originale I spit on your grave e gli ha permesso di ricreare uno stile nuovo, che mantenesse comunque fede al dettato del film-modello. 

La struttura della diegesi è infatti grossomodo inalterata e l'impressione che si ricava è proprio che quando la regia è in grado di slegarsi dalle aspettative e di cercare strade personali il risultato sia decisamente gradevole. Tenendo ferma la costante del contrappasso secondo cui la Jennifer della situazione si lascia andare a una cruda vendetta nei confronti dei suoi aguzzini, Monroe calca la mano e regala nella seconda parte del suo lavoro momenti di puro terrore: l'aspirante modella Katie sperimenta su di sé la regressione allo stato larvale e grazie ad un sacerdote (passaggio questo, piuttosto aneddotico e prevedibile), si instrada verso la ricerca della vendetta. Tutto ciò che esula da questo piano (il poliziotto, lo stesso prete ortodosso che cerca di aiutare la ragazza), è inutile e secondario e viene anche gestito con poca attenzione da parte del regista.

I colori tetri e verdastri e la crudeltà sadica di Katie non possono non ricordare alcuni dei titoli che hanno segnato la prima decade del XXI secolo, come Saw e Hostel, vere e proprie miniere di situazioni e aneddoti cui tutti i registi successivi sembrano essersi ispirati. Per quanto riguarda il nostro caso possiamo parlare di un tentativo riuscito di sfruttare un bacino narrativo e drammaturgico ormai ben collaudato, pur riuscendo a districarsi con sufficiente indipendenza all'interno di legami spesso troppo costrittivi. Nel complesso I spit on your grave 2, anche grazie a una discreta fotografia e a una buona caratterizzazione dei personaggi, si lascia guardare con piacere e alla fine dei conti si rivela come un modello che si dovrebbe tentare di imitare, perfezionando una strada ancora tutta da tracciare. Un buon lavoro, che si congeda con la speranza che un eventuale successo di pubblico non porti il regista a volerlo rendere parte di un progetto a episodi più complesso.

VOTO: 7/10 

sabato 7 settembre 2013

Cosmopolis



Cosmopolis di David Cronenberg - Genere: drammatico - Canada, Francia, Italia, Portogallo, 2012

Ammetto che al trailer di questo film, uscito ormai da un anno abbondante, ero rimasto molto colpito dalle immagini che venivano proposte, dalle belle atmosfere contemporanee ma decadenti ed ero portato a sperare dall'importanza della firma registica di Cronenberg (Videodrome, Il pasto nudo etc.). Anche le rimostranze che avrei potuto avere su Pattinson come protagonista erano state fugate avendo visto il bellissimo Little Ashes, in cui il protagonista di Twilight da' sfoggio di una capacità attoriale insperata. Come si dice però, a doppia superbia doppia caduta e Cosmopolis si è rivelato piuttosto deludente. 

L'idea di base pareva non prospettare una situazione di questo genere e, anzi, lo schema compositivo di fondo regge ed è piacevole. Il personaggio di Eric Packer è la perfetta rappresentazione del topos letterario e cinematografico del miliardario arrivista e spietato, perfettamente inserito nella società delle reti postmoderna, in cui il capitale e la merce di scambio principali sono le informazioni, che Pattinson padroneggia con capacità all'interno di una limousine che diventa abitazione (e non può non ricordare a fortiori quella di uno dei film più riusciti dell'anno, lo splendido Holy motors). Tutto il film, ripreso con colori caldi ma allo stesso tempo alienanti si basa su inquadrature che conferiscono alle ambientazioni un'aria perturbante e asfissiante, come se tutti gli spazi in cui Eric si muove, anche quelli potenzialmente più familiari, diventassero ostili; questo ricercato effetto è ottenuto attraverso un posizionamento sapiente del punto di ripresa, spesso individuato in maniera volutamente troppo vicina al volto dei protagonisti. 

Il mondo di Cosmopolis è un mondo in continuo movimento, ma il ritmo del film è tutt'altro che veloce; con un effetto di inversione decisamente piacevole anche se a tratti un po' troppo accentuato, la giornata di Pattinson occupa l'intera pellicola e questa scelta comporta una dilatazione estrema del ritmo narrativo. La cosa non è di per sé spiacevole e, anzi, costituisce una trovata molto interessante; il problema è che il comparto dialogico amplifica eccessivamente la sensazione di immobilismo che deriva da questa componente, finendo a lungo andare con il favorire l'insorgere di una noiosa sonnolenza. Il punto debole del film sono forse proprio i dialoghi, non so in che percentuale mutuati dal testo di De Lillo cui il lavoro di Cronenberg si ispira. 

L'ostentato filosofeggiare di Packer e del suo entourage si traduce molto presto in un vuoto chiacchiericcio incomprensibile allo spettatore; ho più volte sostenuto che l'immedesimazione totale nell'immagine non è di norma una buona cosa perché è sinonimo di uno spettatore disattento, ma da un maestro come Cronenberg ci si aspetterebbe il raggiungimento di una maggiore dialettica fra coinvolgimento del pubblico e la costruzione di un discorso cinematografico o metacinemtografico coerente e importante. Ciò che resta di Cosmopolis è la spiacevole sensazione di un lavoro che sarebbe potuto essere molto valido ma che alla fine non si lascia ricordare per nessun motivo particolare, fatta salva comunque la buona qualità della fotografia e una prestazione di Pattinson comunque non indecorosa. 

VOTO: 5/10 

giovedì 5 settembre 2013

Akira



Akira di Katsushiro Otomo - Genere: animazione - Giappone, 1988

Capolavoro indiscusso dell'animazione giapponese recentemente riproposto al cinema in occasione del suo venticinquesimo anniversario, Akira è un film che ha senza dubbio segnato la storia del genere e l'impressione è stata decisamente confermata dal fatto che, alla visione, esso manifesta tutta una serie di situazioni archetipiche che saranno riproposte anche da molti film e anime successivi. La corrispondenza più prossima, per situazione ed evoluzione della vicenda, è senza dubbio con Neon genesis: Evangelion, il cui debito si manifesta sopratutto nel finale del film, quando la trasformazione di Tetsuo in un organismo ameboide non può non richiamare alla mente di chi conosce la fortunata serie (presto al cinema con il terzo capitolo della tetralogia Rebuild of Evangelion) la struttura interna delle unità EVA. 

Sarebbe interessante cercare di capire il motivo per cui una così larga parte della filmografia giapponese sia così fortemente ispirata dalla situazione narrativa della rinascita della civiltà dopo un disastro distruttivo: la terza guerra mondiale che ha distrutto il mondo di Akira portando alla nascita di una Nuova Tokyo (o il Second Impact di Evangelion) sono probabilmente il riflesso ritualizzato delle immagini sconvolgenti di Hiroshima e Nagasaki, come se il Giappone non potesse più fare a meno di richiamare quegli episodi che ne hanno segnato in senso traumatico l'esistenza. Un'esplosione che è anche un momento di rinascita, un momento di crisi profonda dalla quale l'arcipelago nipponico ha saputo risollevarsi sino a imporsi, oggi, come una delle nuove potenze leader dell'economia mondiale.

Nel 1988 questo non si poteva ancora prevedere, forse. Sta di fatto che Akira propone un mondo fortemente contemporaneo e che appare grossomodo valido anche oggi, con le sue ipocrisie e i suoi sogni di progressismo infinito. E' straordinario notare come un cartone animato, solitamente considerato un prodotto non artistico, possa riuscire a tratteggiare con una così tagliente sagacia un ritratto del mondo (seppure condensato in una sola città) che, al di là di alcuni cambiamenti intercorsi negli ultimi venticinque anni, è rimasto isomorfo a sé stesso. Akira rappresenta questo organismo decadente con l'eleganza e la compostezza formale di un film vero e proprio, mentre l'organizzazione delle immagini segue criteri compositivi non dissimili da quelli della classica inquadratura. Tutto questo porta allo straordinario risultato di un prodotto ormai divenuto culto e simbolo di un'intera generazione che riesce a intrattenere sulla smodata lunghezza di circa 130 minuti, superando in qualità non solo prodotti consimili ma anche pellicole cinematografiche non animate.

Al di là dell'innegabile valore storico che ha acquisito, Akira è il titolo ideale per le persone convinte che il cinema di animazione sia qualitativamente inferiore alla filmografia normalmente intesa. Le loro capacità di raccontare e di mostrare non solo sono quantomeno equipotenti; nel caso in esame, in effetti, la capacità creativa dell'animazione è addirittura superiore, in quanto slegata dalle contingenze di un referente fenomenico reale e ancora non del tutto manipolabile (ricordiamo che il film è del 1988 e l'immagine digitale era ancora ben lontana dalle sue possibilità odierne). 
VOTO: 8/10 

mercoledì 4 settembre 2013

Andarevia



Andarevia di Claudio di Biagio - Genere: drammatico - Italia, 2013

Quando ho visto questo film disponibile per la visione ho cercato di informarmi, leggendo i commenti, spesso poco autorevoli, che gli utenti lasciano dopo aver guardato i titoli. Il diritto d'espressione è sacrosanto e il dialogo fra autore e pubblico costituisce una delle punte di interesse della produzione sociale e dei riti di consumo contemporanei, ma molto spesso la violenza con cui alcuni prodotti vengono stroncati dovrebbero far riflettere. Nel caso di Andarevia, leggendo le valutazioni di chi lo aveva visto, c'era da aspettarsi di tutto; commenti decisamente poco carini in merito al regista, colpevole di essere stato lanciato da una web-serie, si fondevano a critiche piuttosto taglienti sulla qualità del suo lavoro.

Intendiamoci, la pellicola non è esente da difetti e questo è bene evidenziarlo sin da subito. La fotografia è discreta, ma la scelta di alcune inquadrature sembra onestamente casuale, tanto che in alcuni punti l'occhio dello spettatore è ostacolato da elementi della scenografia che sembrano essere lì per errore. Anche la caratterizzazione dei personaggi, aspetto fondamentale per un film che tratta la delicata ma inflazionatissima materia del disturbo psichiatrico, lascia in parte a desiderare: sebbene il tentativo di di Biagio sia pregevole e nuova nella direzione del rendere il delirio dei suoi protagonisti con i mezzi linguistici dell'arte cinematografica, il risultato poteva essere migliore. L'inesperienza del regista può aver giocato a suo sfavore e il risultato è una truppa di pazzi che non riesce a convincere fino in fondo, facendo rimanere in chi guarda il senso a tratti sgradevole della recitazione. 

L'ambientazione del film è piacevole e credibile, ma lo sviluppo della storia è a tratti piuttosto scontato: l'episodio chiave (vale a dire l'incidente che costa la vita ad uno dei conducenti dell'imbarcazione e fa precipitare tutta la compagnia nella spirale della paura) è in effetti abbastanza elementare e poteva essere gestito in maniera diversa. Anche lo svolgimento in generale è prevedibile, ma l'impressione complessiva è comunque di un prodotto che si lascia guardare e anche grazie alla fotografia risulta ben lontano da quella bruttezza che il pubblico pareva avergli attribuito. 

VOTO: 5/10 

lunedì 2 settembre 2013

The dreamers



The Dreamers di Bernardo Bertolucci - Genere: drammatico, erotico - Gran Bretagna, Francia, Italia, 2003

Vero e proprio film culto degli anni Duemila, l'opera di Bertolucci trasmessa ieri sera da Iris in occasione della maratona dedicata al regista si rivela già dai primi minuti interessante e soprattutto perturbante. Sullo sfondo di una Parigi progressivamente infiammata dai moti sessantottini, l'occhio registico ci accompagna entro le stanze di un bell'appartamento dall'aria bohemiene in cui vivono due fratelli, insieme ad un ragazzo americano conosciuto da poco. A partire da questa situazione il regista descrive senza commentare la discesa dei tre in una spirale di autocompiacimento solitario che li isola in maniera irreversibile dal mondo esterno. L'effetto che se ne ricava, in generale, è di un rovesciamento del senso di realtà, come se ciò che accade fuori da quelle stanze non fosse altro che un sogno o una proiezione; la verità è invece quella di Isabelle, Theo e Matthew. 

L'isolamento dei tre "sognatori" dal resto del mondo si consuma in giornate dal sapore decadente che ben si sposano con l'aria di antico splendore che gli splendidi interni dell'appartamento ancora conservano. La mollezza dei loro costumi e delle loro abitudini non è comunque priva di riferimenti costanti al mondo della cultura, del cinema e delle arti che vengono però usate come anticamera narrativa per accedere ai momenti veramente disturbanti del film, che lo rendono facilmente classificabile come erotico. Il più naturale dei divertimenti per i tre è l'ostentazione di una sessualità libera e per certi versi estrema, che esprimono nei modi più svariati. Al di là dell'aspetto narrativo della questione, gli episodi in cui i giovani citano le opere d'arte o le scene di celebri film (su tutti Scarface lo sfregiato) sono particolarmente interessanti proprio perché il regista decide, per informare lo spettatore, di inserire all'interno della trama delle immagini alcuni brevi frammenti dei film in esame. Questo inserimento in discontinuità mette il regista in diretta comunicazione con lo spettatore, che contribuisce in questo modo a definire il senso del film in modo negoziale.

The dreamers è un film potentemente disturbante, che mostra senza difficoltà atteggiamenti sessuali profondamente personali e che raramente il cinema ha scelto di indagare con simile intensità. La fortunatissima scena della vasca da bagno è in questo senso emblematica, non tanto a livello figurativo quanto da un punto di vista dialogico: il regista è come un voyeur che per soddisfare il proprio bisogno deve guardare dal buco della serratura nelle stanze degli altri. Ecco la chiave di volta del film, un lavoro in cui Bertolucci varca la soglia pur senza forzarla e ci mostra in maniera quasi anonima il volgere degli eventi entro le pareti ermetiche del bell'appartamento parigino. Non c'è giudizio morale nei movimenti della sua macchina da presa e questo contribuisce a sottrarre il film dalla pura aneddoticità dei fatti. 

Il senso di opprimente disgusto che ha accompagnato la visione delle immagini bertolucciane non solo non mette in discussione l'indubbia qualità del film, ma ne è per certi versi la riprova. La capacità mimetica dell'occhio registico lascia che le immagini parlino da sole grazie ad un uso intelligente e molto buono della fotografia e del comparto musicale. Tutto è perfettamente costruito per raccontare l'asfittica fuga dei tre protagonisti dalla realtà, chiusi come sono nella sterile contemplazione delle metastasi della loro egoità. Soltanto Matthew (un ottimo Michael Pitt) alla fine si allontana (o viene allontanato?) dai due fratelli e, sullo sfondo di un fiammante Sessantotto francese, rimane solo. Egli è comunque il personaggio più positivo del film, considerando l'ala di mortifera e anarcoide desolazione che accompagna l'esistenza di Theo e Isabelle.

Nel complesso un film ottimo, giustamente depositario di un valore cultuale, che dietro alla patina comunque ben costruita di decadente disinteressamento nasconde una chiave di lettura interessante per il senso del fare cinema. La grandezza di The Dreamers sta forse proprio nella sua capacità respingente di proporsi come un prodotto stratificato e dai molteplici livelli di lettura?
VOTO: 8.50/10 

domenica 1 settembre 2013

Il Cartaio



Il Cartaio di Dario Argento - Genere: thriller - Italia, 2004

Che io non sia un grande estimatore delle produzioni più recenti di Dario Argento è risaputo. Dopo l'atroce conclusione del ciclo dedicato alla stregoneria cominciato con il bel Suspiria e la vergognosa riproposizione dell'opera di Stoker in Dracula 3D, vedere Il Cartaio proiettato in televisione è stato al medesimo tempo divertente e fastidioso. Divertente perché l'ingenuità della trama e la costruzione linguistica del film non lascerebbero mai immaginare che dietro alla macchina da presa ci sia stato un regista in realtà navigato come Argento, che è riuscito a partorire un'opera validissima e autenticamente inquietante come Profondo rosso. Fastidioso perché non ci sono altre parole per definire un film stupido e scontato come questo.

L'idea di base poteva essere originale, ma il fatto che l'opera argentiana sia uscita nel medesimo anno del ben più fortunato Saw: L'enigmista, episodio pilota di una serie non altrettanto valida, lascia intravedere nelle intenzioni del cosiddetto maestro del brivido la volontà di cavalcare l'onda di un annunciato successo di pubblico. Peccato che il prodotto sia scadente sotto tutti gli aspetti, a partire da una sceneggiatura semplice e lineare, che non ha nulla a che vedere con i complessi collegamenti interepisodici a cui la saga di Jigsaw ci ha abituati. Qui tutto si esaurisce in maniera rassicurante nel finale di una pellicola che si mantiene tranquillamente sui toni del telefilm in stile Canale 5; non c'è suspence e sembra più che altro che il regista non voglia prendersi la responsabilità di scegliere una strada lungo la quale sviluppare il suo film.

La caratterizzazione drammatica dei personaggi è scontata o eccessiva e in ogni caso non contribuisce a migliorare la situazione di questo fallimentare progetto cinematografico: un esempio lampante è quello del medico legale, macchietta didascalica che strizza l'occhio a tutti quei personaggi da telefilm che negli ultimi anni hanno portato la corsia degli ospedali o la sala degli obitori alla ribalta del pubblico (Dr. House, Grey's Anatomy etc.). Non c'è molto altro da dire in merito, se non che il film è da evitare a tutti i costi, soprattutto per chi è appassionato del genere: la visione de Il Cartaio ha confermato la mia ormai salda sensazione che la fortuna di Argento si sia esaurita e che gli onori che gli vengono tributati siano in larga parte relativi a un passato più felice o in gran parte immeritati.

VOTO: 3/10