martedì 29 aprile 2014

Fuoco cammina con me



Fuoco cammina con me di David Lynch - Genere: thriller - USA, 1992

Oltre a essere un celebratissimo cineasta e artista poliedrico, David Lynch ha firmato anche una vera e propria serie cult, I  misteri di Twin Peaks, datata 1990, di cui Fuoco cammina con me rappresenta il prequel. Preciso sin da subito due elementi, che credo sia necessario tenere in conto nel prendere in considerazione il mio giudizio verso il film. In primo luogo non ho avuto modo di vedere le puntata della serie, quindi non potrò valutare in nessun modo il modo in cui il film si integra rispetto ai contenuti del telefilm. In secondo luogo tengo a dichiarare che Lynch non è un cineasta che amo particolarmente, soprattutto per quanto riguarda le sue ultime produzioni; per quanto film come Lost Highways e Inland Empire siano senza dubbio realizzazioni straordinarie, devo ammettere che in tutta onestà non mi hanno convinto fino in fondo e soprattutto nella sua ultima opera è forte la sensazione che Lynch abbia profondamente travalicato i confini dello spazio filmico, per aprire la sua arte su prospettive che a mio parere non appartengono (almeno non completamente) alla critica cinematografica.

Ciò detto è necessario riconoscere che, almeno per me, Fuoco cammina con me rappresenta la migliore prova registica di David Lynch, una perfetta miscela di avanguardia linguistica, suggestione immaginifica e solidità narrativa. Pur essendo grossomodo spartibile in due parti ben distinte il film mantiene una sua unitarietà stilistica e drammatica, giungendo a compimento nel finale dove si raggiunge l'acme della poetica lynchiana. La trama thriller è raccontata con efficacia, ma non predomina sulle componenti più caratteristiche dello stile di Lynch, come l'attenzione morbosa per gli oggetti che - ripresi a distanza volutamente troppo ravvicinata - sembrano quasi assumere una vita feticizzata che li fa emergere dando loro una dignità simile a quella dei personaggi. A ciò si aggiunge, ovviamente, l'immancabile persistenza sul confine dei registri stilistici, potremmo dire fra il concreto e l'astratto, fra l'onirico e il reale (non si allude ovviamente, almeno non in maniera così ingenua, al Reale nel senso lacaniano del termine). 

Senza dubbio per chi conosce la serie di Twin Peaks il film avrà rappresentato la conferma e la spiegazione di nodi insoluti della vicenda, mentre per chi come me non si è ancora approcciato a questo prodotto, Fuoco cammina con me mantiene una salutare patina di mistero che - ben lungi dall'essere sintomo di incompletezza- garantisce un fascino magnetico al film e alla vicenda così efficacemente raccontata da Lynch. Mi rendo conto che in questo come in altri casi sarebbe forse apprezzabile un commento più circostanziato sulle qualità del film, ma credo che questa non sia la sede adeguata per questo scopo. Di fronte a un'opera potente come questa la soluzione migliore è forse, nell'ambito di una recensione, quella di fornire degli stimoli per suscitare la visione. Concludendo in breve a questo scopo, il film ispirato a Twin Peaks si lascia apprezzare per lo splendore della tecnica compositiva e linguistica di Lynch, cui si unisce in questo caso una sceneggiatura eccellente e fortunatamente lontana dagli eccessi sperimentali e a volte troppo confusivi cui ci hanno abituato le sue opere più recenti.

VOTO: 10/10 

lunedì 28 aprile 2014

Quattro mosche di velluto grigio



Quattro mosche di velluto grigio di Dario Argento - Genere: thriller - Italia, 1971

Con questa recensione si chiude la Trilogia degli animali diretta da Dario Argento. Inaugurata dal bel L'uccello dalle piume di cristallo e proseguita con il discutibile Il gatto a nove code, è la serie di film che più di tutti ha contribuito a fondare il genere del giallo all'italiana, che ha avuto una notissima diffusione e fortuna e che meriterebbe di essere rivalutato anche in sede critica più di quanto non si faccia. Per quanto io appartenga più al gruppo degli estimatori del sottovalutatissimo Lucio Fulci e non sia un amante degli argentiani, devo riconoscere che l'inizio e l'epilogo della trilogia sono senza dubbio interessanti. Sebbene con minore freschezza rispetto a quanto mostrato ne L'uccello, qui Argento riesce ancora a proporre uno stile libero e veloce, fatto di inquadrature fortemente influenzate dal cinema moderno. 

Ambientato a Roma, location tipica del regista, il film si sviluppa attorno ai temi più cari ad Argento, senza farsi mancare neppure il riferimento all'omosessualità, questa volta incarnata dal detective privato Arrosio. E' probabile che sotto il profilo della queer theory la scelta di Argento potrebbe essere criminalizzata, per le modalità di rappresentazione, ma devo dire che tutto sommato l'effetto complessivo non è spiacevole e anzi garantisce a Quattro mosche di velluto grigio degli spazi umoristici che difficilmente è possibile trovare nelle produzioni del genere (men che mai nelle successive dell'autore) e che penso ne costituiscano uno dei tratti più interessanti. Risponde a questa esigenza anche il cammeo (decisamente più mediocre, in verità) di Bud Spencer, strappato al suo ruolo caratteristico da scazzotatore di saloon improvvisati.

Nel complesso Quattro mosche risolleva le sorti di una trilogia pesantemente affossata da Il gatto a nove code, vero e proprio fallimento stilistico e di struttura. Pur non trattandosi di un capolavoro assoluto, si tratta di un film del tutto dignitoso, infiocchetato anche da una serie di riferimenti eruditi che non spiacciono nonostante la loro autoreferenzialità. Senza dubbio uno dei migliori lavori di Argento dopo Profondo Rosso.

VOTO: 6.50/10 

domenica 27 aprile 2014

Distretto 13: Le brigate della morte



Distretto 13: Le brigate della morte di John Carpenter - Genere: thriller - USA, 1976

John Carpenter è senza dubbio uno degli autori che ha contribuito a fondare un tipo di cinema, troppo spesso snobbato dalla critica e dal pubblico, che ha condizionato fortemente il nostro immaginario. Universalmente noto (ma mai sufficientemente celebrato) per il capolavoro Halloween: La notte delle streghe, Carpenter si è sempre presentato come un regista abile e dallo stile sorvegliatissimo. Lo dimostra benissimo questo Distretto 13, sua seconda opera immediatamente precedente al primo capitolo della saga di Michael Meyers. Fortemente influenzato da Romero e dalla fondazione dello zombie movie, Carpenter realizza un film profondamente contemporaneo ancora oggi, che si presenta come un'accurata riflessione sulla violenza urbana e su alcune fondamentali caratteristiche della società americana (La notte del giudizio a confronto è un nonnulla). 

Pur senza ricadere nella vacua previdibilità di una analisi sociologica inconsistente, già nel '76 Carpenter era riuscito a diagnosticare con evidenza il ruolo che la violenza ha all'interno della mentalità yankee, adottando significativamente lo stile dell'assalto che di solito - lo abbiamo detto - è tipico della massa di non-morti, agglomerato decerebrato guidato soltanto da un oscuro istinto di morte. In un primo tempo snobbato praticamente da chiunque, Le brigate della morte ha conosciuto una grande rivalutazione negli ultimi tempi, arrivando a presentarsi come un film molto quotato sui maggiori siti di cinema (4/5 per Mymovies e 10/10 per Comingsoon). Pur non condividendo i toni forse eccessivamente entusiastici di questa rifioritura critica, devo riconoscere che il film di Carpenter si lascia apprezzare per la libertà linguistica, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei piani e la composizione dell'inquadratura. 

Completa il tutto una nutrita serie di citazioni erudite che riprendono alcuni stereotipi di genere satellite, come il noir (viene perfettamente mimata una scena originalmente attribuita alla coppia divistica Bogart/Bacal). Questo rende Distretto 13 un film ancora oggi validissimo, che si lascia apprezzare sotto il profilo tecnico forse più che sotto quello drammatico. Certamente un titolo da recuperare per l'ottima gestione del thrilling e del ritmo narrativo.

VOTO: 6.50/10 

sabato 26 aprile 2014

La Via Lattea



La Via Lattea di Luis Bunuel - Genere: drammatico/grottesco - Francia, 1969

Bunuel è noto ai più solo come l'autore dei due massimi capolavori del cinema surrealista (non che ce ne siano stati molti altri in quel periodo), realizzati in collaborazione con Salvador Dalì, Un chien andalou e L'age d'or. In realtà Bunuel è stato un cineasta incredibilmente prolifico che è riuscito, pur mantenendo costante una propria linea di ricerca, ad adattarsi ai tempi che cambiavano velocemente. Diventato uno dei massimi maestri del cinema moderno europeo, il regista spagnolo ha fatto sentire la propria influenza soprattutto in America latina dove ha contribuito a fondare per la prima volta il senso di una cinematografia nazionale. Ed è proprio in questo contesto che dev'essere letta La Via Lattea, film impegnativo dal punto di vista teorico e stilistico nel quale Bunuel affronta con disincanto e amara e sferzante ironia, il problema della religione da un punto di vista non solo cinematografico ma, ci verrebbe da dire, filosofico. 

Seguendo il percorso di due viandanti in pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, Bunuel realizza una composizione aperta, dove il protagonismo dei personaggi viene del tutto meno, lasciando il posto a una struttura quasi episodica, in cui i due pellegrini hanno un ruolo a volte persino marginale. Ridotti a osservatori molto spesso impotenti dei siparietti grotteschi che Bunuel realizza, i due vengono ad assumere lo stesso valore epistemologico degli spettatori, di cui si fanno figura. Di fronte ai loro (e dunque ai nostri) occhi si dipana con una sagacia che spesso sconfina nella satira vera e propria un vero carnevale della teologia, nel quale Bunuel - perdendo completamente il senso della coerenza temporale - arriva a cucire un arazzo di frammenti a tratti persino blasfemi. Stilisticamente, non che ci sia bisogno di dirlo, il lavoro è poi curatissimo e diventa un perfetto esempio di uno stile coerentemente lanciato verso la negazione del paradigma classicista, che non viene abbandonato completamente (non siamo al Neoralismo), ma integrato e complessificato con soluzioni più elaborate per quello che riguarda la regia e la fotografia.

Ciò nondimeno La Via Lattea si fa apprezzare, almeno così mi pare, più per il contenuto e il portato filosofico/morale che per la qualità visiva, che sconta i suoi anni almeno in parte. 

VOTO: 7.50/10 

giovedì 24 aprile 2014

Oblivion



Oblivion di Joseph Kosinski - Genere: fantascienza - USA, 2013

Il 2013 sembra essere stato l'anno di grazia per la fantascienza, da Pacific Rim (con il quale, lo ammetto, avrei dovuto essere più clemente in termini di giudizio) all'orrido After Earth. E se ognuno di questi titoli ha avuto il suo divo come protagonista (non dimentichiamoci Matt Damon in Elysium), non poteva certo mancare un titolo sci-fi che ruotasse intorno all'americanissimo Tom Cruise. Dalla regia di Kosinski, già autore del sequel di quel successo indiscusso che fu Tron, mi sarei aspettato qualcosa di più legato alla sua opera di debutto (appunto, Tron: Legacy). Invece, confermando quello che ormai sembra un vero e proprio neo-stereotipo del genere fantascientifico, il poliedrico artista statunitense ci propone una Terra in rovina, abbandonata dai suoi abitanti messi in scacco da un popolo invasore. 

Attraverso una sceneggiatura decisamente ben scritta ma a tratti eccessivamente involuta e capziosa (quindi un po' forzata!), la narrazione si snoda attorno al grande inganno centrale, di cui il nostro povero Cruise rimane suo malgrado vittima. Le due metà del film, piuttosto lungo, si compenetrano efficacemente ma questo non basta a farlo decollare del tutto; purtroppo l'intera struttura della narrazione è viziata da una serie di piccoli difetti che ne mettono in crisi la struttura. Al di là della mancata esuberanza stilistica laddove ci si sarebbe aspettati un tripudio di effetti speciali accompagnati magari da scelte di regia più impegnative, il vero problema di Oblivion sta secondo me nella sua ostinata e ormai vecchiotta morale americana. 

Tutto, nella Terra abbandonata e nei protagonisti che la abitano, ci parla di un mondo/America che sembra essere il fallimento del progetto di assorbimento culturale messo in atto dagli Stati Uniti. La ripresa di elementi tipici della yankee culture è continua: il campo da baseball, l'eroismo eticamente incorrotto di Cruise e quello saggio dell'ormai attempato Freeman (un personaggio, spiace dirlo, piuttosto ridicolo in questo caso), il mito della famiglia/coppia americana e molto altro ancora. Conclude il tutto una citazione del capolavoro kubrickiano 2001: Odissea nello spazio, con una ripresa scoperta dell'occhio rosso di Hal9000, segno di come anche il grande cinema d'autore possa essere asservito a questo genere di prodotti.

VOTO: 4.50/10 

mercoledì 23 aprile 2014

L'age atomique



L'age atomique di Héléna Klotz - Genere: drammatico - Francia, 2012

Ho guardato questo film perché ero incuriosito dal titolo (l'importanza del paratesto quando si presenta un prodotto è - checché se ne dica - fondamentale) e dall'assoluta essenzialità della trama. Ammetto che, da grande fan del regista canadese, mi aspettavo un film alla Xavier Dolan. Sulla carta le premesse parevano esserci: due giovani abitanti della notte parigina, di cui uno a metà fra l'omosessualità e l'androginia e fra i quali si sviluppa un rapporto abbastanza indefinito e a tratti quasi morboso. E' un peccato che piuttosto in fretta io mi sia dovuto ricredere e abbia visto scemare le mie aspettative, forse troppo alte.

Per fare subito chiarezza ci tengo a dire che, al di là di qualche momento poco felice, L'age atomique è un film che sotto il profilo visivo funziona piuttosto bene. Soprattutto per quanto concerne la fotografia d'esterni, che secondo me ne rappresenta il punto di forza assoluta. Ambienti vuoti e desolati, quelli della capitale francese ripresa di notte con grande sensibilità, si alternano alle riprese d'interni nella discoteca dove i nostri due protagonisti si ritrovano. In questa seconda frazione di scene la ricerca dell'effetto Dolan è palese ma - mi pare - non riuscita. Il vero problema di questo film è a livello narrativo: nonostante la sua estrema brevità (60 minuti scarsi), L'age atomique è - spiace dirlo - un prodotto davvero noioso; per meglio dire, pretenzioso. Questo perché la caratterizzazione dei due protagonisti è piuttosto abborracciata e si accontenta di presentarceli come due tipi che vorrebbero recuperare lo spirito bohemiene senza in realtà riuscirci in nessun caso; anzi, spesso l'effetto complessivo è piuttosto ridicolo (come nella lunga, lunghissima sequenza in cui si incontrano gli altri tre ragazzi "figli di papà"). 

Purtroppo il giudizio per questo titolo non può che essere negativo, ed è un vero peccato. A fronte di indubbi meriti tecnici che ne avrebbero potuto garantire il fascino magmatico, il film della Klotz si accartoccia del tutto sulla sceneggiatura e finisce col diventare un oggetto di cui non mi sento di consigliare la visione.

VOTO: 4/10 

martedì 22 aprile 2014

Fight Club



Fight Club di David Fincher - Genere: thriller/drammatico - USA, 1999

David Fincher, regista che ha dato il meglio di sé alla fine degli anni Novanta, è l'autore (ci sarebbe da chiedersi quanto noto), di uno dei film più noti e citati di tutti i tempi. Dopo lo straordinario successo di Seven (1995) e quello del film qui presente, il cineasta di Denver si è eclissato, fuoriscendo dall'anonimato a partire dall'interessante Zodiac, datato 2007, che ha cercato e almeno in parte è riuscito a rifondare la strada del genere thriller. Dal genio di Palahniuk, Fincher crea una pellicola efficace che riprende e approfondisce alcuni degli aspetti tematici già abbozzati nel film precedente, che vedeva ancora il buon Brad Pitt come protagonista. Forse potrei essere di parte, ma considerando che Fight Club, per quanto mi sia piaciuto non rappresenti per me un capolavoro indiscusso (almeno non ai livelli a cui di solito viene valutato), posso dire sinceramente che Fincher è riuscito a raccontare, molto prima e molto meglio del sopravvalutato Nolan i meccanismi della mente e della psicologia umana.

Fight Club ci propone per la prima volta una struttura drammatica à la Saw, dove tutto è apparentemente a portata di mano per la comprensione della vicenda. Giocando con le aspettative dello spettatore il regista orchestra una diegesi che si rivela solo nell'epifania finale, raggelando la capacità di analisi del pubblico. Tutto orbita attorno alle ottime performance recitative di Brad Pitt e dell'eccellente Edward Norton, vero e proprio centro nevralgico dell'intera opera; seguendo la sua esistenza in modo non lineare, con un uso libero e dinamico della grammatica visiva, Fincher confeziona un'opera agile che sembra girata addosso al suo protagonista (o dovremmo dire ai suoi?), alternando con un ritmo davvero riuscito episodi comico-macchiettistici, riflessioni di carattere più alto (che spesso sono più suggerite che mostrate) e sequenze d'azione/dinamismo molto ben studiate.

Tutto sommato non si può non rendere merito a Fincher per la freschezza e la piacevolezza della sua opera, che per quanto mi riguarda non riesce comunque a eguagliare i livelli di ricercatezza drammatica e formale del suo predecessore Seven. Si mantiene comunque un titolo validissimo, che non sente per nulla il peso dei suoi ormai quindici anni. 

VOTO: 7.50/10 

lunedì 21 aprile 2014

Ichi the killer



Ichi the killer di Takashi Miike - Genere: thriller - Giappone, 2001

Takashi Mike è senza dubbio uno dei registi più controversi della cinematografia giapponese e, per alcuni suoi titoli importanti come Audition, pure uno degli interpreti più interessanti della contemporaneità. Ichi the killer è forse uno dei suoi film più noti; non particolarmente apprezzato dalla critica per motivi in parte condivisibili, la pellicola è presto diventata un vero e proprio prodotto di culto entro cerchie ben determinate di fans. Opera fondamentale per comprendere la poetica del regista e il suo rapporto alle cose, oltre che il suo modo di tratteggiare elementi fondamentali dell'animo umano, Ichi è utile addirittura per gettare luce su scelte apparentemente fuori registro della sua filmografia, come il già recensito Yattaman

Delirio ultrapop di una mente apparentemente malata, Ichi propone una struttura diegetica abbastanza tradizionale che si inscrive agevolmente nell'ambito del noir contemporaneo, una crime story di Yakuza che apparentemente potrebbe non avere troppo da dire: il rapimento di un capo mafioso dà il via a uno sviluppo drammatico che in realtà, pur mantenendo una salda compattezza narrativa, si arricchisce di tanti "piccoli" elementi incongruenti che ne costituiscono la fortuna. Il film è talmente gonfio di assurdità apparentemente convenzionali che a mio avviso illumina magistralmente quello strano gusto dei giapponesi per l'assurdo (e che è poi uno dei motivi per cui, almeno un certo loro cinema, o lo si ama o lo si odia; Mike ne è un classico esempio).

Solo a partire da questa considerazione si possono comprendere meglio e forse completamente tutte le sequenze ultraviolente che hanno contribuito a inserire il film nella classifica dei cinquanta titoli più disturbanti stilata da un noto sito di cultura popolare. Una tecnica registica praticamente magistrale si associa così a scene di tortura spinte sino al parossismo e a un gusto per il grottesco e l'atto dello smembramento che spesso supera il limite di sopportazione dello spettatore medio; a tutto ciò si aggiunge poi, integrandosi in maniera inaspettata ma del tutto naturale la sequela di piccole infiorettature pseudocomiche che costituiscono la cifra fondamentale, il gusto autentico del film. 

Nel complesso si tratta di un film molto bello dal mio punto di vista, anche se sono propenso a condividere alcune critiche dei più; di certo non si tratta di un lavoro che consiglierei a tutti. Bisogna essere abbastanza forti da accettare, nel giro di pochi secondi, di passare da un sorriso alla comprensione della grande tragicità sottocutanea che scorre ostinatamente lungo tutto il film, rivelando un lato esistenzialista che a prima vista si potrebbe non cogliere.

VOTO: 8/10 

domenica 20 aprile 2014

Sinister



Sinister di Scott Derrickson - Genere: horror - USA, 2012

L'analisi di Sinister, film partorito dal genio creativo di Scott Derrickson (regista di non più di una manciata di film, fra cui l'improponibile Hellraiser 5 e il certamente più riuscito L'esorcismo di Emily Rose), conferma una delle tendenze condivise dal cinema contemporaneo sotto il profilo commerciale, che si applica soprattutto nel caso del cinema horror/thriller (oggi giorno la demarcazione mi sembra diventata molto sfumata...). Mi riferisco all'idea per cui un prodotto di successo (ovviamente al botteghino, non alludo alla qualità estetica!), debba dettare legge per gli anni a venire. Nel caso in esame  è singolare notare come i produttori siano gli stessi di Insidious, film dal quale Sinister copia in maniera evidente tanto l'impostazione drammatica quanto parte dei topoi. Si dirà che questo si è sempre fatto, ed  è assolutamente vero. Ma se negli anni Settanta/Ottanta i filoni di film-cloni nascevano da prodotti abbastanza validi sotto il profilo tecnico, nel nostro caso la situazione è ben diversa; già Insidious infatti era quello che si potrebbe tranquillamente definire un film di bassa lega. 

A partire dall'ormai trita e ritrita idea della casa infestata, Derrickson mette in piedi una trama debole che arriva a scomodare addirittura antiche divinità babilonesi, palesatesi nel nostro secolo con sembianze piuttosto ridicole. Al di là della assoluta inconsistenza dell'intreccio, però, bisogna dire che qualche merito il film ce l'ha, soprattutto sotto il profilo visivo. La regia è decisamente buona e l'impaginazione delle immagini è ben studiata e interessante; inoltre, questo è poi l'aspetto che mi pare più importante, Derrickson tenta di proporre, nelle sequenze in cui il suo protagonista visiona i misteriosi Super8 trovati in soffitta, alcune riflessioni di carattere metacinematografico. Il risultato è senza dubbio non centratissimo, ma lo sforzo è certamente apprezzabile, soprattutto di questi tempi. 

Ethan Hawke, attore di lunga carriera già visto ne La notte del giudizio, si trova qui costretto a interpretare la parte assolutamente stereotipica dello scrittore in fallimento col pallino per gli omicidi che, proprio guardando le immagini (à la Blow out, potremmo dire se non temessimo di stare formulando un'eresia), scopre l'intrigo del sopraccitato demone mesopotamico. Peccato che il suo ruolo lo costringa a recitare in una maniera assolutamente piatta e decisamente poco convincente. Sinister, insomma, è un film che non convince, al di là di alcuni innegabili meriti tecnici sotto il profilo della regia e della fotografia. I toni trionfalistici col quale la critica non professionistica (leggasi il pubblico) lo hanno accolto, sono decisamente fuori luogo. 

VOTO: 5/10 

giovedì 17 aprile 2014

La sottile linea rossa



La sottile linea rossa di Terence Malick - Genere: drammatico/guerra - USA, 1998

Malick è un regista nei confronti del quale ho difficili problemi di rapporto e non mi vergogno certo a riconoscerlo. Di più, posso dire tranquillamente che, per quelli che sono i miei gusti e in base a quello che cerco dal cinema, lui di certo non mi piace e non è uno dei registi che apprezzo in senso assoluto, soprattutto considerando l'impressione abbastanza negativa (The tree of life) o molto negativa (To the wonder) che mi hanno fatto i suoi ultimi film. Probabilmente si tratta di un mio limite e su questo ovviamente si può discutere, ma tant'è. Ero molto scettico dunque quando ho deciso di prendere in mano questo La sottile linea rossa, film arrivato in Italia quasi parallelamente al forse più noto film spielbergeano Salvate il soldato Ryan, il quale senza dubbio costituisce un esempio solo mediocre di come si possa realizzare un film sulla guerra. Ero intimorito dalla durata colossale dell'opera, lunga quasi tre ore, e i miei trascorsi con Malick non mi lasciavano ben sperare. Fortunatamente, posso ammettere in tutta tranquillità, che questo film è veramente ben fatto e mi ha molto colpito (anche se questo, va da sé, non modifica la mia opinione sul regista o sui suoi ultimi titoli). 

Preciso subito: personalmente credo che ci troviamo di fronte a un lavoro del quale si potrebbe parlare per ore, confrontandosi su argomenti molteplici, come l'appartenenza di genere; io stesso sono restio a classificarlo primamente come film di guerra, ma le generalizzazioni a volte aiutano e sono comunque una indicazione fondamentale per il pubblico. Come mi è capitato di fare più volte con film particolarmente complessi, mi limiterò a gettare qualche elemento interessante, senza pretese di completezza o sistematicità; senza dubbio si tratta di una visione che merita di essere fatta. 

Al di là di una regia che, come sempre in Malick (e questa è la parte migliore dei suoi ultimi film) è attentissima e dal punto di vista della fotografia è probabilmente insuperabile in quanto a bellezza e pulizia, il grande merito che dev'essere tributato al regista de La sottile linea rossa è relativo alla sua grande capacità di non ridurre il tema bellico a una sequela di combattimenti infarciti di una retorica stanca e troppo spesso manichea (come nel caso del buon Spielberg). Durante il racconto, non per questo meno crudo, della conquista da parte dell'esercito americano di una posizione strategica in Oceania nella Seconda Guerra mondiale, Malick riesce a ritagliare uno spazio concreto per divagazioni (nel senso più alto del termine) di una voce speculativa che si trova a riflettere su problemi ontologici o comunque smaccatamente filosofici. Questo fa in modo che il film possa elevarsi e assumere un tono speculativo che coinvolge tutti i personaggi, interpretati, in maniera sempre apprezzabile, da un cast importante dove si contano vari nomi del cinema di un certo livello di oggi e dell'immediato passato. 

Ho detto personaggi, perché proprio per evitare i facili eroicismi della guerra (soprattutto della Holy War del 1939-45), Malick sembra rigettare l'idea di uno o più protagonisti e affida il suo lavoro a una conduzione corale che snocciola, domanda dopo domanda, un poema drammatico e toccante che esula dalla guerra e finisce col parlarci profondamente della nostra condizione come esseri viventi. 

VOTO: 8/10 

mercoledì 16 aprile 2014

Le Iene



Le Iene di Quentin Tarantino - Genere: azione, thriller - USA, 1992

Nel mio ultimo post, parlando della prima opera di Dario Argento, ho detto che si è trattato di un esordio convincente che si è presto tramutato in uno stile cancrenizzato e insoddisfacente. Quentin Tarantino, regista per il quale ho senza dubbio un rapporto di amore/odio, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, confeziona un film straordinario, di una violenza visiva inenarrabile ma - soprattutto - di uno stile talmente sofisticato e al tempo stesso apparentemente facile da far venire i brividi. Mi pare infatti che una delle caratteristiche fondamentali dei film di Tarantino, penso a Kill Bill e in misura minore a Pulp Fiction, sia la loro grandissima capacità di parlare efficacemente anche ai non addetti ai lavori, o quantomeno al pubblico che dal cinema esige solo un sano intrattenimento. Ho a lungo pensato che questo carattere pop (nel senso etimologico del termine) fosse un potenziale demerito, ma sto lentamente convincendomi a rivedere la mia posizione. 

In ogni caso Le Iene contiene in sé un cocktail esplosivo di elementi che ci raccontano, in una specie di teatro kabuki della violenza gratuita, praticamente tutto il cinema di Tarantino precedente a Bastardi senza gloria, per il quale va fatto senza dubbio un discorso almeno in parte diverso. Siamo di fronte a un film che è davvero una prova registica di grande valore, che ci dice in modo succinto e stringato quanto bisogna sapere sull'estetica di Tarantino e sulla sua capacità mascherare il proprio valore ai più. Intendiamoci, Le Iene è senza dubbio un film difficile da girare e che mette subito in chiaro quella che è la tempra di uno dei registi più controversi ma importanti delle ultime decadi. Anche se forse c'è ancora qualche asperità da smussare, la linea narrativa a intreccio è gestita in maniera egregia e il titolo è già un crogiolo di citazioni che arrivano fino all'ormai ben noto spaghetti western Django.

Tarantino lo si può apprezzare o no, ma è senza dubbio un dovere della critica quello di rendere merito all'importanza di titoli tanto ben realizzati. Forse non eccessivamente rivoluzionari in questo caso, ma davvero egregiamente orchestrati sotto il profilo della tecnica.

VOTO: 9/10 

martedì 15 aprile 2014

L'uccello dalle piume di cristallo



L'uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento - Genere: thriller - Italia, 1970

Se esistesse una petizione per cacciare Argento dalla scena cinematografica italiana, tutti sanno benissimo che la firmerei. Non sarò mai troppo stanco di ripetere come io trovi la fama di questo regista eccessiva e in larga parte immeritata, soprattutto viste le sue ultime derive. Ciò nondimeno, una serena valutazione critica del suo corpus cinematografico non può non portare alla luce la presenza di alcuni titoli decisamente interessanti, come Profondo Rosso (forse il suo film più noto) e il qui presente L'uccello dalle piume di cristallo, datato 1970, che segna l'esordio del cineasta romano dietro alla macchina da presa. Esordio della cosiddetta Trilogia degli animali (è bene precisare il cosiddetta perché in tutti e tre i film che la costituiscono, come nel mediocre Il gatto a nove code, il referente zoologico risulta poco più di un pretesto), al di là di un indubbio valore estetico per interessanti trovate stilistiche che propongono una linea regista sciolta e gradevole, il titolo in esame merita di essere ricordato senza dubbio per la sua importanza storica. 

Se si cercasse un film in grado di dettare legge, o quantomeno capace di cambiare le carte in tavola nel panorama del giallo italiano, questo sarebbe senza dubbio L'uccello dalle piume di cristallo. Sgravando la tradizione dallo schema di Mario Bava, che ebbe il merito di inaugurare il genere (Sei donne per l'assassino ne è un classico esempio), il film di Argento realizza un perfetto sposalizio fra uno stile registico non aneddotico, in cui predomina l'uso della soggettiva e una struttura diegetica  consistente che detterà praticamente  legge all'interno del cinema italiano degli anni immediatamente successivi e non solo. Questo vale anche (e forse soprattutto) per la caratterizzazione dei personaggi: il ruolo morboso e paranoide affidato alle figure femminili, il protagonismo di scrittori/giornalisti/fotografi che si trovano a diventare detective e l'identità celata dell'assassino, sempre connessa alla doppiezza e ai disturbi dell'identità.

Un film gradevole e molto ben riuscito. Un peccato che abbia dato origine a una posterità tanto sfortunata (sia per quanto riguarda gli altri registi che ne sono stati condizionati, sia per quanto concerne la poetica dello stesso Argento)

VOTO: 7/10 

sabato 12 aprile 2014

Nymphomaniac: Volume II



Nymphomaniac: Volume II di Lars von Trier - Genere: drammatico - Danimarca, Germania, Regno Unito, Belgio, 2013

Dopo l'uscita di Nymphomaniac: Volume I in Italia, dove il film è adesso in programmazione, si è avuto modo di leggere più o meno di tutto, sia sulle testate specialistiche cartacee e non che su pagine meno formali, come blog o semplici siti di approfondimento gestiti da utenti. C'era da aspettarselo; Lars von Trier ha sempre fatto parlare molto di sé e un titolo come questo non poteva che accendere la polemica. La divisione fra chi lo ha ritenuto una splendida summa del cinema del regista e chi invece lo ha stroncato o quasi è stata netta come al solito. Tralasciando i commenti, pure esistenti, che definiscono il film visivamente brutto o poco riuscito (sono valutazioni evidentemente non utili ai fini della critica), qualcuno vi ha trovato molta filosofia, molta profondità e altri solo molte chiacchiere. Personalmente, pur situandomi all'interno del primo gruppo, non faccio fatica a capire le motivazioni dei detrattori, che pure ho parzialmente condiviso per alcuni precedenti lavori del regista danese. 

Riguardo al Volume II di quest'opera tanto complessa, che io ritengo il capolavoro (o almeno uno dei massimi lavori di von Trier), tecnicamente non c'è molto da aggiungere rispetto alla parte precedente; anche l'idea di dividere le recensioni non mi ha conquistato, ma data la diffusione "episodica" dei film la scelta è stata necessaria. Dunque ancora una volta ottima regia, fotografia magistralmente orchestrata su cui si inscrive, con un uso sbrigliatissimo, una semiosfera di segni diversi, che fanno da commento o apertura discorsiva al contenuto narrativo. Se dovessi individuare un valore che cambia dal primo capitolo a questo secondo è senza dubbio il senso della recitazione, che almeno in parte mi pare mutato. Shia Labeouf si mostra in questa seconda parte di Nymphomaniac in modo molto più sfaccettato e profondo di quanto non facesse nei primi cinque capitoli della storia, dove era più che altro un inarrivabile oggetto di desiderio. Qui invece abbiamo modo di apprezzare appieno delle insospettabili (almeno per me) doti recitative, in un personaggio incredibilmente toccante e a suo modo intimamente positivo. La Gainsbourg, sempre meravigliosa nel suo rapporto simbiotico e quasi di sfruttamento con il regista, appare qui non più come una dominatrice violenta, ma quasi come una vittima indifesa alla costante ricerca di un orgasmo che si tinge a tratti di un misticismo che, se per molti potrebbe risultare fastidioso a causa delle implicazioni religiose, per me è senz'altro assolutamente geniale. 

Interessante anche la sequenza in cui Joe fa sesso con due uomini di colore, volendo sperimentare l'esperienza di avere un rapporto sessuale con persone delle quali non conoscesse il linguaggio e delle quali fosse quindi in pieno potere. Senza dubbio il personaggio più affascinante, almeno per me, è pero Jamie Bell, attore protagonista del lacrimoso Billy Elliot, che qui viene rappresentato come un sadomasochista decisamente affascinante, per quanto inquietante. Von Trier ha probabilmente voluto giocare con le conoscenze cinematografiche del suo pubblico, rovesciando di segno l'eroe positivo di un notissimo successo di pubblico: per quanto Bell abbia recitato in diversi altri film, il ruolo che lo ha segnato è senza dubbio stato quello del suo debutto nel 2000; tutti lo ricordiamo per quello. 

Personalmente credo che a un livello che potremmo definire "filosofico", ci sia molto altro da dire ma questa non mi pare la sede adatta. Senza dubbio, traendo un giudizio sintetico su questo secondo capitolo, non posso che confermare quanto detto per il precedente, vale a dire elogiare la potenza/violenza visiva di un film girato benissimo e dalle elevate pretese stilistiche e di contenuto. Confermo l'impossibilità di paragonarlo a Shame, pure gradevole, rispetto al quale si pone decisamente su un'altro livello. L'attesa per la versione non censurata è assolutamente grande e senza dubbio quello sarà il momento della valutazione più importante per un film tanto discusso.

VOTO: 9.50/10 

martedì 8 aprile 2014

Pulse



Pulse (titolo originale: Kairo) di Kiyoshi Kurosawa - Genere: horror/thriller - Giappone, 2001

Forse fra i grandi capolavori dell'horror giapponese, quelli che hanno contribuito a definire il rinnovamento degli anni Zero all'interno del genere godendo di una pervasività enorme legata non tanto ai sequel ma piuttosto ai remake americani, che ho recensito e visto sino ad oggi, Pulse merita il primo posto per quanto riguarda la complessità dell'intreccio e la vastità delle implicazioni teoriche e/o filosofiche che si porta dietro. Ben più dell'osannatissimo Cure, del medesimo Kurosawa, Pulse si presenta come un titolo che è stato in grado, in tempi decisamente non sospetti, di raccontare con una visionarietà disarmante alcuni dei tratti più significativi della contemporaneità attuale. 

Entro la cornice tradizionale dell'horror che potremmo definire con un termine sicuramente improprio "d'apparizione", nel quale delle entità non meglio definite comunicano in qualche modo con il mondo fenomenico, Kurosawa riesce ad inserire, seppure in maniera non sempre convincente, una dimensione cosmica che amplifica enormemente la drammaticità del racconto. Ring non ha avuto questa fortuna, anche se nel romanzo Loop (che conclude il ciclo dal cui titolo di testa il film è tratto), Koji Suzuki fa un ottimo e riuscitissimo tentativo in questo senso. Tornando a Pulse, Kurosawa mette in scena con una grande lucidità e capacità di racconto il Giappone di fine anni Novanta/inizio anni Zero usando il computer come interfaccia di analisi. Questo gli dà la possibilità di analizzare alcuni dei fenomeni oggi più comuni legati all'uso della rete, ma all'epoca incredibilmente innovativi (mi riferisco ad esempio alla condivisione di immagini in streaming, al problema dell'identità dietro lo schermo, alle conseguenze psicosociali delle reti telematiche etc). Il tutto prende corpo attraverso una grande capacità scenica, che si esprime in una composizione solidissima e strutturata su più piani, cui corrisponde un uso libero della macchina da presa e del montaggio.

Ma se il tutto si limitasse a questo, la grande fama di Pulse sarebbe almeno in parte ingiustificata. Ciò che rende questo titolo capace di imporsi a livello mondiale come uno dei titoli capitali dello scorso decennio è senza dubbio la sua capacità di trasfigurare i dati accidentali in universali, cosa che consente a Kurosawa di ipotizzare, nel finale del film (che è senza dubbio la parte meno riuscita) una globalizzazione del dramma di cui l'opera racconta. Più importante sembra però il modo di trattare i corpi fantasmatici, che significativamente si riducono a macchie nere quasi putrescenti o a un pulviscolo fluttuante che è impossibile trattenere. Corpi disintegrati, immagini della catastrofe; per me, concrezioni visive del dramma di Hiroshima.

VOTO: 9/10 

lunedì 7 aprile 2014

Yattaman: Il film



Yattaman: Il film di Takashi Mike - Genere: commedia/fantascienza - Giappone, 2009

Forse qualcuno oltre a me guardava i cartoni che trasmettevano sulle reti secondarie come Italia 7 Gold, canale su cui sono andate in onda serie anime assolutamente pregevoli come L'uomo Tigre e Ken Il Guerriero. Nella programmazione preserale di questa rete c'era anche Yattaman, sgangheratissimo anime che fondeva elementi di una comicità surreale, battaglie con robot in puro stile giapponese e una ostinata insistenza sulla nudità e la sessualità. Aver scoperto che quel folle di Takashi Mike ha realizzato qualche anno fa un film live action di questa bella serie animata mi ha molto colpito, perché si tratta di un cartone abbastanza datato anche a livello di grafica e disegni, perciò ero molto curioso di vedere il risultato. Il difficile, nei confronti di un prodotto come Yattaman è senza dubbio quello di rendere al meglio l'assurdità delle trovate di spirito che lo hanno da sempre contraddistinto, cosa che poteva risultare impedita o resa più ostica con il cambio di linguaggio insito nella transizione tv/cinema.

Mike è senza dubbio un regista che ci sa fare e la sua capacità indiscussa gli ha consentito di soddisfare appieno la richiesta implicita che tutti coloro che hanno apprezzato la serie gli ponevano. Pur non caratterizzando in modo pienamente soddisfacente i due personaggi positivi (molto più riuscita è l'impresa relativa al Trio Dronio, che anche nella serie era in effetti ciò che contribuiva in maniera sostanziale a reggere l'edificio), la sceneggiatura si basa interamente sui giochi di spirito, che sono sempre divertenti e in pieno stile Yattaman. Viene invece completamente a mancare la componente "erotica" (mi rendo conto che il termine è fuorviante, ma non ne ho di migliori...), ma sinceramente non se ne sente troppo la mancanza. Forse tutto sommato lo Yattaman cinematografico è più adatto ai bambini di quanto non lo fosse quello televisivo, ma in effetti non si tratta di un format in cui la correttezza logica la fa da padrone, anzi forse è vero completamente l'opposto. 

Tutto sommato, pur in presenza di qualche difetto e certamente non presentandosi come un titolo dall'alto contenuto estetico, Yattaman riesce a raccontare con successo le atmosfere del cartone cult grazie a una regia attenta e sensibile a quello che era il vero senso della serie.

VOTO: 6/10 

domenica 6 aprile 2014

Riddick

 

Riddick di David Twohy - Genere: fantascienza/azione - USA, 2013

Sembra che i titoli commerciali di successo (per evidenti ragioni monetarie) non possano proprio esimersi dal bisogno di fondare delle trilogie (o tetralogie, o peggio...). David Twohy, regista visionario che ha dato al personaggio di Riddick tutto il suo fascino con il bel Pitch Black, titolo di ormai quasi quindici anni fa, cui ha fatto seguito il non altrettanto riuscito The Chronicles of Riddick, ha deciso di non farsi mancare il terzo episodio di una saga che poteva benissimo chiudersi nel 2004. Questo terzo episodio di uno dei più fortunati film di fantascienza degli anni Zero (insieme, ovviamente, a Matrix, del quale però Pitch Black non ha la levatura filosofica e teorica) delude sotto molti punti di vista, a partire - come ho cercato di spiegare - dalla sua stessa esistenza. Pur ricollegandosi al precedente capitolo della trilogia, Riddick lo fa in una maniera piuttosto debole e fantasiosa, seppure in qualche senso coerente con la morale della intera serie.

Questo contribuisce a rendere manifesto il difetto principale del film, che si situa a livello di ritmo e debolezza dell'intreccio drammatico: sulla durata di centoventi minuti circa il film propone un lunghissimo e ben poco utile prologo che sembra fatto apposta per i neofiti della serie, come se ci fosse bisogno di ambientarsi nei confronti del personaggio e del suo stile di vita. Ancor più tamarro di come lo avevamo lasciato, Vin Diesel, sciorina una serie di massime da tipico action movie americano per poi lasciarci a un buon venti minuti di lotta per sopravvivenza del tutto irrealistica che si conclude niente meno che con l'adozione di una specie di cane (c'era proprio bisogno di un amico a quattro zampe?). Dopodiché inizia il vero e proprio sviluppo della trama, che vede Riddick opposto a due compagini (poi alleatisi) di individui che cercano di catturarlo. Nulla di nuovo sotto il sole e anche qui l'azione stenta a decollare: Twohy predilige elementi stealth e dalle sfumature horror che sembrerebbero voler tornare a Pitch Black, purtroppo senza riuscire a mimarne la freschezza e l'efficacia. Anche a livello di effetti speciali non si può segnalare nulla di particolarmente eclatante, cosa che forse si può imputare al budget piuttosto ridotto (conseguenza del flop di The Chronicles of Riddick, con tutta probabilità). 

Nel complesso una conclusione piuttosto indegna per una serie che aveva fatto il botto al suo debutto, ripiegandosi poi in maniera piuttosto indegna per evidenti ragioni commerciali. 

VOTO: 4/10 

venerdì 4 aprile 2014

Madison County



Madison County di Eric England - Genere: horror - USA, 2011

Sembra un luogo comune, ma ormai è proprio vero che il genere horror sembra aver perso almeno parte della sua attrattiva. Salvo pochi capolavori indiscussi, gli ultimi vent'anni ci hanno regalato solo una quantità assolutamente indescrivibile di pattume cinematografico che meriterebbe di essere dimenticato quanto prima. Un genere imbastarditosi, senza niente più da comunicare agli spettatori e agli affezionatissimi, che ricicla ab infinitum degli stilemi narrativi e registici ormai incancrenitisi. E' questo, purtroppo, il caso di Madison County, film dell'americano Eric England il quale, sorprendentemente, ha cominciato a lavorare nel 2010 e ha al suo attivo (secondo la pagina di Wikipedia) già dieci film, con la media di circa 2.5 film all'anno. Questo dato dovrebbe essere sufficiente a non lasciare alcun dubbio sulla qualità delle sue opere; è un peccato che non abbia cercato prima questa informazione, perché mi avrebbe risparmiato 80 minuti di noia assoluta.

Ho detto che uno dei motivi per cui gli horror attuali sono ormai indegni è che non si rinnovano più: nell'opera di England la base dell'impianto drammatico e il suo sviluppo sono ripresi praticamente alla lettera da Non aprite quella porta, film - come si sa - del 1974 che a fronte di una fortuna spaventosa vanta già una serie di remake e sequel che ne hanno compromesso lungamente la qualità e la fortuna critica. England comunque prende il canovaccio ben consolidato dello slasher classico, senza considerare che un (sotto)genere che ha avuto la sua stagione aurea fra gli anni Settanta e i tardi anni Ottanta non è adatto a rappresentare adeguatamente lo spirito dei tempi. Più volte mi è capitato di stroncare titoli che riprendono gli elementi fondanti di Ring o di Paranormal Activity, ma almeno in quel caso le fonti di "ispirazione" erano legate ai tempi, mentre per Madison County si registra in generale un fastidioso anacronismo. 

Dopodiché, tutto il resto è in discesa. A fronte di una trama molto sfilacciata, che vorrebbe essere impressionante pur senza riuscirci e che comunque non si presenta come niente di particolarmente innovativo, abbiamo una sceneggiatura ai limiti della scolaricità per quel che riguarda l'approfondimento psicologico dei personaggi (meglio dire tipi) e delle loro interrelazioni psicologiche. Il tutto concorre a definire questo film come un vero e proprio fallimento, di cui non consiglio la visioni a priori dalle proprie preferenze cinematografiche.

VOTO: 2/10 

giovedì 3 aprile 2014

#AngoloTrash: Troll 2


Troll 2 di Claudio Fragasso - Genere: horror/trash - Italia, 1990

Notissima produzione italiana (!!!) dei primi anni Novanta, Troll 2 è uno dei film squallidi più celebri sul web. Ammirato negli USA come il migliore fra i film trash mai realizzati e compreso nei peggiori cento film recensiti su IMDB (anche se ormai è quasi uscito dalla lista... incredibilmente), il film è senza dubbio il motivo principe della fama (negativa) di Claudio Fragasso, autore di una serie assolutamente incredibile di film di bassa lega che ha anche firmato, assieme a Bruno Mattei, il celeberrimo Zombi 3, opera "incompiuta" del maestro Fulci, che ne ha girato solo una piccola parte prima di esserne impossibilitato a causa della sua malattia. Ai limiti dell'umana comprensione per la bassezza dell'intreccio e degli effetti visivi, Troll 2 è senza dubbio un titolo che un appassionato di film trash non può non conoscere. 

La trama è molto semplice: un'allegra famigliola americana va a passare un periodo di vacanza nella bucolica cittadina di Nilbog, seguita dal fidanzato della figlia maggiore e dai suoi amici. Gli abitanti di Nilbog sono in realtà dei goblin (e non dei troll...) che uccidono un po'di elementi del gruppo prima di essere eliminati. Fine. La prima cosa straordinaria da notare è che i goblin, già nella loro forma umana, sono vegetariani... e uccidono le persone per poi trasformale in alberi e potersi cibare delle loro "carni". Se tutto ciò non fosse già abbastanza assurdo, e mi pare lo sia, in una specie di chiesa sconsacrata che sembra un laboratorio alchemico si trova anche una strega, che in realtà è a sua volta un goblin (!!!) e che collabora con i suoi amichetti verdastri con l'obiettivo di eliminare la famiglia di cui sopra. 

Il film è pieno di assurdità sia a livello narrativo che tecnico (celeberrima la scena dei pop-corn, assolutamente impagabile!) ma alla fin fine per come è costruito non riesce a divertire fino in fondo, anche al di là della breve durata. In circa novanta minuti di film succedono tante di quelle cose strampalate e raccontate talmente male che l'effetto complessivo è un po'stordente e comunque si vorrebbe che la proiezione finisse il prima possibile. Peccato che non succeda e fra una recitazione pessima (da vedere anche il celebre Oh my god!) e degli effetti spaventosamente trash, Troll 2 si presenta come un titolo da cui forse, ormai, ci si aspetta un po' troppo. 

VOTO



mercoledì 2 aprile 2014

Grazie zia



Grazie zia di Salvatore Samperi - Genere: drammatico - Italia, 1968

Che i tardi anni Sessanta siano stati un'epoca agitata è cosa piuttosto nota; il '68 in particolare è da sempre legato a un ben preciso clima contestatario e (ancora) non ingenuamente giovanilistico come spesso si tende a dire in qualità di privilegiati ascoltatori di storie postume. In Italia, nel breve volgere di un paio d'anni, vedono la luce almeno tre titoli che hanno avuto un significato profondo per il rinnovamento del cinema italiano dal punto di vista del linguaggio e delle tematiche: I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965), Escalation (Roberto Faenza, 1968) e il qui presente Grazie zia. Meno nota del film di Bellocchio, la pellicola di Samperi affronta in maniera lucida e disincantata il rapporto torbido e pruriginoso che si sviluppa fra una zia e il proprio nipote falsamente disabile. Erroneamente considerato un film erotico a causa della storia morbosa che si sviluppa fra i due protagonisti, Grazie zia è in realtà uno splendido esempio di un cinema che si avviava a grandi passi nell'alveo della cosiddetta modernità. Cinema arrabbiato, che urlava con violenza e grande eversività visiva la sua necessità di dire qualcosa a tutti i costi. 

La bella Lisa Gastoni, quintessenza di una femminilità procace eppure estremamente fragile, danza ossessivamente sul palcoscenico dei desideri, manovrata abilmente da un Lou Castel bravo ma non all'altezza della sua partner femminile. Ciò che se ne ricava è un sismogramma dei sentimenti, raccontato da Samperi con grandissima eleganza e capacità di resa visiva, realizzata soprattutto grazie a un uso più libero della fotografia e del montaggio, che procede per associazioni spesso libere o quantomeno non immediatamente ascrivibili al sistema classico dei raccordi. 

Il film, di per sé per nulla spiacevole, è però poco più di questo. Al di là di alcune perplessità sul ritmo della vicenda e sul trattamento dell'intreccio drammatico, la regia di Samperi per quanto interessante sotto il profilo visivo rischia spesse volte di sconfinare pericolosamente nella pura esibizione degli stilemi tecnici. Il che non è assolutamente un male, ma nel caso di un intreccio forte come appare quello di Grazie zia, il risultato complessivo può finire col risultare eccessivamente appesantito. Ed è proprio quello che succede qui, dove tutta la prima parte sembra quasi perdere di utilità e la seconda finisce per smarrire gran parte del suo fascino. Un peccato, che però non pregiudica completamente il giudizio inevitabilmente positivo su un lavoro ben realizzato e importante dal punto di vista storiografico.

VOTO: 6.50/10 

martedì 1 aprile 2014

I giorni della vendemmia



I giorni della vendemmia di Marco Righi - Genere: drammatico - Italia, 2010

Il cinema italiano, sembra, è ancora capace di stupirci. Lo fa molto piacevolmente con questo I giorni della vendemmia, pluripremiato lungometraggio di Marco Righi che racconta, con un lirismo visivo del tutto fuori dal comune, la fine di un'estate fra i vigneti dell'Emilia. Con una grande capacità registica veniamo proiettati subito nell'ambiente un po' guareschiano di una campagna sapida, saldamente ancorata alle proprie tradizioni e paradossalmente oscillante fra la canonizzazione di Berlinguer e le confortanti litanie religiose. Eppure, al di là delle contraddizioni, era un mondo in cui la pacificazione era ancora possibile e le cose concrete avevano ancora un valore oggettuale. Riprendendo senza dubbio alcuni elementi della poetica di Pier Vittorio Tondelli (non a caso nel film la sua ombra è più volte presente, anche direttamente, con il testo Altri libertini), resi attraverso un uso non banale e a volte quasi pittorico del linguaggio cinematografico. 

Inquadrature profonde e a tratti non troppo dissimili da quelle elogiatissime di Welles, che usa in Quarto potere la profondità di campo in senso espressivo, incorniciano i desideri di Elia (il bravo Marco d'Agostin) nei confronti di Emilia (Lavinia Longhi), nel rincorrersi per nulla stucchevole di emozioni rese sempre con  una grande capacità di racconto. Righi si muove insomma con agilità nei registri della visualità, arrivando infine a mostrarci con uno stile decisamente inaspettato (rispetto al resto del lungometraggio) la reazione di Elia all'"incontro fra Lavinia e Samuele), attraverso una visione quasi espressionistica e comunque legata al suo modo personale di vedere le cose, con una rinuncia all'oggettività poetica che caratterizza invece il resto del film.

Nel complesso siamo di fronte a un titolo che senza dubbio meriterebbe di essere più conosciuto, per le indiscutibili qualità tecniche e la capacità di mostrare con concretezza e un romanticismo per nulla mieloso una storia d'amore mancata nell'epilogo estivo di un'Italia che stava per cambiare. 

VOTO: 8.50/10