venerdì 31 maggio 2013

La Casa 2



La Casa 2 di Sam Raimi - Genere: horror - USA, 1987

Sequel del titolo originale recentemente riportato al cinema da Alvarez, La Casa 2 vede ancora una volta protagonista Ash, l'eroe della saga, questa volta assieme ad alcuni altri personaggi minori, fra cui la figlia del professore responsabile di aver riportato alla luce il Necronomicon o Libro dei morti. Crocevia narrativo che prelude all'Armata delle tenebre, il film in questione - nonostante sia considerato da molti un vero capolavoro - non mi ha colpito positivamente, non riuscendo a riprendere gli elementi positivi del capostipite e virando in una direzione che non ho trovato adeguata.

Anzitutto ho ravvisato un problema piuttosto grave di ritmo narrativo, con un antefatto - pure tipico dei film del genere - eccessivamente lungo, addirittura nell'ordine dei trenta minuti. Quando la vicenda prende finalmente (e faticosamente) piede, con l'arrivo dei personaggi di supporto al protagonista che faranno (è il caso di dirlo?) una brutta fine uno dopo l'altro, la sceneggiatura si rivela povera e aneddotica. Questo si riverbera anche sulla costruzione dei personaggi, stereotipati all'eccesso, e sulle azioni drammatiche, troppo spesso prevedibili e poco ragionate. 

A ciò si aggiunge il fastidioso protagonismo di Bruce Campbell, che ho trovato per larga parte della sua prestazione, eccessivo nella mimesi e nella carica pseudo-epica che assume la sua funzione. In generale tutto il comparto narrativo, rispetto a La Casa, si è banalizzato, semplificato. Tutto è spiegato chiaramente, non ci sono più misteri, chiaro segno che anche il rapporto fra il pubblico e la visione cinematografica stava rapidamente mutando. A tutte queste problematiche mi sembra doveroso aggiungere anche una nota sugli effetti speciali, utilizzati in maniera molto più sistematica ma, nonostante questo, abbastanza deludenti per quello che riguarda la qualità. 

Complessivamente un film guardabile, ma nulla di più. Sono ben lontane le vette raggiunte con il primo episodio, in un film che appare niente più che un semplice (e semplificato) riempitivo per arrivare al terzo ed ultimo episodio della trilogia ufficiale (non considero appartenenti a questo filone i numerosi sequel apocrifi, fra cui va ricordato almeno l'episodio diretto dall'atroce Claudio Fragasso).
VOTO: 5/10

mercoledì 29 maggio 2013

La verifica incerta



La verifica incerta di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi - Genere: sperimentale - Italia, 1964

Sin dai primi anni della sua esistenza, il cinema ha sempre consentito ai suoi autori di utilizzare una serie di linguaggi particolari e molto diversi fra loro, al punto che alcuni di essi risultano addirittura autoescludenti l'uno rispetto all'altro. Rigettando completamente l'impostazione narrativa del film classico, alcuni titoli si sono sempre contraddistinti per la ricercatezza formale che, a fronte di una certa autoreferenzialità, infonde in queste opere una compiutezza difficilmente raggiungibile altrimenti. In particolare si presta particolarmente a questo scopo la pratica del found-footage, una modalità espressiva consistente nella selezione, modifica e connessione in fase di montaggio, di frammenti di girato già esistenti. Una dei più rappresentativi esponenti di questo modo di fare cinema è Alina Marazzi, recentemente uscita al cinema con il primo dei suoi lungometraggi che, abbraccia invece gli stilemi tipici della narrazione; l'uso del found footage si ritrova invece tanto in Vogliamo anche le rose quanto in Un'ora sola ti vorrei.

Tutti questi lavori sono stati (ampiamente preceduti) dal lavoro di Grifi, che fra il 1964 e il 1965 ha composto, assieme a Baruchello, uno dei più grandi manifesti della demistificazione cinematografica che mi è mai capitato di vedere. Abbandonando completamente l'ottica di dover narrare una storia, il regista si prende la libertà di ricercare modi nuovi e inesplorati per connettere le immagini fra di loro, sfruttando il potere evocativo del montaggio nella sua forma primigenia (il riferimento ad Ejzenstejn e all'effetto Kulesov non può non arrivare). 

Frammenti dei generi principe della cinematografia occidentale (western, noir/poliziesco, drammatico, kolossal a sfondo storico) sono interpolati fra di loro con l'unico scopo di mostrare la natura artificiale e intrinsecamente negoziale di una modalità di produzione e - soprattutto - di visione che troppo spesso viene contrabbandata come l'unica possibile. Il "documentario" di Grifi è un grido potente che scuote dalle fondamenta la struttura stessa del modo attuale di fare cinema, cercando di demolire l'impianto della communis opinio secondo cui il cinema è essenzialmente un luogo di svago, dove immergersi passivamente in una storia cui possiamo accordare la nostra buona fede per un tempo di un'ora e trenta circa.

C'è un altro modo di approcciarsi alle immagini, che per la loro stessa natura di realtà mediatizzate, non smettono mai di offrirci possibilità di protagonismo e di attenzione. Sono molti i titoli che, anche in maniera meno estrema, tematizzano la centralità dello spettatore nella costruzione del discorso e del senso filmico. Grifi e tutto un certo genere di cinema sperimentale ha portato all'apice questa tendenza, che però - è bene ricordarlo - è inscritta nel codice genetico della settima arte. Se questo tipo di immagini è andata perduta è certamente colpa nostra che, abituati ad esplosioni e fiabe postmoderne autoconclusive, non riusciamo a vedere dietro le immagini, in quello spazio interstiziale che è pronto a farsi abitare dal nostro sguardo.
VOTO: 10/10

Alien



Alien di Ridley Scott - Genere: fantascienza - Regno Unito, USA, 1979

Sin dai tempi della sua comparsa nelle sale cinematografiche, il film di Ridley Scott ha lungamente fatto parlare di sé ed è stato anche fortemente generativo, avendo dato vita a una lunga serie di sequel e crossovers con l'altra grande serie di fantascienza postmoderna, Predator. A differenza del film con Schwarzenegger la pellicola di Scott è più incentrata su effetti intimistici, spazi asfittici che non possono non aver ispirato o quantomeno suggerito a Carpenter alcune delle soluzioni adottate per La Cosa.
 
Il film è molto lienare da un punto di vista narrativo, non riserva troppe sorprese ma - considerando che si tratta di un lavoro dei tardi anni Settanta, che comunque riesce a intrattenere e che ha fondato il rinnovamento di un intero genere, la cosa non dispiace particolarmente. In particolare però bisogna ricordare la splendida fattura degli effetti speciali, valsi al film addirittura un meritatissimo oscar. La fattura degli Alien è perfetta, soprattutto considerando l'epoca di realizzazione e anche la resa molto meccanomorfa degli interni e degli esterni della nave mercantile su cui tutto il film è ambientato è decisamente apprezzabile, proprio per il suo pionierismo.
 
Unica nota di demerito, molto piccola, che si può far presente in un lavoro che per quanto eminentemente narrativo è molto ben realizzato, è la caratterizzazione dei personaggi. Tralasciando la protagonista, giustamente assurta a simbolo di una generazione di donne che pretendono di veder riconosciuto il loro spazio, l'insistenza sugli aspetti capitalistici dell'iniziativa mercantile che poi porterà alla scoperta dell'Alien, mi è parsa a tratti eccessiva.
 
Ugualmente è doverosamente necessario far presente che in alcune delle sequenze più concitate, durante lo scontro con la creatura aliena, si perde un po' il senso dell'azione per colpa di qualche inquadratura poco riuscita. Nel complesso però, si tratta veramente di dettagli di poco conto, che non compromettono la buona riuscita dell'iniziativa.
 
Chi si aspetta un film fortemente sperimentale può cambiare titolo, s'intenda. Siamo di fronte a un bel prodotto narrativo, che intrattiene con piacere e riesce a mantenere la struttura diegetica ad alti livelli di coerenza e interesse. Non c'è un forte sperimentalismo dietro alle forme linguistiche ma in fin dei conti ogni tanto non è così male l'idea di perdersi dietro al filo della vicenda. Una visione decisamente valida, anche solo per gli aspetti storicistici e per gli ottimi effetti speciali.
VOTO: 8/10


lunedì 27 maggio 2013

August underground



August underground di Fred Vogel - Genere: horror - USA, 2001

Il sottotitolo sulla locandina di questo film, realizzato con il ridottissimo budget di duemila dollari, recita "Il film più perverso mai realizzato?". Ci sarebbe lungamente da discutere su questa definizione; è un campo in cui è molto difficile formulare un giudizio proprio perché l'idea di perversione e di trauma della sensibilità individuale è fortemente soggettivo. Secondo me la domanda che bisognerebbe porsi dopo aver visto i settanta minuti scarsi di questo lavoro, primo episodio di una trilogia costato a Vogel anche una permanenza in prigione, è se si tratti di un vero e proprio film. 

August underground invita a riflettere sulle condizioni necessarie e sufficienti perché la propria pellicola possa essere effettivamente considerata un prodotto cinematografico. Le caratteristiche di questa prima fatica di Vogel rendono ragione della mia perplessità: praticamente manca quasi del tutto l'impianto narrativo e, con ripresa a mano instabile e massimamente amatoriale, l'anonimo complice del serial killer segue le peripezie dell'amico e le sevizie che lo psicopatico compie sulle sue malcapitate vittime. Manca quasi completamente anche il montaggio, che si accontenta di giustappore fra di loro grossi frammenti di girato che non mi sento di definire piani-sequenza, dal momento che non si concludono con la conclusione di un frammento narrativo elementare (proprio perché di tali frammenti il film non è costituito). 

La fotografia è, in linea con l'immagine amatoriale del film, è praticamente assente; la qualità spesso sgranata dell'immagine e l'insicurezza manuale con cui sono condotte le inquadrature si porta dietro l'impossibilità di poter parlare di una vera e propria riflessione sulla composizione, proprio perché è probabile che questa riflessione non ci sia proprio stata. L'unica cosa per cui il film di Vogel mi sembra meritevole di una qualche attenzione è per lo statuto etico dell'immagine. La sola qualità che trovo in questo gigantesco pasticcio "cinematografico" è l'idea che quello che lo spettatore vede potrebbe essere reale.

Le sevizie a cui Peter (il serial killer) sottopone le sue vittime sono al limite del feticismo: necro-antropogafia, coprofagia, mutilazioni, ferite etc. Tutto questo è diretto da Vogel, che interpreta anche la parte del maniaco, con una autocoscienza preoccupante, che non può non instillare in chi guarda il dubbio che ciò che vede sullo schermo sia successo realmente, che la violenza messa in scena sia stata realmente compiuta. E' un dubbio pericoloso, che comunque dà un qualche spessore a un prodotto assolutamente deprecabile sia da un punto di vista estetico che da un punto di vista contenutistico.
VOTO: 3/10

Easy rider



Easy rider di Dennis Hopper - Genere: drammatico - USA, 1969

Negli anni Sessanta il cinema mondiale era stato completamente travolto, nei metodi di produzione e nel linguaggio espressivo, dalla nascita del paradigma moderno grazie alle suggestioni provenienti prima dal Neorealismo italiano e poi dalla Nouvelle vague francese. Anche lo star system americano, ben capendo quanto fosse importante adeguarsi alle nuove esigenze, si riformò nel profondo abbandonando lo stereotipato ed edulcorato sistema del "classico". La "Nuova Hollywood" proponeva al suo pubblico film nuovi che decostruivano la mitologia edificata fino a quel momento, mettendo fortemente in crisi il ruolo divistico del protagonista e puntando le luci sui recessi nascosti, sulle ombre, sul senso della crisi e dell'incertezza.

Questa nuova tendenza, per molti critici, inizia proprio con questo film di Dennis Hopper, che oltre al regista conta nel cast anche Peter Fonda e uno splendido Jack Nicholson. In Easy rider riescono a convergere e a convivere senza difficoltà (anzi, rinforzandosi a vicenda), un assetto narrativo definito anche se in maniera molto debole e una ricerca stilistica di alto livello. La trama a maglie larghe è facilmente intuibile: i dialoghi sono semplici e più che con la voce i personaggi si esprimono in senso fisiognomico o mimico (il che è praticamente una costante quando c'è Nicholson inquadrato). I volti diventano specchi su cui si inscrivono le ansie e le aspettative di una generazione magmatica e in movimento, generazione cui i due protagonisti appartengono tangenzialmente e dalla quale però sono così fortemente contaminati.

La grammatica visiva viene impiegata in tutte le sue possibilità: campi lunghi e inquadrature alla John Ford accolgono il rumoroso passaggio delle motociclette dei due centauri che, correndo verso il carnevale di New Orleans, sono alla ricerca di un viaggio che in realtà appare frivolo e senza meta. I costanti riferimenti al genere del western contribuiscono a dare a tutto il lavoro di Hopper un'aria fortemente demistificatoria, come se lui e Fonda fossero i nuovi cowboy, disilluse vittime di un sistema che si è ripiegato su sé stesso. L'odio con cui i cowboy del cinema classico guardavano agli altri, i loro avversari, ora ritorna indietro e il conflitto si polarizza attorno all'idea di libertà/assoggettamento alle regole del vivere sociale. 

Capitan America, in sella alla sua motocicletta, rappresenta il mito della "Gioventù bruciata" di Kazan, che - conquistata finalmente la libertà - ne scopre anche i risvolti più anarcoidi e distruttivi, andando a morire proprio quando la destinazione sembrava raggiunta. C'è da chiedersi se davvero ci fosse una destinazione; il film è del 1969 e quindi si colloca proprio nel momento di massima crisi generazionale, in cui gli hippies dovevano fare i conti con la voce che avevano guadagnato urlando contro i propri genitori.

Tutto è raccontato con una disincantata ma non per questo meno drammatica sensazione di precarietà, di pericolo dietro cui si adombra una sorta di nostalgica adorazione del passato. La scena del cimitero, splendida per impostazione fotografica e per l'uso del montaggio (ma questo vale in particolare per tutto il film), è rivelatrice: il pianto di Fonda mentre abbraccia la statua della Madonna, perso nel ricordo anacronistico della madre scomparsa, è il grido reale di una generazione che - conquistata l'indipendenza - non può evitare di pensare melanconicamente a ciò che ha abbandonato.
VOTO: 9/10

domenica 26 maggio 2013

Cannibal holocaust



Cannibal holocaust di Ruggero Deodato - Genere: horror - Italia, 1980

Uno dei grossi demeriti del cinema italiano contemporaneo, a prescindere dal genere di riferimento e del regista (qualcuno che si salva c'è sempre, per fortuna),  è l'incapacità di osare, di spingersi oltre alla mediocrità dei prodotti proposti al pubblico sia per quello che riguarda la materia narrata, sia per quanto concerne la messa in forma secondo le categorie linguistiche del cinema. Eppure basterebbe guardare questo ormai abbastanza datato film di Deodato per rendersi conto che c'è stato un momento in cui siamo stati in grado di farlo.

Intendiamoci: umanamente Cannibal holocaust è un film da rigettare completamente. E' abbietto da un punto di vista etico e probabilmente hanno ragione i Paesi (sono più di venti in tutto il globo) che lo hanno vietato o pesantemente censurato. Senza entrare nel merito del racconto della trama, che esula dai fini di questo commento, basti dire che le torture sugli animali rappresentate nelle scene sono assolutamente reali: in particolare è inquietante la scena della tartaruga, dove i protagonisti - per nutrirsi - aprono il carapace di una testuggine e ne rovistano gli organi interni.

Dal punto di vista narrativo, poi, il film non è di per sé nulla di originale. E' un classico del genere e ha dettato l'impianto standard di questa tipologia di film, vantando una generatività molto elevata (sono moltissimi gli omaggi e i riferimenti al lavoro di Deodato in altri film, senza contare un sequel), ma la vicenda è semplice e lineare. Ciò che colpisce, in un film di cannibali che dovrebbe (almeno, così siamo stati abituati a credere) consumarsi in una carneficina autoreferenziale, è la cura posta nel rappresentare ciò che succede. In particolare non viene mai meno nel regista, la presa di coscienza che per praticamente metà del film, il pubblico di Cannibal diventa spettatore di secondo grado e - insieme ai personaggi della pellicola - guarda il girato di altre persone.

Ebbene in tutte queste sequenze (o almeno in buona parte di esse), la regia ha avuto l'accortezza finissima di mantenere il rumore di fondo della bobina che gira, srotolando il nastro a ventiquattro fotogrammi al secondo. Questa consapevolezza, insieme ad altri piccoli trucchi messi in opera in fase di post-produzione, permettono agli spettatori più attenti di trascendere il livello della mera fattualità narrativa e di riflettere sulle implicazioni etiche ed estetiche della visione di una pellicola come questa. Quali sono le condizioni di visibilità di un'opera cinematografica? Ci sono dei confini che non dovrebbero mai essere superati? Quale dev'essere il giudizio della critica su un prodotto controverso?

Cannibal holocaust non è un semplice film di cannibali, tutto sangue e torture. A questi elementi si deve necessariamente aggiungere la considerazione che lo stesso regista era evidentemente consapevole dello statuto di immagine-limite che il suo lavoro si trovava ad avere. La grande intelligenza messa in campo ha consentito di salvarlo dalla stereotipicità e dalla semplice citazione come uno dei film più censurati della storia del cinema.
VOTO: 7.50/10

giovedì 23 maggio 2013

Seul contre tous



Seul contre tous (I stand alone) di Gaspar Noe - Genere: drammatico - Francia, 1998

Dopo la seconda guerra mondiale, dopo la breve ma eversiva esperienza del neorealismo italiano, è stata la nouvelle vague francese a cambiare le sorti del cinema mondiale. Voci over che intessono dialoghi filosofici sul senso della vita, poetica delle inquadrature inutili, tempi lenti, storie vuote ma estremamente suggestive, distruzione del mito dell'eroe hollywoodiano e messa in primo piano dell'umanità dei personaggi, interpellazioni e rottura della finzione filmica. Tutto questo bagaglio di conoscenze è stato preso e rovesciato di significato da Gaspar Noe, che nel 1998 propone, con il suo Seul contre tous ("Solo contro tutti") una nouvelle vague distopica e ancora più antieroica.

Noe violenta le regole del cinema e violenta gli occhi dello spettatore, sia a livello narrativo che a livello compositivo. La storia è asciutta, minimale ma voracemente e carnalmente umana, di un'umanità drammatica che si trova sul fondo, nelle periferie sotterranee di una città tentacolare come Parigi, che è pronta ad aprirti un mondo oppure ad inghiottirti nel più completo anonimato, quando tutte le porte ti si chiudono in faccia. Il fallito cinquantenne che il nostro sguardo segue impietosamente è un anti-Jean Paul Belmondo, fallito anche lui ma dotato di una bellezza veramente materiale; del protagonista di Noe non solo non si può dire lo stesso, ma spesso sale nello spettatore l'orrore per la sua presenza, per il suo fastidioso realismo. 

La voce over non si occupa più del senso dell'esistenza, perché già nel 1998, per Noe l'esistenza un senso non ce l'ha più. La vita non è altro che un obbligo imposto dall'alto in cui degli animali si succedono nel rispetto delle leggi della selezione naturali. Siamo obbligati a vivere, nell'attesa di morire (Sopravvivere è una legge di natura, come si legge nel film). Ma, questo è il grande interrogativo del disgustoso main carachter che Noe porta alla nostra attenzione in tutta la sua debolezza mostrandolo anche nella sua nudità d'uomo grasso e in procinto d'invecchiare, che senso ha la vita (semmai ne ha uno) per qualcuno che ha perso tutto?

Anche dal punto di vista tecnico il film è praticamente ai livelli della perfezione; anche in questo caso tutto è completamente subordinato alla definizione dell'universo senza speranza in cui il protagonista è precipitato e va quindi segnalata la grande capacità del regista di piegare gli strumenti concettuali del linguaggio cinematografico alle esigenze della diegesi pur senza rinunciare a ampi spazi di manovra dal punto di vista dell'estetica e dello sperimentalismo. In particolare ho apprezzato l'uso (se vogliamo molto arcaico ma in fondo decisamente e spregiudicatamente moderno) che è stato fatto delle scritte, che interrompono la visione consentendo di riflettere sulla natura mediale del testo, sono in pieno stile nouvelle vague e sono senza dubbio una delle più alte vette di tutta la pellicola (su tutti troneggia Attenzione: avete 30 secondi per abbandonare la visione di questo film, proprio poco prima dell'escalation finale.

Un film violento, doloroso, ma dotato di una bellezza magnetica. Un peccato che non ne esista una versione italiana (se si esclude la proiezione riservata da Rai3 in fascia notturna e con ampie censure).
VOTO: 9.50/10

Song of silence



Song of silence di Chen Zhuo - Genere: drammatico - Cina, 2011


Che il cinema asiatico – e più in generale il cinema non occidentale – abbia molto da insegnare sia per quanto riguarda i temi sia per il modo di metterli in scena, è ormai un dato abbastanza scontato. Per averne un’ulteriore conferma è sufficiente considerare l’opera prima del cinese Chen Zhuo, questo delicato Song of silence, che come spesso accade nel cinema orientale è una realtà di assenze, di silenzi e di mancanze.

L’afonia della storia è prima di tutto narrativa e si concretizza nella giovane protagonista Jing, sordomuta, che è suo malgrado spettatrice passiva di una vicenda cui, almeno inizialmente, non può prendere parte. È una figlia non amata che lascia che il mondo le scorra attorno. Soltanto quando esce in barca con il suo giovane zio riesce ad assumere spessore e protagonismo; non è un caso che siano proprio questi brani, collocati specularmente all’inizio e alla fine del film, ad essere anche i più eccentrici dal punto di vista della composizione dell’immagine: il punto di ripresa è scelto con cura per accentuare al massimo l’effetto estetico e per sottolineare la presenza di un divenire narrativo che si costruisce in assenza. L’incapacità di Jing di parlare, diventa in questi casi la nostra incapacità di vedere.

In mezzo a questi due estremi lirici, colmi fino al midollo di una gentile eversività poetica, si sviluppa la storia della giovane ragazza, mandata a vivere con il padre e la sua ragazza, cantante. Nel mezzo il film perde un po’ di corpo, si ripiega su sé stesso diventando nient’altro che un esercizio accademico senza troppa originalità. Con ciò non s’intende sminuire la perfetta impostazione della fotografia e la grande sicurezza con cui Chen Zhuo dirige il suo e il nostro sguardo sulla scena; da un punto di vista narrativo, però, la storia si fa lenta e a tratti quasi noiosa. È doveroso notare tutte queste particolarità proprio perché il regista cinese, esordiente, nel magmatico e colorato mondo di una cinematografia in continua evoluzione, propone un’opera intima ma che non ha ancora le caratteristiche per raggiungere gli accenni di disarmante e minimale lirismo che sembra promettere inizialmente.

La pellicola in fin dei conti non spiace e va comunque apprezzata per alcune sue indubbie qualità. Un’opera prima decisamente promettente, insomma al di là dei piccoli aggiustamenti che si faranno col tempo. Varrebbe la pena di prendere in considerazione il fatto che un simile livello spesso non viene raggiunto dai registi nostrani neppure dopo moltissimi lavori; a loro discolpa si potrebbe dire che la sensibilità occidentale è diversa, più immediata, ma sarebbe un vano tentativo di inzuccherare una medicina che meriterebbe di essere presa in tutta la sua acredine. 
VOTO: 6/10

mercoledì 22 maggio 2013

Morituris



Morituris di Raffaele Picchio - Genere: horror - Italia, 2011

I film d’exploitation, che li si ami o che li si detesti, fanno parte del cinema e per quanto spesso non siano altro che un prodotto di genere vanno considerati come lo specchio dei tempi che stiamo vivendo, che si consumano voracemente su loro stessi. E’ interessante vedere quindi come l’italiano Raffaele Picchio, alla sua opera prima con Morituris, decida di interpretare questo linguaggio. Il film, che ha fatto largamente discutere, è stato vittima di censura; la cosa inquietante di tutto questo non è tanto che la pellicola nostrana sia stata così ampiamente osteggiata, ma piuttosto che mentreMorituris non trova una sala dove venire trasmesso, gli spettatori si lavano tranquillamente con il sangue dei protagonisti del remake de La Casa (e Picchio di sangue, ce ne mette molto di meno).
Come che sia, rimane il fatto che prima di vedere il lavoro in questione non possono non venire in mente i grandi nomi del genere, soprattutto quello di Ruggero Deodato e del suo celeberrimo Cannibal holocaust. C’erano tutte le fonti per compiere una buona operazione cinematografica e riportare alla luce un piccolo primato della nostra nazione, eppure sembra che il regista non abbia voluto andare fino in fondo e si sia prudentemente assestato su un prodotto che promette qualcosa ma alla fine lascia quasi nulla.

La cosa che colpisce negativamente di tutto questo lavoro non viene tanto dalla regia, che comunque riesce a destreggiarsi discretamente bene sulla materia narrativa (escludendo alcune inquadrature poco felici), ma di tutto il resto. Anzitutto non si riesce bene a capire il motivo di fondo per cui a un certo punto, una strada tutto sommato credibile, per quanto già battuta, alla Non violentate Jennifer non potesse essere ultimata. Probabilmente non vale neppure la pena di chiedersi se ci fosse davvero bisogno di inserire nell’evolversi della diegesi tutta l’imbarazzante parentesi sui gladiatori romani che appaiono dalla nebbia in pieno stile ghost movie; la risposta è piuttosto ovvia. Tutta la seconda parte della pellicola è un gigantesco disastro, peraltro molto noioso, dove anche le scene di uccisione e quelle di tortura risultano essere mortalmente lente. 
Fra l’altro, anche nella prima parte del film (che è decisamente la migliore), sembra esserci una specie di freno che impedisce di abbracciare fino in fondo la dimensione sporca, nuda e cruda di questo tipo di lavori cinematografici. Da questo punto di vista i momenti migliori sono senza dubbio quelli in cui si vede il misterioso amico dei tre protagonisti, vero e proprio depravato dotato di un fascino macabro e malato. È sorprendente come, in questi passaggi, anche la qualità dell’inquadratura migliori sensibilmente e i colori diventino allucinati e psichedelici. Per tutto il resto del tempo, quasi tutto viene censurato, cola un po’ di sangue ma il già poco perturbante stupro (a confronto quello di Meir Zarchi è certamente di un altro livello) viene completamente oscurato dal posizionamento della macchina da presa.
Sorprendentemente ben fatti appaiono invece l’incipit - che introduce tutta la vicenda utilizzando sapientemente un’immagine invecchiata e dalla consistenza materica che si percepisce soprattutto nei momenti di intervallo fra le immagini – e la conclusione, splendida sotto il profilo della composizione dell’inquadratura e dell’uso del montaggio per la marcatura dei dettagli. Un peccato che non si sia potuto fare di meglio, forse anche a causa di una recitazione non sempre impeccabile da parte del cast. 
VOTO: 4/10

Il grande Gatsby



Il grande Gatsby di Luz Luhrmann - Genere: drammatico - USA, Australia, 2013

Adattamento del romanzo omonimo di Fitzgerald e film di apertura al Festival di Cannes 2013, poco applaudito in sala. Premetto che non avendo mai letto il libro in questione la recensione si baserà esclusivamente sul prodotto cinematografico in sé, senza prendere in considerazione la qualità dell'adattamento e/o la fedeltà al testo originale. Sulla trama quindi non ci si può pronunciare più di tanto, ma non si può fare a meno di notare che comunque (quali che siano i debiti con il libro) la sceneggiatura è ben scritta e i dialoghi sono molto belli, anche se a tratti un po' dandysticamente filosofeggianti, il che crea un effetto macchietta probabilmente voluto.

Si può parlare però di tutto il resto del film, a partire dall'impostazione dell'immagine. Anzitutto non ho gradito, forse per un mio particolare disamore verso il 3D, la presenza di numerosi artifici (nell'incipit, nell'expicit e anche durante il film) intessuti nella struttura cinematografica apposta per quello. Non che il 3D sia sempre deprecabile, visto che quantomeno ha il merito di sottolineare un certo genere particolare di scene, ma in un film relativamente statico come questo non vedo il senso di queste aggiunte (o meglio, il senso c'è ed è chiaramente quello di un'operazione commerciale, ma preferisco pensare che non ci sia...). 

Le inquadrature sono quasi sempre molto narrative, impostate in maniera altamente spettacolare e il risultato migliora soltanto in alcune sequenze dove il carnevalesco affollarsi di immagini colorate senza un'ordine apparente, cede il posto a una composizione più studiata e più adatta a veicolare il disvelamento di posticcia grandezza che circonda Gatsby. Anche la colonna sonora, di per sé non spiacevole, mi è sembrata però poco adatta al contesto che si è tratteggiato, all'aria roaring Twenties che mi sarei aspettato di respirare: la scelta è caduta su un repertorio molto più moderno, che in realtà non rende secondo me lo spirito dell'epoca. 

Un merito va invece certamente ai costumi, belli anche se ancora una volta non eccessivi. Avrei preferito che la spettacolarizzazione si concentrasse più sull'ambiente e sui personaggi che non sulle feste di Gatsby (che certamente sono il motore della vicenda, ma che vengono riprese con inquadrature talmente ampie e arzigogolate da farle sembrare uno spettacolo in vetrina della cinepresa stessa). Buona anche la recitazione degli attori anche se, ancora una volta, non ho gli strumenti per esprimermi su come i personaggi del romanzo siano stati resi. 

Purtroppo il film di Luhrmann alla fine non è niente di speciale, un colorato carnevale che mi ha lasciato una gran voglia di leggere il romanzo, ma non certo per merito delle scelte di regia. 
VOTO: 5/10

lunedì 20 maggio 2013

Nekromantik



Nekromantik di Jorg Buttgereit - Genere: grottesco - Germania Ovest, 1987

Negli ultimi due mesi mi sono spesso trovato davanti a film particolari e inquietanti, diversi da quelli che normalmente si vedono in sala o si cercano sui canali di diffusione via internet. Mai come oggi mi sento di dire però che Nekromantik è un film unico nel suo genere, davvero perturbante e nel contempo deprecabile e interessante. Anzitutto ci troviamo davanti a un prodotto che è quasi un unicum, ovvero una pellicola che mette a tema la necrofilia, perversione sessuale che fa dei cadaveri l'oggetto del desiderio.

Diciamo subito che non c'è una vera e propria trama, se non nel senso  più largo del termine; il film si presenta sin dal primo istante come un grottesco e sanguinolento inno che si consuma in sé stesso, senza tentare di costruire qualcosa o di lasciare alcunché allo spettatore (se si eccettua la generalizzata sensazione di disagio). La tematica, data l'originalità, sarebbe di per sé anche interessante ma si deve anche considerare che è una materia difficile da trattare; capisco le intenzioni del regista, ma avrei preferito un discorso più evocativo che esplicativo (ed è proprio in questi casi, credo, che il cinema orientale ha qualcosa da insegnarci, con la sua proposta di pellicole "di sensazione" e non "di narrazione"). 

La caratteristica principale del film è senza dubbio l'amatorialità, che considerando la qualità complessiva finisce anche per rivelarsi un merito. A ciò va aggiunto anche che per moltissimo tempo il film ha circolato solo grazie alla riproduzione illegale e solo in tempi relativamente recenti il successo di pubblico (di nicchia) ha permesso di poter distribuire un DVD del lavoro di Buttgereit. Al di là di questo apprezzamento generale però, non si può fare a meno di notare che la qualità complessiva risente molto della carenza di fondi. A scanso di equivoci preciso che io non sono per nulla d'accordo con chi dice che un basso budget è per forza indice di cattiva qualità, anzi: ci sono film fatti quasi con niente che sono dei veri e propri capolavori. La pellicola di Buttgereit non lo è.

Ciò che ho apprezzato di meno è stata, soprattutto in alcuni momenti, la forte pretenziosità della messa in scena, come che il film volesse rifuggire da quello che è (un prodotto fatto per shockare e poco più) per travestirsi in un film d'autore o simili. La composizione è in alcuni tratti decisamente (e inutilmente) barocca: si sprecano le sovraimpressioni, che forse dimostrano una buona conoscenza storica da parte del regista, ma che nella maggior parte dei casi hanno solo un effetto fastidioso e confusivo (anche se non c'è una trama, non dispiacerebbe capire cosa sta succedendo sulla scena). Anche le inquadrature, spesso spezzate e imprecise, concorrono a definire un quadro non certo felice; unica eccezione (parziale) è la musica, non così disastrosa.

Nel complesso siamo di fronte a un film che sicuramente rimane impresso per la violenza delle immagini, ma che si consuma in breve tempo e in fin dei conti non ha nulla da raccontare. Nekromantik è un film suicida, che non è in grado di esistere se non come pellicola del limite, in bilico fra visione e oblio.
VOTO: 4/10

Predators



Predators di Nimròd Antal - Genere: azione/fantascienza - USA, 2010

"Quando basta una lettera nel titolo per passare da un film all'altro", o anche "Quando non si sa trovare un titolo più originale". Uscito nelle sale nel 2010, il film si propone di riportare sulla scena gli alieni cacciatori del celebre Predator (appunto, senza la "s"), film di John Mc Tiernan del 1987. Di certo già allora non si trattava d'altro che di un titolo di genere estremamente commerciale, ma il Predator che aveva come protagonista Arnold Schwarzenegger ha quantomeno avuto il merito di aver calamitato attorno a sé molti fan e di aver suscitato l'interesse del pubblico. Questa pellicola molto più recente, come spesso succede, non riesce a replicare il successo del suo illustre predecessore.

E' bene specificare che non si tratta di un remake, ma idealmente di un terzo episodio della saga (che conta fra l'altro due cross-over con gli altri grandi protagonisti della fantascienza postmoderna, i mostri di Alien). Peccato che praticamente il film sia una specie di clone malriuscito dell'originale; infatti è come se la storia ricominciasse da zero, non essendo presenti connessioni esplicite con gli altri due film.Come spesso succede in casi analoghi a questo il regista ha puntato molto (quasi tutto a dir la verità) sulla spettacolarizzazione dell'azione, potendo sfruttare tecnologie di simulazione molto più avanzate che in passato. Esplosioni, combattimenti fra gli alieni e gli umani, c'è tutto il repertorio del caso; ma non basta.

La narrazione è prevedibile, spenta, poco coinvolgente. Il film ha una durata media ma sembra più lungo di quello che è. Lo spettatore assiste passivo alla carneficina fatta dai Predators ai danni dei malcapitati di turno e in seguito al loro tentativo di sopravvivenza. Come al solito ci sono parecchi salti logici che compromettono il piacere della visione (perché gli alieni all'inizio sembrano invincibili e poi basta un colpo di katana per ucciderli?), senza parlare del comportamento dei personaggi. Su tutti campeggia Adrien Brody, qui davvero odioso nella parte del cinico e spietato soldato mercenario che - grande novità - cattura col suo sguardo da bel tenebroso l'attenzione della Xeena contemporanea della situazione 

Come se questo non bastasse, a prendere parte a questo autocompiacimento del nulla si aggiunge Laurence Fishburne (il Morpheus di Matrix), che qui interpreta un sopravvissuto con qualche rotella fuori posto. Interpretazione didascalica e sottotono, ma almeno risolleva un po' la qualità del film. In conclusione, anche la fotografia e il montaggio non brillano particolarmente, anche se quest'ultimo tenta (senza successo) di creare qualche costruzione interessante sul finale. Nel complesso un film che non ha praticamente nulla da dire, un mal riuscito tentativo di riportare sullo schermo i Predators degli anni Ottanta che alla fine si rivela solo una classica trovata commerciale.
VOTO: 4/10

domenica 19 maggio 2013

I fiumi di porpora 2: Gli angeli dell'Apocalisse



I fiumi di porpora 2: Gli angeli dell'Apocalisse di Oliver Dahan - Genere: thriller - Francia, 2004

Dopo la prova quasi discreta del primo episodio diretto da Kassovitz, recensito qualche settimana fa, vorrei portare l'attenzione sul sequel del film, questa volta diretto da Oliver Dahan (autore fra l'altro de La vie en rose), con Jean Reno ancora una volta nei panni del commissario e docente di criminologia Pierre Niemans. Anche in questo caso si tratta di un lavoro per certi versi abbastanza originale per l'anno di produzione, che evidenzia ancora di più la componente escatologica (elemento che, a mio avviso, avvicina molto i due Fiumi di porpora al successivo Il codice da Vinci). 

Accentuazione dei richiami millenaristici al testo dell'Apocalisse di San Giovanni caratterizzano in particolare un film che, non fosse per questo, apparirebbe grossomodo identico al suo capostipite: ancora una volta Reno è affiancato da un giovane ufficiale di polizia che si diverte in scazzottate con i cattivi di turno; peccato che Cassel fosse almeno un attore migliore; Benoit Magimel invece è anonimo, didascalico e assolutamente eclissato da tutti gli altri personaggi del film. Su tutti infatti (anche sul protagonista) svetta giustamente Cristopher Lee, che anche in questa pellicola interpreta il ruolo dell'antagonista (come sempre nella sua carriera, dal Conte Dracula al Conte Dooku de L'attacco dei cloni), anche se nel caso specifico la sua grandezza oscura avrebbe potuto essere sfruttata molto meglio. 

Detto questo, cioè appurato che la componente teologica è abbastanza ben rappresentata, rimane quasi il nulla da precisare. Non è che il film in sé sia noioso, anche se sul finale l'attenzione scema un po' e tutto si traduce nel classico repertorio da film d'azione americano. Il problema, già ampiamente ventilato nel primo episodio, è un'impostazione della storia decisamente troppo televisiva, che incappa spesso nei tipici cliché dei  telefilm polizieschi Mediaset (non è per forza un male, ma qui si parla di cinematografia). 

Non vale la pena spendere troppe parole quindi sui buchi narrativi o sui salti logici abbastanza pesanti, perché nell'ottica di un prodotto proto-televisivo, questo appare in una qualche misura insito nel tessuto stesso delle immagini. Il problema è che gli elementi positivi del primo film e le buone carte in tavola che c'erano in teoria (i riferimenti all'Apocalisse e la presenza di Cristopher Lee), potevano essere sfruttati decisamente meglio. Il risultato non è da buttare via del tutto, ma risulta comunque estremamente mediocre.
VOTO: 4.50/10

Constantine



Constantine di Francis Lawrence - Genere: fantastico - USA, 2005

Sull'onda del successo dei vari Matrix, nei primi anni del nuovo millennio, Keanu Reeves si è visto protagonista di questo adattamento cinematografico di un personaggio letterario, John Constantine, un indagatore dell'occulto a metà fra un esorcista, Van Helsing e Buffy l'ammazzavampiri. Per capire in breve che genere di aria si respira nel film basta prendere il Neo di Matrix e renderlo ancora più americaneggiante e insopportabilmente tamarro, trasportare tutto in una metropoli molto steampunk e il gioco è fatto.

L'aspetto che al contempo risulta più interessante e più pericoloso è quello narrativo: di per se non si tratta di nulla di nuovo se non, come abbiamo già specificato, della traduzione (post)moderna di una figura narrativa ben definita, che ha avuto la sua prima codificazione proprio nell'Abraham Van Helsing di Bram Stoker. Un uomo dalla moralità eternamente in bilico che si appropria degli ultimi ritrovati della tecnica e li fonde con elementi attinti dal mondo del paranormale, del fantastico e dell'alchimia. Così anche Constantine ha il suo repertorio di armi high-tech per la lotta alle forze del Male, che non presenta troppe innovazioni e anzi per alcuni punti risulta essere piuttosto molto banale. 

Anche l'impostazione dei personaggi lascia un po' a desiderare; la recitazione è in realtà buona ma i protagonisti risultano presto molto scontati e si ripiegano senza troppe sorprese su delle macchiette narrative altamente prevedibili. Più interessante invece la rappresentazione delle forze bibliche del Bene e del Male, su cui campeggiano Lucifero (cui è stato dato il medesimo doppiatore italiano di Hannibal Lecter, con buoni risultati) e Gabriele (l'Arcangelo - divenuto incomprensibilmente donna - interpretato da Tilda Swinton). La prevedibilità degli individui si traduce a lungo andare in banalità della trama, che ricalca alcune situazioni tipiche piuttosto stereotipate, come la morte dell'aiutante di Constantine, in pieno stile Hollywood. 

Nonostante questo il film riesce a divertire anche se la durata complessiva risulta un po' eccessiva (due ore sono decisamente troppe per un film del genere). A salvare il tutto dal disastro intervengono una fotografia appena appena discreta, degli ambienti nel complesso curati e degli effetti speciali che (se si escludono alcuni scivoloni) sono credibili. Un titolo piacevole che, sebbene non si lasci ricordare particolarmente per meriti di sorta, non annoia e potrebbe essere il film giusto per un pomeriggio all'insegna del disimpegno.
VOTO: 5/10

sabato 18 maggio 2013

Audition



Audition di Takashi Mike - Genere: drammatico/thriller - Giappone 1999

Avevo sentito molto parlare di Takashi Mike, attualmente in concorso a Cannes con un nuovo film e così ho deciso di prendere la palla al balzo e guardare questa pellicola che mi è capitata davanti agli occhi in una delle classifiche del sito di cultura popolare Complex. Decisamente ne è valsa la pena, essendomi ritrovato davanti a un lavoro molto interessante ed accurato. Il film, che dura all'incirca due ore, viaggia in sordina per tutta la prima parte. Al di là della bella impostazione delle immagini e dell'indubbia qualità della regia, non sembra esserci un motivo particolare per interessarsi alla vicenda (se non la stranezza di fondo, tipicamente giapponese; chi altri sarebbe stato in grado di pensare di trovare una moglie tramite un provino cinematografico?). Durante tutta la seconda metà del film però la situazione si complica, diventa più interessante e coinvolgente a mano a mano che il protagonista precipita nel delirio ai limiti della piscopatia di Asami Yamazaki, affascinante e misteriosa ragazza.

Durante la ricerca che il protagonista compie per avere notizia della giovane di cui si è sinceramente innamorato, cade nell'abisso sincopato di una mente delirante, che fa riflettere questo potere di distorsione anche all'interno del tessuto delle immagini. Così mentre il film si avvicina alla sua epitome, localizzata nei bellissimi momenti finali, tutto si trasforma in un incubo a stanze permeabili, dove lo spettatore e i personaggi si muovono con una libertà associativa tutta psicologica. Non c'è più un filo a tenere insieme la vicenda e le situazioni si accavallano confusamente senza perdere tuttavia la loro elevatissima carica estetica. 

Il montaggio la fa da padrone e integra la già splendida fotografia che aveva tratteggiato gli spazi e i modi linguistici di tutta la prima ora abbondante di film. La conclusione è la resa materiale di tutto questo disagio che si è propagato nella matrice materiale del film, facendone vibrare gli elementi linguistici. La brevissima e praticamente non mostrata scena di tortura che chiude idealmente la vicenda è il malessere di una donna eterea eppure destinata all'abisso che prende forma. 

Questa pellicola, che ho rintracciato alle prime posizioni nella classifica dei cinquanta film più disturbanti, di certo non ha colpito nel segno pienamente se si considera quello come il metro di giudizio della qualità del lavoro di Mike. In un'ottica più generale, che possa invece tenere conto della resa generale del prodotto, l'impressione che Audition lascia non può che essere molto buona, sia per la gestione della diegesi e dei suoi tempi, sia più in generale per il modo in cui il linguaggio cinematografico ha trovato piena espressione in un film che è comunque dotato di un solido e coinvolgente impianto narrativo.
VOTO: 8.50/10

venerdì 17 maggio 2013

Bimba col pugno chiuso



Bimba col pugno chiuso di Claudio di Mambro, Luca Mandrile e Umberto Migliaccio, Genere: documentario, Italia, 2013.

Il periodo fra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio è uno dei più importanti per la memoria collettiva della nazione italiana, essendo il momento in cui trova manifestazione il ricordo della Liberazione e viene data voce ai lavoratori che, oggi più che mai, hanno bisogno di essere rappresentati. Sulla prima di queste due occasioni di riflessione si concentra il documentario Bimba col pugno chiuso, che attraverso la voce di Giovanna Marturano, classe 1912, ci porta proprio dentro la storia di un paese che viene il dramma della guerra e della lotta partigiana.

Seguendo la voce di Giovanna, vedendola raccontare la sua vicenda e quella della sua normalissima famiglia è possibile avere un’immagine diversa di quei momenti così carichi di ideali, meno istituzionale ma certamente più vitale. Rifuggendo lo stereotipo dell’histoire evenementielle, dando cioè il giusto spazio a un racconto personale che riflette in sé il valore di universalità del suo messaggio, si è accompagnati nella rievocazione non solo di un altro mondo ma anche (e soprattutto) di una diversa sensibilità verso la vita.

Intervallata dai piacevoli frammenti animati che, spesso un po' troppo pedissequamente, fanno da controcanto visivo al racconto orale di Giovanna, la pellicola colpisce per la sua intensità disincantata. La drammaticità degli eventi convive con i ricordi aneddotici dell’anziana partigiana e il risultato è un arazzo narrativo dai diversi accenti che si spande in diacronia dal Fascismo alla Liberazione. La voce e il volto di Giovanna acquistano qualità quasi tattile e questo contribuisce ancora di più a riconoscere qualcosa di intimamente vero ed attuale nelle sue memorie.

Particolarmente significativo per questo motivo appare il passaggio in cui il racconto viene portato in una scuola e, attraverso gli occhi degli studenti, si può facilmente capire quale sia il valore di estrema attualità che la parabola esistenziale di Giovanna Marturano ha tracciato, che si concretizza come sempre ha fatto in passato nell’invito a una ribellione continua, che comunque non si riduce a sterile ossequio di un’ideologia partitica ormai irrealizzabile.

Un film molto interessante da un punto di vista ideale per i valori che comunica, realizzato discretamente e che meriterebbe di ricevere un'attenzione maggiore, quantomeno per il messaggio pedagogico che vi è sotteso.
VOTO: 7/10

mercoledì 15 maggio 2013

Laurence anyways

 

Laurence anyways di Xavier Dolan - Genere: drammatico - Canada 2012

Di Xavier Dolan, giovanissimo regista canadese, già due volte partecipante alla sezione Un certain regard del festival del cinema di Cannes ho già avuto modo di parlare. Proprio con Laurence Anyways Dolan ha peraltro vinto un premio in quella manifestazione lo scorso anno, che già lo aveva visto partecipare l'anno precedente. Attendevo quindi con estremo interesse di poter vedere questo suo terzo lungometraggio, uscito in dvd anche se (come per gli altri due film) non è ovviamente disponibile una versione in lingua italiana. 

In generale il film si presenta come una gigantesca summa dei temi cari al regista, che in particolare affronta in questa sua ultima fatica l'itinerario di trasformazione di Laurence, un insegnante che - alla soglia dei trentacinque anni - decide di cambiare sesso e di diventare una donna. Dolan quindi non smentisce la sua predilezione per le tematiche LGBT, sempre declinate in particolare attraverso una lente che ne mette in primo piano le componenti relazionali e sociali. Registriamo comunque, rispetto ai precedenti film, una enorme complessificazione dell'universo diegetico che non appare più chiuso nell'analisi quasi maniacale di rapporti minimi come quello con la madre (J'ai tué ma mère) o quello di amore/amicizia in un triangolo dalle tinte indie (Les amours imaginaries). 

Laurence è il simbolo di una crescita, un film spartiacque che apre a un nuovo momento d'indagine. Lo sviluppo linguistico che ha avuto modo di farsi nei precedenti lavori viene qui fatto esplodere in tutta la sua potenza. Vengono meno le parti più autoreferenziali (sintomatica anche la scelta di Dolan di non prendere parte al film in qualità d'attore, se si esclude un brevissimo cammeo alla Hitchcock) e si privilegia una sinergia molto ben riuscita fra strutturazione narrativa e sperimentazione estetica. Anzitutto va notato che Dolan è stato in grado di gestire egregiamente una pellicola di lunghezza davvero insolita (più di 180 minuti), evitando anche il pericolo sempre presente di scadere nel banale o di sbagliare il ritmo narrativo. La costruzione è infatti sempre molto ben sorvegliata, gli eventi si dispongono bene sulla lunga durata e la sceneggiatura regge egregiamente, anche grazie alla presenza di una cornice (altro elemento topico di Dolan) che commenta e chiude il film. L'unica nota un po' dolente sta proprio nell'ultimo scambio dialogico - piuttosto banale per essere un finale - ma, dopo un film così ben fatto è davvero una questione di poco conto.

Come abbiamo già avuto modo di notare per i titoli precedenti, la fotografia è ottima ed evidenzia uno sviluppo linguistico di Dolan, che è ormai pienamente padrone dei mezzi espressivi che utilizza. Rimangono alcuni relitti delle sue precedenti creazioni (come il primo "in negativo" che si effettua riprendendo le teste di spalle, tipico di Les amours imaginaries) ma la novità è che questi elementi ora non sono più una sorta di autocompiacimento estetico (piacevole ma, a volte, piuttosto fine a sé stesso) ma sono sempre subordinati alla comunicazione di un portato narrativo o extra-narrativo ben rintracciabile. L'abilità registica si vede poi nell'utilizzo di tutta una serie di elementi sintattici molto ben costruiti sia a livello di inquadratura che a di montaggio; si usano inquadrature diverse, slittando senza frizioni sensibili attraverso vari stili di realizzazione. La massima prova di tutto ciò sta nel fatto che Dolan è riuscito a inserire perfino un'interpellazione allo spettatore, in pieno stile moderno (il che oggigiorno è piuttosto raro). 

Un ultima nota va senza dubbio data al comparto musicale, sempre centrale nei film di questo cineasta canadese. Come in Les amours imaginaries si riscontrano diversi brani attinti dallo stile indie-rock (?) che di solito vengono utilizzati in corrispondenza dei pezzi più estetici. A questo repertorio va aggiunta un'ampia selezione (più ampia che in passato) di pezzi classico-sinfonici, che il regista piega magnificamente in alcune sequenze molto piacevoli anche se non narrativamente utili ai fini del procedere della storia. 

Ci sarebbe molto altro da dire su questa pellicola. Per concludere mi permetto di segnalare come Laurence si inserisca perfettamente nell'alveo scavato dai due precedenti film per tematica, idea di fondo etc. Quest'ultimo lavoro fra l'altro sembra veicolare un'idea meno pessimista del rapporto interpersonale mediato dal genere, portando a compimento una parabola di pacificazione che forse apre uno spiraglio di luce sulla nostra contemporaneità. In effetti Dolan, con la sua storia di Laurence Alia (significativamente neutro plurale dell'aggettivo latino alius, altro) sussume una vicenda che è comune quando non universale. Non si vogliono fare eccessivi panegirici al regista, ma questa trilogia d'esordio sembra essere la voce che narra delle vicende dell'oggi (o dell'immediato passato) con disincanto e senza banalità. Walter Benjamin diceva che la storia si fa per chi nel passato è morto senza avere voce, per redimerlo e per narrare la sua vicenda e; di queste storie senza voce, Laurence Alia è il simbolo più eloquente
VOTO: 9.50/10

Begotten



Begotten di E. Elias Merhige - Genere: sperimentale - USA, 1990

Uno dei film più inquietanti e particolari che abbia mai visto. Bandito dallo stato di Singapore dove non può essere mostrato e pesantemente osteggiato anche qui in Occidente dai rappresentanti ecclesiastici, Begotten è un film che più che la trama (pure abbastanza innovativa se si considera che è stato realizzato nei primi anni Novanta), colpisce soprattutto per la violenza visiva ed estetica con cui aggredisce, nel vero senso della parola, lo spettatore. 

Anzitutto è bene specificare che una vera e propria storia non c'è, o almeno così sembra fino a che durante i titoli di coda, non ci viene spiegato il senso del delirio cinematografico che abbiamo appena visto, con lo scioglimento di tutte le allegorie religiose che vengono finalmente svelate. Questo spegne (o almeno, dovrebbe spegnere) le perplessità del pubblico e in effetti grazie a questa chiave di lettura fornitaci dal regista, le stranezze che ci vengono proposte sin dai primi minuti del film appaiono almeno parzialmente comprensibili. Dietro a questa composizione ai limiti della psicosi si nasconde quindi una grande allegoria della Genesi, che decostruisce in negativo il topos della creazione con l'inquietante sequenza d'apertura. 

Considerando i tempi è però subito chiaro che Begotten non è stato pensato né si vuole presentare come un film narrativo: gli eventi diegetici si raccolgono tutti nei primi venti minuti di girato mentre, per tutto il resto del tempo, praticamente non succede nulla. Questo in realtà non dispiace particolarmente dal momento che l'assenza di un qualcosa da dire non zittisce la voce registica, che si concede ampi spazi di lavoro sulla natura stessa dell'immagine, arrivando a risultati decisamente buoni. 

La caratteristica principale del film di Merhige è quella di ricollegarsi a tutta una tradizione di sperimentalismo cinematografico che, a partire dai film delle origini, ripropone anche agli spettatori contemporanei la sensazione di una violenza anche fisica della visione. Begotten infatti è un film che unisce a un'estrema crudezza dei contenuti, una modalità di presentazione che crea anche un vero e proprio fastidio visivo. Il film è quindi insostenibile sia per i contenuti che per la natura stessa dell'immagine; Begotten è un (bel) film al limite della visione, sui limiti della visione. Criptico ma non per questo non meritevole di attenzione.
VOTO: 7.50/10

martedì 14 maggio 2013

Transsiberian



Transsiberian di Brad Anderson - Genere: drammatico/thriller - Spagna, Germania, Regno Unito, Lituania, 2008

Di solito non apprezzo particolarmente i film molto lunghi, a meno che non siano estremamente densi dal punto di vista narrativo (pensiamo ad esempio agli episodi de Il signore degli anelli che, al di là della lunghezza veramente colossale, comunque non annoiano mai). Per questo motivo il film di Anderson mi si prospettava terribile, ma così non è stato. Quello che mi ha sorpreso, soprattutto, è stato notare come questo accadesse anche senza una trama prepotente; la struttura narrativa del film è infatti abbastanza rada e dilatata e lascia ampio spazio a intermezzi estetici molto interessanti.

La narrazione miscela sapientemente elementi attinti da diversi registri stilistici, con un'apertura in pieno genere drammatico che vira, nell'ultima parte della pellicola, su stilemi thriller con accenti grotteschi. Nel complesso però le transizioni appaiono piacevoli, cosa aiutata anche dal fatto che alcune di esse vengono annunciate in maniera sotterranea già nel precedente sviluppo della storia. I personaggi appaiono ben caratterizzati e anzi, sono proprio le loro ben definite individualità a far procedere (seppure con qualche caduta nel banale) la vicenda mantenendo inalterata l'attenzione dello spettatore.

A ciò si deve necessariamente aggiungere un comparto tecnico meritevole, che brilla sopratutto per la fotografia veramente ben fatta: le ambientazioni, soprattutto in esterna, sono splendide e spesso la scelta del punto di ripresa costruisce le inquadrature in maniera rigorosa ma tanto bella da apparire quasi casuale. Interessante è anche il fatto che una dei protagonisti sia fotografa e che proprio l'immagine fotografica contamini pesantemente la struttura del film, fondendosi con la successione dei fotogrammi. 

Un altro spunto meritevole di attenzione è quello che si presenta soprattutto nella prima parte del lavoro di Anderson e che vede un continuo cambio della lingua utilizzata nei dialoghi, come se la Siberia che si sta attraversando in treno sia una terra di nessuno, una terra senza storia la cui verità rimane per sempre sepolta sotto la neve, nel silenzio delle persone rappresentate (nell'immagine fotografica come in quella cinematografica) con spunti di ejzenstejniana memoria.
VOTO: 8/10

venerdì 10 maggio 2013

Murder set pieces



Murder set pieces di Nick Palumbo - Genere: thriller/horror - USA, 2004

A parte il nome del regista che ricorda uno dei personaggi dei trailer cinematografici alla Maccio Capatonda, ho deciso di vedere questo film dopo che il sito di cultura popolare Complex lo ha inserito nella classifica dei cinquanta film più disturbanti della storia del cinema. In effetti siamo di fronte a un'opera - per citare la locandina - shockante, orrorifica e controversa. A mio modesto parere si tratta di un film colmo di elementi interessanti che però è viziato da diversi errori piuttosto importanti, che ne compromettono la qualità complessiva.

Anzitutto la trama, molto semplice e per nulla originale (tanto da poter essere riassunta bene in una puntata di Criminal minds o simili per capirci) ha dei paurosi vuoti narrativi, nel senso che le situazioni presentate sono inverosimili e a volte illogiche; questo rende tutta la costruzione molto fragile e costituisce un primo importante elemento di debolezza del film. Sarebbe stato molto più saggio (ed è una scelta che a tratti sembra venire ventilata dalla regia) rinunciare completamente all'apparato diegetico arrivando a confezionare qualcosa di simile al già recensito The bunny game. In questo caso si sarebbero potute facilmente sacrificare le strutture della credibilità narrativa. 

Montaggio attento e fotografia nel complesso discreta accompagnano la discesa dello spettatore nel delirio femminicida del protagonista. Molto belli gli intermezzi psicologici che, quando non risultano didascalici e prevedibili, rappresentano probabilmente la parte migliore di tutta la pellicola. Non siamo certo di fronte a un film di sensazioni, il sangue abbonda e le situazioni sono spesso disturbanti per lo spettatore, ma è comunque piacevole vedere che anche in questo marasma di sangue gratuito (o quasi) c'è spazio per un po' di riflessione estetica.

Alcune scene però sono decisamente inutili, mal realizzate e piuttosto ridicole: su questa linea vanno lette la sequenza della rapina alla videoteca per adulti (incommentabile per realizzazione, qualità dello scambio dialogico e credibilità dell'interpretazione complessiva) e il finale, veramente banale e prevedibile, nonché molto televisivo. Al di là di questo un altro elemento interessante non pienamente sfruttato dal regista è quello fotografico, che avrebbe potuto essere utilizzato per innescare una riflessione sullo statuto dell'immagine cinematografica alla Blow up, con l'aggiunta che in un film così disturbante tutto sarebbe stato amplificato al massimo.

Murder set pieces è insomma un film decisamente disturbante, che sebbene non sia spiacevole, delude parzialmente dal momento che avendo posto delle buone basi, ci si sarebbe aspettati fosse di una qualità generale migliore.
VOTO: 5/10

giovedì 9 maggio 2013

Dark Water (2002)



Dark Water di Hideo Nakata - Genere: thriller - Giappone, 2002.

Basato su uno dei racconti dell'omonima raccolta di Koji Suzuki, il film ne è il primo adattamento cinematografico, da non confondersi con il discutibilissimo remake americano fatto qualche anno dopo. Come per l'adattamento di The Ring (altra fortunata creazione letteraria di Suzuki), la regia è di Hideo Nakata, che con il suo adattamento del celebro romanzo è riuscito a cambiare le sorti di un intero genere e a creare il fenomeno dei primi anni duemila (qualcosa di paragonabile a Paranormal Activity quanto a risonanza, ma senza dubbio migliore per quanto riguarda la qualità).

L'accoppiata regista/romanziere aveva già funzionato e questo film non fa altro che confermare le aspettative: siamo di fronte a uno dei più bei film thriller (o horror, a seconda di come lo si intenda) che io abbia mai visto. Ciò che il regista riesce a fare, sfruttando magnificamente tutti gli elementi del linguaggio cinematografico che conosce, è trasmetterci delle sensazioni empatiche nei confronti della vicenda narrata; tutto è sapientemente calcolato con il solo fine di suscitare la nostra emozione, che sia paura, ansietà o semplice partecipazione. Il grande pregio di questa pellicola, oltre all'originalità della storia (ovviamente commisurata all'anno di produzione) e all'alta qualità della trasposizione (che si mantiene fedele all'originale, mantenendone cioè il quid), sta soprattutto nella caratterizzazione della protagonista femminile.

Pochi tratti sono sufficienti, qualche pennellata che viene dalla sceneggiatura, dalle inquadrature o dalle scelte cromatiche, per comunicarci tutta la storia di una donna sola, terrorizzata all'idea di perdere la figlia, una donna di cui ci viene detto molto poco (ma quel poco basta per farcene apprezzare l'umanità). La fragilità del personaggio si riverbera su tutto un microcosmo ambientale rappresentato con una sensibilità registica assolutamente fantastica. La fotografia e i cromatismi delle inquadrature sono freddi, cupi, umidi e confezionano veri e propri momenti visivi puramente estetici. 

Nel complesso un film assolutamente fantastico, che meriterebbe di essere visto praticamente da chiunque per la particolare modalità di resa della diegesi. Il finale è la vera e propria summa di tutte queste modalità e unisce a tutti gli elementi già delineati una sensibilità tutta orientale per il rapporto con la figura genitoriale e con i trapassati. Consiglio fra l'altro anche la lettura dei racconti di Koji Suzuki, tutti molto belli e tutti potenzialmente degli ottimi film.
VOTO: 9/10

mercoledì 8 maggio 2013

Imaginaerum by Nightwish



Imaginaerum by Nightwish di Neil Dunn, Jukka Helle, André Rouleau, Markus Selin - Genere: fantasy/musicale - Finlandia, Canada, 2012.

Quando ho letto la trama di questo film ho pensato che prendere come colonna sonora le canzoni dei Nightwish, gruppo che non conosco molto bene ma che comunque trovo discretamente interessante, potesse essere una cosa interessante. In effetti questo lavoro internazionale che fonde bene realismo e grafica computerizzata, è secondo me una buona resa cinematografica delle atmosfere evocate da questa compagine musicale. La trama è interessante e, anche se non profondamente innovativa, riesce tutto sommato a interessare anche grazie a delle belle ambientazioni e - più in generale - a delle atmosfere molto ben costruite.

La scelta di strutturare la narrazione su diversi piani temporali che si scambiano di continuo risulta vincente ed è facilitata anche dall'utilizzo molto saggio della grammatica cinematografica. La fotografia è buona, soprattutto nelle scene dell'ospedale dove la scelta del monocromatismo bianco e di una calma quasi sepolcrale risulta perfettamente applicabile alla situazione narrata. Anche la caratterizzazione dei personaggi è tutto sommato buona, anche se la situazione che da' origine alla vicenda è in sé abbastanza didascalica; più piacevoli sono invece gli intermezzi più onirici, che mi hanno ricordato molto alcuni passaggi un po' allucinati in stile Alice nel paese delle meraviglie.

Va da sé che la colonna sonora sia di ottima qualità, sia in generale che nel caso specifico dei pezzi dei Nightwish. L'unica cosa che non ho particolarmente apprezzato è però il protagonismo che questi ultimi si ricalcano sul palcoscenico del film, in particolare nella sequenza del circo. Questo non deriva tanto da un mio particolare disamore nei loro confronti o verso il musical in sé, ma trovo che sia stata una scelta poco adeguata in quanto non contribuisce in alcun modo alla costruzione della trama o allo svolgersi della progressione drammatica della storia. 

Questa critica si inserisce più nel dettaglio in una presa di coscienza che secondo me va fatta in questa sede dell'abuso del registro linguistico del gotico che, da Tim Burton in poi, ha sempre avuto un posto privilegiato all'interno di un certo cinema d'animazione e non solo. Basti dire che il pupazzo di neve che è un po' l'antagonista della vicenda assomiglia inquietantemente al ben più noto Jack Sckeleton, del quale non ha però il carisma o la presenza scenica. Quello che si respira in questo film (e questo secondo me è il suo grande problema) è un certo autocompiacimento degli sceneggiatori che hanno inserito a più livelli nella trama delle immagini (quindi non solo a livello narrativi) elementi attinti da una sensibilità ormai stanca e destinata presto a ripiegarsi su sé stessa. 

In generale quindi un film che, sebbene sia stato realizzato evidentemente molto bene, appare viziato da alcune ingenuità a livello diegetico (come il finale piuttosto banale) e al livello più generale della sensazione e delle fonti che utilizza per rappresentare sé stesso. Un peccato, perché se i quattro (!!!) registi avessero voluto spingersi oltre, avrebbero avuto tutti i mezzi a disposizione per creare un prodotto di ben altra levatura.
VOTO: 6.50/10

Tirannosauro



Tirannosauro di Paddy Considine - Genere: drammatico - Gran Bretagna, 2011

Film molto discusso, molto duro e da molti ritenuto un piccolo capolavoro della cinematografia contemporanea. Tirannosauro è un film inglese e si vede. Ce lo dicono i colori, l'aria plumbea delle sue ambientazioni e una generale tendenza all'autodistruzione e a rappresentare la gioventù con quell'aria perturbante che caratterizza anche questa pellicola. Chi ha gridato alla magnificenza dopo aver visto il film non aveva tutti i torti: le immagini sono molto belle e comunciano appieno un senso di vuoto esistenziale che domina incontrastato in tutte le sequenze. L'autodistruttività è la cifra essenziale di una pellciola profondamente interiore, che però lo è senza averne l'aria.
La storia è piuttosto semplice e si biforca molto presto nelle vicende dei due protagonisti, le cui similitudini appiaono sin da subito molto spiccate. L'unico problema riguardo a ciò è - soprattuto in alcuni tratti più avanzati nella diegesi - una certa prevedibilità delle situazioni, che in effetti appaiono pesantemente attinte da un repertorio ampiamente sperimentato dalla cinematografia e dalla televisione.
Al di là di questo però siamo certamente di fronte a un film ben realizzato che, come ho già detto, mi ha impressionato sopratutto per i colori e - in alcuni punti - per la fotografia, essendo il cromatismo scelto decisamente funzionale alla rappresentazione del contenuto diegetico della pellicola. In generale, quando il regista riesce ad utilizzare gli elementi della grammatica visiva per raccontare qualcosa senza che ci sia bisogno di dirlo, siamo certamente di fronte a un bel film, cui perdoniamo volentieri anche alcune ingenuità come la costruzine (in sé abbastanza ovvia) del finale.
VOTO: 7/10

martedì 7 maggio 2013

Hellraiser 3: Inferno sulla città



Hellraiser III: Inferno sulla città di Anthony Hickox - Genere: horror - USA, 1992

Clive Barker è un registra estremamente interessante: nonostante abbia realizzato pochissimi lungometraggi, il suo stile e la sua firma sono stati lungamente imitati o sfruttati in senso generativo. Il suo Hellraiser è stato il capostipite di una fortunatissima saga horror che si è arricchita nel 2011 di un nuovo capitolo e della quale Inferno sulla città rappresenta il terzo episodio. E' una saga che, sebbene si inserisca perfettamente nell'ambito della serialità di genere anni Ottanta/Novanta, sviluppa delle caratteristiche peculiari, inedite rispetto ai vari Nightmare e altri. La specificità di Hellraiser è infatti un maggiore utilizzo di effetti speciali che si prestano molto bene a rendere il clima di incubo intriso di religiosità perversa che percorre le storie dei cenobiti. Il capitolo pilota della saga aveva poi la straordinaria caratteristica (se confrontato con film isomorfi narrativamente), di avere una dimensione claustrofobico-intimista per quanto riguarda le ambientazioni e di non utilizzare meccanismi spiccatamente slasher

Anche Inferno sulla città utilizza grossomodo le stesse strategie di realizzazione, mettendo al centro un ampio uso degli effetti speciali che, sebbene oggi appaiano piuttosto ridicoli, manifestano comunque una certa abilità nel loro utilizzo. In questo film aumenta poi leggermente il tratto sanguinolento, ma considerando che si tratta di una tendenza comune a tutti gli episodi "figli" delle grandi saghe horror anni ottanta, il risultato è ancora piuttosto limitato e quindi apprezzabile. A ciò si deve aggiungere la grande innovazione di Inferno sulla città, che consiste nell'abbandono delle ambientazioni chiuse, sostituite - soprattutto nella seconda metà del film - da scenari urbani aperti. Questa inversione di tendenza (che poi si capovolgerà di nuovo in alcuni degli episodi successivi) costituisce un'importante variazione sul tema, che soprattutto gli affezionatissimi dei carismatici personaggi cenobitici dei film avranno certamente apprezzato. Lo scorcio cittadino infatti permette di apprezzare un distruttivo (e a tratti, è bene dirlo, troppo calcato) potere distruttivo di Pinhead, l'antagonista principale della saga. 

Nel complesso siamo quindi di fronte a un film godibile, certamente da vedere per tutti gli appassionati del genere. Uniche pecche, in una pellicola tutto sommato ben realizzata anche dal punto di vista tecnico, sono alcuni dialoghi poco riusciti che ricalcano in maniera un po' troppo pedissequa uno stereotipo tipico del genere. Su questa stessa linea va notato che anche la protagonista risulta, sopratutto oggigiorno, un personaggio piuttosto scontato e prevedibile.
VOTO: 7/10

lunedì 6 maggio 2013

Hansel e Gretel cacciatori di streghe



Hansel e Gretel cacciatori di streghe di Tommy Wirkola - Genere: fantasy - Germania, USA, 2013.

Insieme ai supereroi gli altri grandi protagonisti del cinema contemporaneo sono senza dubbio i personaggi delle fiabe: è cominciato tutto con Cappuccetto rosso sangue e questa pellicola statunitense non fa che confermare questa tendenza. Sui motivi di questa scelta si potrebbe discutere ampiamente e penso che, in generale, i personaggi e la struttura della fiaba classica si adattino molto bene all'idea di cinema che la contemporaneità ci sta trasmettendo, ovvero quella di una macchina incantatrice. Al cinema vediamo costantemente nuove favole, testi di ultima generazioni che però le ricordano in tutto e per tutto; quindi perché non trasportare anche i vecchi canovacci (in questo caso quello dei Grimm) sul grande schermo?

A parte le ragioni ideali che possono aver spinto in questa direzione, il film in questione si presenta piacevole e scorre molto bene. Prende come punto di partenza la favola originale e la sviluppa in diacronia, mostrandoci (dopo un prologo piuttosto inutile che riassume in tre minuti al massimo la vicenda di base) i due protagonisti cresciuti, che hanno fatto della lotta alle streghe la loro ragione di vita (in realtà, il loro lavoro visto che non sono mossi da alcun idealismo se non da quello per il denaro). 

Comunque la trama è gradevole, anche se in alcuni punti piuttosto scontata. Anche i personaggi, nel complesso abbastanza ben caratterizzati, cadono paurosamente in alcuni punti dove ad esempio Hansel non riesce a non diventare il classico protagonista insopportabilmente tamarro dei classici film d'azione americani. Su questa linea vanno anche considerate le numerosissima scene di lotta, alcune delle quali sono molto ben fatte; c'è però da dire che una buona parte di queste ultime si basa praticamente solo su scontri corpo a corpo e la magia finisce con l'avere un ruolo molto marginale (il che non è certo un male di per sé, ma non stiamo parlando di un film di Jackie Chan...).

In ultimo segnalo la presenza, apparentemente inspiegabile, di alcune sequenze piuttosto cruente. Non siamo ancora nel vero splatter ma, essendo la riproposizione filmica di una trama, mi sarei aspettato qualcosa di più delicato. Non che la cosa mi abbia sconvolto ma, anche in questo caso, ravviso una tendenza comune anche ad altri film del genere che tendono a presentare la fiaba come tinta di nero. In questo caso specifico, mi sembrano inserti che non hanno molto senso, sinceramente anche se nel complesso non rovinano un film tutto sommato piacevole se si cerca qualcosa di non impegnativo.
VOTO: 6/10

domenica 5 maggio 2013

Dark Skies



Dark skies di Scott Stewart - Genere: thriller/fantascienza - USA, 2013

Uscito a febbraio nelle sale americane, Dark skies si fregia di avere all'interno del suo entourage produttori che hanno collaborato alla realizzazione di Paranormal activity e del discutibilissimo Insidious. In effetti si vede abbastanza bene e questo, a diversi anni dall'uscita del film-evento, forse non è più un bene. Il film di Stewart ha la caratteristica fondamentale di essere densissimo da un punto di vista diegetico: in un'ora e trenta di film si succede un numero di eventi decisamente elevato, con una concentrazione ulteriore, ai limiti del disorientamento, sul finale.

L'inizio è nel complesso abbastanza promettente e preme molto su elementi attinti dal genere del thriller psicologico; non siamo certo di fronte a una grande novità ma quantomeno la grammatica del genere è utilizzata correttamente. La tensione narrativa si mantiene buona anche se ci sono alcuni snodi che risultano abbastanza inutili e che probabilmente sono stati inseriti nella sceneggiatura solamente per coinvolgere emotivamente lo spettatore (come la questione delle difficoltà economiche della famiglia e dei problemi coniugali, che a livello di trama non serve assolutamente a nulla). 

Nella seconda parte invece il linguaggio diventa pasticciato e tutto assume un'aria abbastanza accademica: la vicenda vira sensibilmente verso il registro sci-fi che viene riproposto praticamente senza modifiche, cosa che è evidenziata bene dalla sequenza del colloquio con l'esperto ufologo. Anche la lunga sequenza in cui la famiglia si confronta con i Grigi è abbastanza prevedibile, eccettuati alcuni momenti in cui - nonostante non si capisca bene cosa stia succedendo - la qualità dell'immagine migliora sensibilmente; un peccato che si tratti soltanto di pochi casi isolati. Tutto si ripiega poi frettolosamente sul prevedibilissimo finale, che conferma la sensazione che già si andava adombrando in precedenza, ovvero di essere di fronte a una puntata di X-Files dilatata all'inverosimile. 

Se il regista avesse tenuto fede alle premesse iniziali che, seppure non eccellendo in qualità si mantenevano interessanti e coinvolgenti, e avesse evitato in particolare la chiusa telefilmica, il prodotto avrebbe avuto senza dubbio una qualità migliore e sarebbe riuscito a sfruttare decisamente meglio dei suggerimenti che venivano direttamente dalla diegesi, comunque non originalissima. Nel complesso quindi un film mediocre, che si lascia dimenticare abbastanza in fretta. 
VOTO: 5/10

sabato 4 maggio 2013

I fiumi di porpora



I fiumi di porpora di Mathieu Kassovitz - Genere: thriller - Francia, 2000

Ho visto questo film un po' di anni fa, nei primi anni duemila, e ho pensato che sarebbe stato interessante rivederlo con maggiore cognizione di causa. Certamente si tratta di un film che riesce a intrattenere ma cos'altro è in grado di offrire allo spettatore? Purtroppo non molto. E' bene intenderci: il thriller si segue bene, è interessante perché propone un buon numero di colpi di scena e una storia articolata che almeno all'inizio sembra irrisolvibile. Da questo punto di vista, almeno, siamo perfettamente in linea con una visione nel complesso gradevole.

Un altro punto interessante del film sono le inquadratura monumentali che, accompagnate da musiche nel complesso appropriate anche se a volte un po' aneddotiche, fanno respirare alle immagini un'aria in stile Il codice da Vinci. Ovviamente si tratta di una similitudine a posteriori, ma i riferimenti alla sfera del sacro e il tono messianico-escatologico generale potrebbero far intendere una filiazione della trasposizione filmica del best-seller di Brown proprio da qui. Anche la fotografia, soprattutto in esterno, è buona; in particolare per quanto riguarda le scene montane, anche se a volte cadono in luoghi comuni da film d'azione all'americana.

Fin qui niente di strano. Il problema invece si registra nella sceneggiatura e in particolare nella costruzione di alcuni personaggi che, spesso, appaiono completamente inutili. Così i due galoppini di Vincent Cassel, che peraltro incarna a sua volta uno stereotipo narrativo anche troppo inflazionato, vanno ad assomigliare paurosamente ai personaggi dei peggiori telefilm polizieschi francesi (di quelli che si vedono su Rete4, per intenderci...) e il film assume un'aria che - sebbene non sia tutto sommato spiacevole - appare a tratti troppo televisiva.

Questo fra l'altro è un grande peccato, dal momento che Kassovitz sembra aver avuto anche intuizioni decisamente felici, come la scena di combattimento corpo a corpo (sequenza di per sé poco interessante), che viene trasfigurata grazie al comparto sonoro nella sequenza di un videogioco di lotta. Questo apre a tutto un discorso di contaminazione linguistica transmediale ancora tutto da svilupparsi nel 2000; un vero atto pionieristico. 
VOTO: 6/10

giovedì 2 maggio 2013

Non violentate Jennifer (1978)



Non violentate Jennifer di Meir Zarchi - Genere: thriller - USA, 1978

Censurato in tutto o in parte in vari paesi del mondo, Non violentate Jennifer (I spit on your grave) è uno dei titoli cinematografici cult degli anni Settanta, sull'onda di un più generale interessamento a quel sotto-genere che sono i film di tipo exploitation. Siamo quindi di fronte a un film che è pensato per l'intrattenimento, squisitamente di genere ma che non per questo non riserva qualche sorpresa. Sull'onda del successo di questa pellicola, ne è stato riproposto un mediocre remake nel 2008 che, come spesso accade, non ha eguagliato le glorie del predecessore.

E' bene precisare che il film, tipicamente americano per impostazione e sviluppo, non sorprende eccessivamente da nessun punto di vista. La trama è chiara, scorrevole e senza troppe sorprese ripercorre lo schema caratteristico della tragedia di vendetta, sperimentato già nel teatro e nella letteratura. Ciò che maggiormente impressiona di questo film si trova negli interstizi figurativi, in quei piccoli dettagli che presi separatamente appaiono irrisori ma che, nel complesso, trasportano il lavoro di Zarchi a un livello superiore, che probabilmente giustifica almeno in parte il suo valore cultuale. 

Anzitutto il ritmo, strutturato con attenzione per accompagnare il dispiegamento della storia: la lentezza diventa quasi insopportabile quando Jennifer si trova sola, a dover fare i conti con il suo corpo violentato e con la sua debolezza. La dilatazione del tempo diegetico impressiona lo spettatore e dona alle immagini una potenza evocativa che altrimenti non avrebbero. Lo schema si fa invece decisamente più concitato nella seconda parte del film, che perde un po' per quanto riguarda la solidità narrativa ma guadagna in velocità.

La costruzione dell'inquadratura e la fotografia sono buone e, pur non eccedendo in sperimentazione e senza abbandonarsi a elevati autocompiacimenti estetici, cerca di darsi qualche slancio ulteriore in alcuni momenti particolari, localizzati soprattutto sul finale del film. Anche questi piccoli tentativi, seppure isolati, garantiscono una maggiore qualità complessiva della pellicola, sottraendola alle pure logiche del divertissement da sala. Certamente si tratta di un film senza particolari pretese, che però appare nel complesso ben realizzato e, riuscendo a intrattenere lo spettatore, soddisfa comunque il suo obiettivo principale. 
VOTO: 7/10