martedì 30 aprile 2013

Qualcuno da amare



Qualcuno da amare di Abbas Kiarostami - Genere: drammatico - Iran, Francia, Giappone 2012

Che Kiarostami sia per molti versi uno dei registi contemporanei più interessanti è un dato di fatto; anche i grandi però sbagliano o meglio, ogni tanto, si concedono dei passi falsi. Qualcuno da amare è l'errore di Kiarostami, un cambiamento di rotta a mio avviso piuttosto infelice in una carriera di tutto rispetto. E' bene intendersi subito e specificare che questo film, in cui il regista sceglie di esplorare il Giappone, non è pessimo né mal realizzato, ma non sembra davvero essere un film di Kiarostami.

Al di là dell'ambientazione assolutamente inedita, l'unico tratto tipico del regista che questo film conserva è il tema della falsità, che qui si esprime nella falsa relazione "nonno-nipote" che si instaura fra i due protagonisti, una giovane prostituta e un professore universitario in pensione. Il problema è che questa falsità, questa doppiezza, si situa - contrariamente a quanto avviene in titoli come Il sapore della ciliegia - soltanto a livello diegetico, mancando del tutto l'elaborata analisi sul linguaggio cinematografico che contraddistingue normalmente i film di Kiarostami.

Qualcuno da amare è un film dalle grandi pretese, che sembra voler indagare l'universo puntiforme delle relazioni umane, ma lo fa scegliendo un contesto (il Giappone) che risulta drammaticamente a-specifico: il film avrebbe potuto benissimo essere ambientato in qualsiasi parte del globo; perciò perché non tornare nei luoghi già ampiamente esplorati nella filmografia precedente e scegliere di spingersi all'estremo Est, donando al film una patina di inverosimiglianza che fa sembrare il film una copia malscritta di un Kim Ki-Duk depauperato delle sue peculiarità stilistiche?

E' un interrogativo senza risposta, così come senza risposta rimangono molti altri elementi, appositamente sospesi in un film che si caratterizza più per le sue assenze che per altro. I dialoghi (non so dire se questo sia un problema di doppiaggio o sceneggiatura) sono spesso piuttosto banali; ciò che si salva è in generale la fotografia, niente più che discreta, e una buona anche se non molto originale idea di fondo. A ciò aggiungiamo alcuni (rarissimi) momenti in cui il regista sembra aver ritrovato la strada di casa e si concede qualche attimo di indagine estetica più approfondita.

In generale il film è caratterizzato da un ritmo lentissimo, ai limiti dell'immobilità. In questo silenzio degli spazi e dei tempi tutto è estremamente dilatato e c'è spazio per la caratteristica migliore della pellicola, quello che a proposito di Xavier Dolan ho definito fenomenologia delle passioni umane. In questo caso tutto acquista un aspetto relazionale e il film diventa la storia di un diacronico dispiegarsi di amori e disamori da cui emerge in generale un paralizzante senso di solitudine. Un peccato che Kiarostami non abbia voluto osare di più, perché il risultato sarebbe potuto essere decisamente migliore.
VOTO: 6/10

lunedì 29 aprile 2013

Robotropolis



Robotropolis di Cristopher Hatton - Genere: fantascienza - USA, Singapore, 2011

Ci sono dei film realizzati come un puro divertissment, che anche se sono estremamente carenti sotto tutti i punti di vista non possono fare a meno di suscitare una risata (e questo, quantomeno, è già qualcosa). Ci sono film che sono bruti in una maniera indecente e, consapevoli di questa caratteristica, fanno dell'indecenza la loro cifra fondamentale, facendola assurgere quasi a ragione estetica. E poi ci sono i film come Robotropolis, che pretendono di essere film seri, pellicole vere e proprie pur facendo palesemente orrore.

Non fosse per questa patina di seriosità che il film si impone dall'alto, cosa che si vede soprattutto grazie a delle ambientazioni minimal molto alla moda, molto di design, tutto si risolverebbe senza grossi problemi. Invece, come da buon prodotto megalomane e americaneggiante, questo film di dubbia qualità pretende di rappresentarsi come una seria proposta di fantascienza il che, anche prescindendo dal fatto che il tema della rivolta delle macchine è stato sviscerato in tutti i modi possibili e immaginabili, appare comunque piuttosto ridicolo. 

Lasciando stare il comparto narrativo in sé che - come abbiamo specificato - non brilla per particolare innovazioni, la sceneggiatura è particolarmente carente e i dialoghi fra i personaggi a volte sfiorano il ridicolo. Tutto si risolve nella classica carneficina da cui si salvano (si scuserà la "rivelazione") i due protagonisti innamorati. Questo fra l'altro aggiunge una nota ancora peggiore a tutto il film, che per catturare l'attenzione di non si sa bene quale spettatore, vira sul rosa con la love story dei due personaggi principali. 

Non parliamo poi degli effetti speciali. Ammetto di non essere un esperto in materia e di non sapere bene cosa stia dietro alla realizzazione di un film di questo genere, ma alcuni passaggi erano onestamente piuttosto imbarazzanti. Una sequenza su tutte, quella che dà il via alla vicenda, con il robot che uccide un indifeso giocatore di calcio. Fra l'altro questo mi da' l'occasione di sottolineare come tutto il film in realtà poggi sulla sabbia almeno fino alla fine, dove viene rivelato che la follia dei robot è stata innescata da una manomissione umana (il che non solo è poco originale ma azzera anche tutte le idee che sarebbero potute nascere in merito; ad esempio "i robot hanno un libero arbitrio?" etc.). 

Di tutto questo disastro, forse, si può salvare solo la sequenza iniziale in soggettiva, che se fosse stata fatta meglio sarebbe stata anche apprezzabile. Peccato che, considerando la qualità complessiva del prodotto, il giudizio non possa essere che uniformemente negativo. Sconsigliato a chiunque, soprattutto agli amanti del genere sci-fi.
VOTO: 0/10

domenica 28 aprile 2013

Le streghe di Salem



Le streghe di Salem di Rob Zombie - Genere: horror - USA, Regno Unito, Canada, 2013.

Dopo aver tentato di riportare in vita, a mio modesto avviso con scarso successo, i film della serie Halloween, Rob Zombie torna nelle sale con un film che riporta la sua firma per buona parte del progetto. Un film diverso, che abbandona i toni da macelleria di adolescenti tipici dei remake da lui curati e ci trasporta nel mondo del paranormale e della stregoneria. Si romanza la storia del processo alle streghe di Salem, che diventa punto di partenza per stabilire, come spesso succede, un rapporto diacronico fra due registri temporali diversi.

Va detto sin da subito che la vicenda non è molto originale, ma quantomeno evita di cadere - in fase di realizzazione - per il ricorso ai soliti stereotipi registici che accompagnano questo genere di film. Non c'è nessun accenno alle soluzioni adottate per raccontare il mistero della strega di Blair, per fortuna e questo è già un grande merito del film di Zombie. In aggiunta sono piuttosto evidenti delle citazioni erudite sia a maestri del genere (si susseguono spesso sequenze di memoria argentiana che forse testimoniano una passione per il regista) e palesi sono alcuni riferimenti a Georges Melies, che proprio sulla dimensione magica del cinematografico si divertiva a lavorare. 

La pellicola è piacevole, non eccessivamente e inutilmente truculenta ma comunque in grado di costruire un filo di tensione abbastanza spesso da interessare lo spettatore. La vicenda procede con un ottimo ritmo e questo è aiutato anche da un intelligente uso del comparto sonoro e da una buona fotografia; spesso si raggiungono dei momenti molto evocativi che strappano il film alla stereotipia del genere e ci permettono di apprezzarne anche le qualità estetiche che, in questi contesti, emergono prepotentemente. 

Da segnalare solo alcuni passaggi poco riusciti, in cui si perde un po' il senso della vicenda e che ricordano a tratti delle logiche che sembrano rifarsi più al videoclip che al linguaggio cinematografico propriamente detto (ma l'errore è veniale, Zombie è anche musicista dopotutto). Tutto è tenuto assieme dalla presenza importante della protagonista, che appare sopratutto nella seconda parte del film come la vera e propria musa ispiratrice di tutta la vicenda da un punto di vista narrativo e compositivo (altra cosa comprensibile, essendo la moglie del regista). In definitiva un film decisamente piacevole, che riporta all'ordine del giorno il tema della stregoneria in un modo artisticamente interessante.
VOTO: 8/10

sabato 27 aprile 2013

Due o tre cose che so di lei



Due o tre cose che so di lei di Jean-Luc Godard - Genere: drammatico - Francia 1967.

Che il cinema di Godard sia uno dei più esteticamente belli della storia, è un dato di fatto. E' un cinema di assenze, di sistemi di riferimento che saltano inesorabilmente uno dopo l'altro, ma con la grazia di una ballerina classica. E' un cinema che mette in crisi il nostro rapporto con le immagini e che si costruisce in negativo a partire dall'esperienza del classico hollywoodiano. Due o tre cose che so di lei è la summa cinematografica di tutto questa poetica, portata all'ennesima potenza.

Non c'è una storia che si possa definire tale e il film si costruisce da solo tramite la giustapposizione di episodi apparentemente casuali, nel senso che non è dato un file rouge forte che possa riunire insieme tutte queste finestre sul mondo. Siamo agli antipodi di quello che siamo abituati a considerare un film, a tal punto che c'è persino da mettere in dubbio l'esistenza della protagonista (la bella Marina Vlady). Tutto è sospeso e anche da un punto di vista fotografico-compositivo sembra regnare un caos estetico molto piacevole, ma certo non facilitante per lo spettatore.

Tutto avviene come per errore e le scene si susseguono senza una signifcanza palese: è come se le cose e gli individui si trovassero per errore di fronte alla macchina da presa, che li coglie per sbaglio. Il film è quindi colmo di elementi apparentemente inutili, che però non possono classificarsi come tali perché manca uno scheletro narrativo abbastanza forte da far capire che cosa sia importante e che cosa no. Due o tre sono le cose che possiamo dire su questo film, proprio perché è cinematograficamente inutile e non per questo meno affascinante.

Riconosciamo che il ritmo è a tratti un po' troppo lento e che il tutto risulta abbastanza macchinoso anche rispetto ad altri titoli del medesimo autore, ma chi si chiedesse qual'è l'utilità di film di questo genere (così lontani dalla nostra sensibilità attuale), si chieda che differenza c'è fra leggere un romanzo e un testo di filosofia e, forse, avrà la risposta. Un (difficile e meraviglioso) capolavoro del cinema.
VOTO: 8.50/10

venerdì 26 aprile 2013

Smiley



Smiley di Michael Gallagher - Genere: thriller - USA, 2012

Il cinema di genere ci ha abituato a mostri e serial killer di ogni tipo, dagli antropofagi a quelli che abitano gli incubi delle persone. Gallagher propone la sua versione dell'omicidio seriale portando nelle sale (per ora non in quelle italiane), Smiley, il killer della rete. Il regista ricorre a un canovaccio consolidato, quello del teen slasher, nella canonizzazione proposta in particolare dai vari Scream. L'unica differenza è che in questo caso c'è una maggiore messa in evidenza della componente psicologica e delle implicazioni etiche dell'uso della rete.

In effetti uno dei pochi motivi per cui il film risulta interessante è costituito dalle lunghe tirate monologiche che il docente di Etica dell'università frequentata dai protagonisti propone ai suoi studenti, soffermandosi a lungo (e con fare tipicamente anglosassone), sulla presenza del male nella storia in quanto prodotto dell'agire umano e sulla sua permanenza multiforme nell'era contemporanea. Il problema è che, se questo è il punto di maggior interesse di un film thriller, vuol dire che qualcosa non funziona per il verso giusto. 

Infatti, a parte qualche trovata registica interessante sopratutto nella parte avanzata della pellicola, il film ripropone senza troppe variazioni sul tema una formula ormai troppo consolidata (a partire dall'ouverture non diegeticamente pertinente con il resto del film e che serve solo per introdurre la vicenda). Anche il finale si assesta su questa linea e - nonostante voglia evidentemente stupire - per come è stato costruito il film, risulta solo prevedibile e noioso. 

E' un peccato perché le premesse erano decisamente buone, visto che per una volta c'era un fondo di pensiero piuttosto solido a sorreggere l'impalcatura filmica. Smiley è infatti idealmente un film molto attuale, che si ricollega ad elementi forti della civiltà americana contemporanea, citando consapevolmente Anonymous e l'ansia da complotto internazionale che sembra dominare l'era di internet. Peccato che la realizzazione sia particolarmente deludente.
VOTO: 4.5/10

mercoledì 24 aprile 2013

La Casa (1981)



La Casa di Sam Raimi - Genere: Horror - USA, 1981.

Nell'attesa di poterne vedere il remake, in uscita a breve, è bene fare un salto nel passato (sono passati ormai più di trent'anni, cinematograficamente parlando un tempo lunghissimo) e guardare la versione originale di uno dei film che ha cambiato le sorti di un intero genere. La Casa è il primo episodio di una trilogia horror di Sam Raimi che sarà tanto importante e generativa da spingere altri registi a crearne dei seguiti "apocrifi", non direttamente connessi alla storia originale, soltanto per cavalcare l'onda del successo inaugurata da queste pellicola. Spesso però si parla in termini troppo entusiastici delle grandi saghe anni Ottanta, ma non è questo il caso.

E' ben vero infatti che La Casa è un film di genere a tutti gli effetti, sia nell'impostazione che negli effetti narrativi ma, al di là di questo, è innegabilmente un film molto ben realizzato. Bisogna certamente considerare che una certa distanza temporale ci separa dal tempo del suo licenziamento da parte dell'autore e questo non può non indurci a considerare con una certa clemenza alcuni dettagli, come gli effetti speciali che a noi risultano purtroppo scadenti. Al di là di questo però siamo davanti a un lavoro di tutto rispetto che, sorprendentemente anche per chi scrive, riesce a trasmettere ancora alcuni momenti di puro terrore, un'ansietà sottocutanea che è inarrivabile a molti dei film di genere odierni (se escludiamo alcuni titoli comunque estranei alla logica statunitense dei sottogeneri postmoderni). 

In particolare colpisce un aspetto che potrebbe apparire marginale ma che in questo caso si rivela una delle chiavi di volta di tutto l'edifico perturbante del film: un uso attento del sonoro garantisce un comparto audio mai banale e comunque funzionale a creare un senso di malessere e spaesamento nello spettatore. In questa direzione vanno anche i tagli di montaggio, spesso veloci e accordati significativamente proprio all'incedere violento della musica. Buona la fotografia, che si mantiene sempre a un livello discreto e arriva ad alti livelli nelle riprese in soggettiva. Su tutte le scene del film ricordiamo la bellissima sequenza della macchina da presa, dove il protagonista è come accecato dalla proiezione di una macchina vuota, mentre lo schermo alle sue spalle si tinge di rosso: la quintessenza di un genere sintetizzata in dieci secondi. Meraviglioso.

Concludendo un film veramente importante, che si caratterizza davvero e senza false retoriche per essere una pietra miliare e un prodotto di buonissima qualità. Difficile pensare che il remake possa ricreare questo spirito, rifuggendo dalle retoriche facilmente splatter e senza trama del cinema odierno.
VOTO: 8/10

lunedì 22 aprile 2013

Sleeping beauty



Sleeping beauty di Julia Leigh - Genere: drammatico - Australia, 2011

Di solito ho una buona stima per i film presentati al festival di Cannes, che secondo me è assieme a Venezia e al Sundance una delle più interessanti vetrine sul mondo del cinema. Quindi da questo film australiano avevo alte aspettative anche perché la trama sembrava decisamente interessante. Fra l'altro la bellezza delle ambientazioni e dei colori mi aveva subito catturato ed ero quindi pronto a vedere un piccolo capolavoro non ancora giunto in Italia. Purtroppo non è stato così...

Al di là dei costumi e della bellezza degli ambienti soprattutto in interno, che si colorano di tinte dannunziane e a tratti decadenti, molto esteticamente malate e interessanti proprio perché trasportano quell'aria da primi del Novecento ai giorni nostri, inserendo una diacronia nella narrazione, quasi il nulla. L'impianto in generale di per sé è anche interessante, mi piace cioè l'idea di trasporre in chiave moderna e antifavolisticamente demistificante la favola della bella addormentata, però la realizzazione è mediocre. 

Si poteva insomma fare molto meglio, sfruttando questo escamotage narrativo per tagliare lo spettatore fuori da un mondo che la protagonista non conosce e che proprio per questo appare inquietante. Invece, in modo molto poco interessante, allo spettatore è concesso di vedere qualcosa in più, ma non abbastanza affinché il tutto risulti ugualmente perturbante. Il risultato è un prodotto che alla fine non è né carne né pesce e risulta abbastanza deludente. Fra l'altro c'è un grande problema di ritmo narrativo: il film è lungo due ore e ce ne vuole una buona per far partire la vicenda, abbassando drasticamente l'interesse.

Il film quindi, di per sé non pessimo, risulta alla fine nient'altro che mediocre e riesce a salvarsi parzialmente solo grazie a una buona fotografia e a degli interessantissimi cromatismi. Troppo poco per un film selezionato a Cannes, secondo me.
VOTO: 5/10

sabato 20 aprile 2013

The Gerber Syndrome - Il contagio



The Gerber Syndrome: il contagio di Maxi Dejoie - Genere: thriller - Italia, 2011

Che gli anni duemila siano gli anni dell'incertezza e della paura lo sapevamo tutti e i recenti avvenimenti di Boston ce lo confermano. In realtà già da praticamente tutto il Novecento la nostra storia è stata periodicamente puntellata di allarmi pandemici di ogni tipo, primo fra tutti l'AIDS. Quindi la fantomatica (e non esistente) sindrome di Gerber che dà il nome al film si inserisce bene in una retorica ampiamente consolidata, non tanto dalla cinematografia quanto dalla vita reale.

Nel film di Dejoie c'è veramente tutto, dall' impianto da docu-fiction o da programma televisivo in stile "Matrix" alle testimonianze di diverso tenore carpite fra la popolazione, fino ad arrivare all'escamotage ormai ben rodato dai vari REC di seguire qualcuno che fa il suo lavoro e cogliere l'anormalità del quotidiano. Non si capisce bene qual'è il fine di questo film e - dopo novanta minuti buoni di visione - sembra piuttosto evidente che un fil rouge che possa unire questi registri non-cinematografici in un film vero e proprio, non sia dato. 

Fra l'altro, il grande problema ulteriore di questa pellicola è che fonde insieme tutti questi elementi, già di per sé stessi non troppo intelligenti, con una tipica sensibilità italiana per i thriller. Ad esempio è abbastanza fastidioso notare come i personaggi siano in fin dei conti delle macchiette didascaliche di atteggiamenti stereotipati che si pretendono radicati nell'italianità più di quanto magari non lo siano veramente. La cosa è ancora più inquietante se si pensa che questo film è stato realizzato da italiani (per la serie "siamo noi i primi a vivere dei nostri personaggi"). 

Il lavoro avrebbe potuto essere decisamente interessante se avesse messo in luce le dinamiche dell'immagine televisiva in un'ottica decostruttiva, ma l'adozione di questo espediente nel caso di The Gerger Syndrome è puramente funzionale al procedere di un racconto già di per sé ingolfato. Se a ciò aggiungiamo una colonna sonora che si rivela come un semplice e pedissequo ripercorrimento degli snodi diegetici e un'interpretazione ai limiti dell'imbarazzo... da salvare rimane ben poco.
VOTO: 1/10

giovedì 18 aprile 2013

Gummo



Gummo di Harmony Korine - Genere: drammatico - USA, 1997.

Gummo è il nome di un uragano, di un uomo, di uno stato mentale o di una società? Questo è il grande dubbio che rimane fortunatamente insoluto dopo aver visto il film della Korine. Siamo davanti a un'opera che pone molti interrogativi a molti dei quali, però, è meglio non dare risposta. Dare un senso a Gummo è come pretendere di dare un senso all'esistenza, perché non c'è film più reale di questo. Prendete il concetto di stato di natura hobbesiano, trasportatelo su una pellicola ambientata nel XX secolo e avrete il prodotto di cui stiamo parlando.

Un mondo collassato, distrutto dalla forza della natura. Un mondo eticamente sospeso, senza leggi, dove ognuno è libero di vivere secondo le sue preferenze. L'acqua sporca in cui Solomon si fa il bagno mangiando un piatto di spaghetti è una delle scene più rivoltanti che si possano concepire, eppure ha qualcosa di intrinsecamente vero, tanto da farci interrogare sullo statuto di verità di quelle immagini: e se Gummo non fosse altro che un documentario? Un footage di riprese effettuate dal vero, seguendo individui che realmente vivono dentro delle catapecchie, fra ammassi di vestiti maleodoranti e che per sopravvivere uccidono gatti che poi vendono a un ristorante cinese?

La risposta non è importante, basta l'interrogativo a far saltare le tradizionali barriere della visione e a far scattare, nel profondo del nostro io, la consapevolezza che al mondo c'è davvero qualcuno che ha vissuto il suo urgano Gummo. Forse non sarà Solomon, figura tanto particolare da sembrare di un altro mondo, ma qualcuno per lui che - fra l'altro - non ha la fortuna di essere stato messo su pellicola. Così il film, che rifugge qualsiasi progressione narrativa e si compone a partire da un'asignifcanza assoluta di frammenti giustapposti, diventa il grande manifesto di un altrove, il grido terribile di un'alterità inascoltata. 

Al contrario di quanto si dice di solito, il doppiaggio italiano è molto ben realizzato e il doppiatore di Solomon è perfetto per rendere quella sensazione di inquietante stranezza che ci deriva dai suoi racconti disincantati di ragazzo di strada. Mi risuona costantemente in testa una domanda e mi chiedo che genere di lavoro avrebbe fatto Pasolini su questo film...Comunque, una pellicola meravigliosa forse viziata soltanto da intermezzi (anti)narrativi a volte eccessivamente ripetitivi; un gran bel film che ha molto anche degli Idioti di Lars von Trier. 
VOTO: 8.50/10

mercoledì 17 aprile 2013

Una storia vera



Una storia vera di David Lynch - Genere: drammatico - USA, Canada 1999.

Quando si pensa a un film di David Lynch si hanno sempre in mente i dettagli perturbanti di Velluto blu o la difficile trama narrativa di Strade perdute; i più arditi potrebbero spingersi fino al drammatico The elephant man o all'avveniristico Dune. In ogni caso, A Straight story (Una storia vera o La storia di Straight, con la ripresa del cognome del protagonista), lascia spiazzati. Nessun riferimento agli stilemi tipici del regista, almeno direttamente. E' vero che buona parte di questi elementi possono essere ritrovati attraverso una lettura fra le righe, che operi negli interstizi estetici lasciati aperti da Lynch, ma si tratta di frammenti così embrionali che comunque destabilizzano gli affezionatissimi.

Proprio per questo Una storia vera è un film difficile da capire, anche se non per motivi di complessità narrativa o temporale. Tutt'altro, l'edificio diegetico del film è solido, scorre in maniera liscia come una strada di grande circolazione, senza intoppi. Ottima la fotografia, ottima la colonna sonora ma a prima vista ci troviamo di fronte a un semplice film commerciale. E' così? Ci sentiamo di escluderlo. 

La storia del vecchio Alvin che attraversa la campagna americana a cavallo del suo tagliaerba si trasfigura con l'andare del tempo e acquista sempre più un significato universale. Il viaggio del contadinotto ex-soldato della seconda guerra mondiale diventa un itinere dentro il cuore più vivo e ardente degli USA, dove i valori sono ancora incarnati da persone che hanno storie da raccontare. Questo è il film delle storie, che Alvin raccoglie dentro di sé, dando in cambio la propria. E' un film dalla costruzione corale che rifugge il primato narrativo di un unico personaggio e si fonda sull'assente presenza di un'entità (il fratello di Alvin) evocata ma raggiungibile solo alla fine della narrazione.

Il viaggio di Alvin e dei suoi compagni occasionali è un'ascesa verso una superiore consapevolezza di sé e del senso della propria esistenza, proprio nel momento in cui se ne adombra la fine. La famiglia, le radici sono tutti elementi che arrivano allo spettatore attraverso la narrazione di una vicenda. Alvin è il vecchio cantastorie, il trovatore della nostra contemporaneità che intesse racconti su un'America attuale (nel 1999), ma già così lontana. Significativo che questo film sia stato realizzato alla fine del XX secolo, poco prima della crisi assoluta di riferimenti che ha sconvolto l'America nel 2001: un tentativo di mettere al sicuro la storia dalla sua cancellazione autodistruttiva.
VOTO: 8/10

martedì 16 aprile 2013

Confessions



Confessions di Tetsuya Nakashima - Genere: drammatico - Giappone 2010.

Che l'istituzione scolastica sia uno dei grandi punti di ridiscussione - e spesso di decostruzione - della cultura orientale e giapponese in particolare è cosa nota. Competitività, rigore e simili sono tutti elementi che il cinema e la cultura popolare ha sempre saputo catturare egregiamente, basti ricordare lo splendido Battle Royale (fingendo che non abbia mai avuto un seguito, s'intende...). Il film di Nakashima si inscrive proprio in questo filone e ha molte idee interessanti alla base.

Anzitutto la composizione narrativa, che rifugge saggiamente dalla costruzione di un edifico stabile per comporre tramite successive sedimentazioni una vicenda corale e liricamente intima nel contempo. La drammatica storia della professoressa Moriguchi, vittima involontaria di un gioco adolescenziale che le ha sottratto la figlia, è la traduzione orientaleggiante del Tito Andronico shakespereano. Come il dramma inglese questo film mette in scena una tragedia di vendetta che a tratti raggiunge picchi di sadismo esistenzial-filosofico da far impallidire il povero Gigsaw. Polifonica è anche la costruzione dell'immagine che si fonda spesso su un rapido susseguirsi di frammenti incompleti che solo in un secondo tempo si ricombinano in maniera efficace. 

La composizione, gradevole, non è però esente da difetti. Ci sarebbe anzitutto da riflettere sull'uso smodato dello slow motion, che il regista utilizza con un'insistenza decisamente esagerata, come se il rallenty fosse l'unico mezzo estetico a disposizione del cinema. Ad aggravare la situazione contribuisce il fatto che questa scelta è quasi sempre gratuita, nel senso che l'artificio suddetto è utilizzato per sottolineare "esteticamente" (???) elementi insignificanti dell'immagine. Anche la colonna sonora sembra da rivedersi, troppo commercialmente ammiccante narrativamente accessoria.

In generale un buon film, che risulta piacevole anche a prescindere da un ritmo narrativo a volte eccessivamente dilatato. Certamente sarebbe potuto essere un prodotto molto più interessante se se ne fossero levigate le difficoltà principali, che ne abbassano la qualità complessiva, costruendo un prodotto che forse non riesce neanche a farsi ricordare più di altri. Peccato!
VOTO: 7/10

L'ipnotista

L'ipnotista di Lasse Hallstrom - Genere: thriller - Svezia, 2012.
Adattamento del romanzo omonimo di Lars Kepler, il film diretto dallo svedese Lasse Hallström, sembra voler ripercorrere le imprese dei romanzi di Stiegg Larsson, portati poi sul grande schermo e recentemente protagonisti di un remake americano con protagonista Daniel Craig. La cosa è confermata anche dalla voce di corridoio secondo cui tutti e otto gli episodi della saga romanzesca (di cui per ora sono stati pubblicati solo tre volumi), saranno trasposti cinematograficamente.
Il primo film di una saga, potenziale o effettiva, è sempre il suo biglietto da visita e duole un po’ notare come L’ipnotista non eccella da nessun punto di vista. A partire da un promettente incipit, in cui troviamo a mio avviso una delle migliori scene di accoltellamento degli ultimi anni, che cita con una certa coscienza la celebre sequenza di Psycho, tutto si appiattisce abbastanza in fretta e il prodotto finale non riesce a superare la soglia della mediocrità. Un cast tutto sommato valido vede le sue ali tarpate da una costruzione narrativa non sempre felice, in cui l’interazione dialogica appare talvolta prevedibile e scontata.
Anche la progressione narrativa non è esente da difetti: nonostante un inizio che, se non promettente risulta quantomeno interessante, il film sembra ripiegarsi presto su sé stesso arrivando a confezionare un prodotto che per molti aspetti ricorda più l’episodio di un telefilm prolungato per due ore piuttosto che un lungometraggio ben studiato. I personaggi, peraltro articolati nella loro declinazione psicologica, si muovono in ambienti tutto sommato piuttosto monotoni, che solo nel finale si aprono a un’impostazione esteticamente più piacevole.
Il grande errore di questa pellicola è quello di disseminare troppi elementi interessanti nella primissima parte, per poi smontarli distrattamente e con una rapidità disarmante, nel resto del tempo. Il caso di omicidio-rapimento che fa da sfondo alla vicenda è interessante ma mal sviluppato, piuttosto prevedibile sia nel suo decorso che nella sua risoluzione. Il lieto fine piuttosto noioso suggella un’opera che, sebbene avesse tutti i presupposti per essere interessante, si accartoccia su sé stessa abbastanza in fretta, lasciando allo spettatore un senso di delusione.
Per quanto non spiacevole, insomma, il film risulta abbastanza inconcludente e anche l’espediente narrativo dell’ipnosi regressiva, che avrebbe potuto essere usato come escamotage compositivo per portare il lavoro di Hallström ad un altro livello, finisce con l’occupare un posto marginale nell’economia di questo thriller svedese decisamente poco emozionante.
VOTO: 5/10
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domenica 14 aprile 2013

Alyce



Alyce di Jay Lee - Genere: drammatico/grottesco - Canada, 2011.

Quando un film ha buone potenzialità, o pensa di averne, e le spreca tutte inesorabilmente. Ecco un titolo alternativo da dare alla recensione del film di Lee, cineasta molto attivo in ambito televisivo e noto soprattutto per produzioni cinematografiche di ampio respiro (???) come Zombie strippers. In questo lavoro il regista mette in scena quello che apparentemente sembra essere un dramma di vendetta dai tratti allucinatori ma che alla fine si risolve in una serie di omicidi dipinti frettolosamente e senza un fine ben preciso.

La storia, peraltro potenzialmente interessante ancorché un po' scontata, sbaglia completamente il ritmo narrativo: nella prima ora abbondante si fa fatica a rimanere svegli, la struttura fatica a prendere corpo perché si alimenta di episodi assolutamente inutili che si vogliono disturbanti ma che risultano semplicemente fastidiosi. Verso la conclusione, drammatico cambio di rotta con un'accelerazione notevole e assolutamente esagerata del tempo narrativo: tutto si risolve in venti minuti scarsi e finisce con il risultare aneddotico lasciando in bocca un acre sapore di già visto. 

Per il resto, poco o nulla da segnalare. Salvo qualche momento abbastanza illuminato in cui si tentano strade più ardite, il film rimane mediocre sotto tutti i punti di vista e non offre allo spettatore il benché minimo elemento di interesse, neanche dal punto di vista narrativo. Una fortissima delusione per un film inconcludente, brutto e - soprattutto nel finale - parecchio stupido.
VOTO: 2/10 

domenica 7 aprile 2013

ATM: Trappola mortale


ATM: Trappola mortale di David Brooks - Genere: thriller - USA, 2012

Come prendere una buona idea di base rovinandola completamente nella realizzazione. Il film di David Brooks è un gigantesco pasticcio tipicamente americano, un thriller senza alcuna pretesa che non riesce neanche a raggiungere gli standard minimi accettabili da un qualsiasi film di genere. Chiariamoci: l'impostazione poteva portare discreti risultati. Tre individui chiusi in un bancomat con un misterioso malintenzionato non meglio identificato che - per ragioni altrettanto arcane - passa una bella nottata pre-natalizia rendendo il loro tempo un inferno.

Carino il principio e anche l'inserimento di alcune immagini (non troppo invasive) riprese a mo' di circuito di sorveglianza, che spezzano la monotonia di un dettato assai piatto e costituiscono una piacevole variazione sul tema, variazione che per sua fortuna si sa autolimitare e non diventa norma costitutiva del film. Al di là di quello, buio completo. Non c'è progressione narrativa né approfondimento psicologico dei personaggi. Tre tipi piuttosto piatti, a tratti perfino fastidiosi; a peggiorare il tutto il pessimo tentativo di virare sui toni del rosa accennando a una possibile liason amorosa fra due membri del trio, ovviamente irrealizzabile.

ATM non è certo un film che si lascia ricordare per meriti particolari, se si esclude il nome che avrebbe potuto far immaginare un thriller di serie Z ambientato nella metropolitana milanese. Forse il risultato sarebbe perfino stato migliore: il lavoro di Brooks è mediocre e rappresenta il perfetto esempio del prodotto cinematografico americano medio. Sconsigliato anche ad amanti del genere, se si considera che questa già non rosea situazione viene del tutto rovinata da un finale molto molto banale.
VOTO: 3/10

A serbian film


A serbian film di Sdran Spasojevic - Genere: thriller/horror - Serbia, 2010.

"Controverso" è l'aggettivo che più spesso ho visto utilizzare per questo film nei giudizi critici che facilmente si possono trovare online. Aggettivo adeguato, ma non completamente rispondente a quel delirio grottesco e sanguinolento che il film, opera prima del serbo Spasojevic, è. Si potrebbe dibattere a lungo sullo statuto di questo lavoro che potrebbe essere letto come allegoria della società e dell'impianto familiare serbo, come riflessione sulla radice dell'immagine, come mera esibizione di una violenza che in definitiva è fine a sé stessa etc.

Fondamentalmente, comunque, si tratta di un film assolutamente e volutamente perturbante che, con una efficace strutturazione interna dei ritmi narrativi, mette da parte un'ouverture decisamente lenta e a tratti noiosa per riservarsi di esplodere nella seconda parte. E così, mentre i primi trenta minuti scorrono nella più totale sonnolenza, siamo d'un tratto investiti di una violenza che, mai completamente annunciata nella sua vera portata, risulta ancora più sconvolgente. Attraverso un suo sapiente del montaggio e una scelta spesso accurata degli angoli di ripresa, lo spettatore è fatto - suo malgrado - precipitare nel delirio di Milos, il protagonista, che ripercorre a posteriori una serata all'insegna di una sfrenata truculenza sessuale. 

Spesso chi è abituato a trovarsi di fronte questo genere di pellicole tende a minimizzarne il portato traumatizzante, ma nel caso di A serbian movie questo è - credo - assolutamente impossibile. Il regista spinge così in profondità il suo delirio che le scene in esame rimangono piantate nel cervello in maniera prepotente e dolorosa. E' un film veramente al limite della guardabilità, che gioca con sé stesso e con le costruzioni censorie cui siamo stati abituati. Definirlo sopra le righe sarebbe un eufemismo del tutto inadeguato e cancellerebbe gran parte della sua carica anarchicamente distruttiva.

Onestamente si tratta di un film che, al di là di tutto, è ben fatto e certamente si fa ricordare. Ciònonostante presenta alcune difficoltà costruttive, come ad esempio un uso non sempre intelligente della componente sonora e qualche cliché narrativo di troppo, soprattutto nella prima parte e nella costruzione del personaggio di Vukmir che, qualora fosse stato lasciato maggiormente nell'ombra e consegnato ad un'indistinzione più intelligente, sarebbe potuto essere il grande elemento che avrebbe permesso al film di Sasojevic di fare il salto di qualità che ancora manca.
VOTO: 6.50/10

mercoledì 3 aprile 2013

The bunny game


The bunny game di Adam Rehmeier - Genere: sperimentale/snuff - USA, 2010

Trovare questo film è stata una vera sfida, non solo non ne ho individuata una versione italiana ma anche quella inglese non ha sottotitoli. Inserito nella classifica dei 50 film più disturbanti della storia del cinema e bandito dal Regno Unito, oltre che fortemente osteggiato in patria, The bunny game evoca dal titolo un regno surreale a metà fra il giocoso e l'orrorifico e ricorda molto il mondo di Alice in wonderland. Mai impressione fu più sbagliata.

Il film di Rehmeier è uno dei prodotti più allucinati e allucinanti che abbia mai visto. Una trama ridotta al minimo, che ripropone in chiave sperimentale quanto si è già visto in titoli come il dozzinale The tortured e pone a sistema quanto solo accennato dai due penosi Vacancy. The bunny game è un film americano ma ha l'aria di non esserlo: prende la storia di una prostituta, infarcita di violenza e disagi sessuali di ogni tipo, e la trasforma in uno sguardo estetico auto-compiaciuto di altissimo livello. Ciò che spiazza in questo lavoro così particolare è proprio la stridente contrapposizione fra una non-narrazione che fa orrore e una realizzazione tecnica a tratti geniale.

Tutto è in effetti perfettamente studiato: la scelta del bianco e nero è azzeccata per un film senza mezzi toni, violento e diretto. Il montaggio è usato splendidamente dal regista per associare catene di immagini perturbanti che si inanellano l'una dietro l'altra seguendo i deliri mentali della prostituta protagonista e del suo malato aguzzino. La musica è martellante e concorre alla composizione di un quadro che fa della frammentazione il mezzo generativo di un racconto ai limiti della malattia.

Mi viene in mente la bella recensione di Mellino sul film Django unchained di Tarantino, dove si ventila la possibilità che alcune storie non siano meritevoli di essere narrate, che debbano essere necessariamente dimenticate perché troppo violente, troppo pericolose. E' forse il caso di The bunny game? Non so rispondere; è certo che il livello di disagio raggiunto rende problematica la valutazione complessiva del lavoro. Interessante, molto interessante dal punto di vista tecnico il lavoro di Rehmeier è così lanciato su di un binario autoreferenzialmente distruttivo da risultare perfino difficilmente accostabile a dei precedenti.Visione estatica della sofferenza che si lascia contemplare da lontano. 
VOTO: 7.5/10

martedì 2 aprile 2013

Noi siamo infinito


Noi siamo infinito di Stephen Chbonsky - Genere: drammatico - USA, 2012

All'uscita di questo film, quando sia il pubblico che i maggiori siti di critica sono stati unanimamente concordi nel riconoscere i meriti del lavoro di Chbonsky devo dire che sono rimasto piuttosto perplesso aspettandomi di trovarmi di fronte all'ennesimo teen-drama americano o a una melensa drama-commedia di sapore spintaneamente europeo. Non solo non è stato così, ma nel complesso Noi siamo infinito è un film piuttosto apprezzabile e anche abbastanza interessante da un punto di vista cinematografico.

Narrativamente la storia non è una perla di originalità nel senso che pur con le dovute contingenze recupera un canovaccio tutto sommato piuttosto inflazionato, che prevede ad esempio l'inserimento di un ribaltamento di situazione che si situa prevedibilmente all'incirca dopo la metà del film. La capacità del regista, abile nel dirigere un trio di attori nel complesso decisamente convincente è stata quella di inserire in una storia fin troppo vista dei piccoli elementi di rottura, delle spie che segnalano da una parte la volontà di non adeguarsi a uno stereotipo ormai vecchio e dall'altra un velato senso di autoironico distacco dal proprio lavoro. 

I meriti maggiori del film cinematograficamente parlando risiedono in un approccio molto intelligente alla struttura dell'immagine e al rapporto fra immagine e suono. Diventato fattore compositivo, l'accompagnamento musicale si libera dal rischio di essere un semplice catalizzatore di emozioni e accompagna lo spettatore nell'apprezzamento di sequenze molto ben studiate, soprattutto per quanto riguarda le transizioni di montaggio. 

Il film è quindi piacevole anche se non eccelso e un po'prevedibile in alcuni snodi narrativi. Da segnalarsi anche la performance di Ezra Miller, leggermente sottotono rispetto a quanto fatto nello splendido E ora parliamo di Kevin ma comunque a suo agio nei panni del simpatico - anche se un po' stereotipato - Patrick. 
VOTO: 7/10

Funny games (1997)


Funny games di Michael Haneke - Genere: thriller - Germania, Francia 1997

See it if you dare è la frase che compare su molte delle locandine di questo vecchio film thriller austro-germanico presentato in concorso al festival di Cannes 97. Mai frase fu più indovinata perché il lavoro di Haneke è fastidioso, duro, difficile da digerire e proprio in questo sta la sua forza. Tralasciando gli esiti infelici del remake (ovviamente americano) fatto in tempi più recenti, il film è assolutamente meritevole sotto tutti i punti di vista.

La diegesi è ridotta all'osso e, in questo caso, non è assolutamente un male. Un'impostazione molto semplice (ma non per questo grossolana) permette di potersi concentrare di più su altri aspetti della realizzazione, evitando anche che lo spettatore venga sballottato da una parte all'altra dal peregrinare narrativo. Questo permette al regista di inserire all'interno di questa trama a maglie larghe dei veri e propri lampi di genio, come le plurime interpellazioni che uno dei due malintenzionati ragazzi fa allo spettatore. L'azione si ferma, il volto dell'attore si gira verso di noi e ci parla direttamente: saltano tutte le regole del cinema classico e si riprende l'eredità della nouvelle vague francese (celebri le interpellazioni di Jean-Paul Belmondo nei film di Godard). Questo strumento linguistico peraltro crea una sovrapposizione percettiva ed etica con il regista. La decisione di inserirlo in un film come questo è quindi doppiamente intelligente.

Se infatti ci si domandasse che cosa c'è di così perturbante nel film di Haneke dovremmo ammettere che è la complicità del nostro sguardo, l'essere chiamati (direttamente dai personaggi!) a partecipare a un gioco di cui siamo, volenti o nolenti, pedine protagoniste. Tutto ciò che si vede è fatto per noi, il divertimento cui accennano i due effrattori è il nostro, quello degli spettatori che divorano immagini senza attenzione, mettendo in atto quella percezione disattenta che già Benjamin predicava nei suoi scritti. Nello stesso modo va letta anche la sequenza in cui Tom modifica a posteriori il corso degli eventi, mandando indietro le immagini come se il film che stiamo guardando non fosse altro che una videocassetta da salotto. Le immagini sono manipolabili non solo dall'esterno ma anche dall'interno e si rivelano per ciò che sono in realtà, un prodotto concreato dal lavoro sinergico di diegesi, regia e spettatore. 

Un film decisamente riuscito che forse non è riuscito ad emergere nell'opinione del grande pubblico come un prodotto intelligente che non si chiude sul mero stereotipo di genere. Un peccato, considerati anche i tentativi di sperimentazione sul rapporto immagine/musica, presenti soprattutto nella prima parte del film. 
VOTO: 8.5/10