mercoledì 11 gennaio 2012

Le quattro volte - Recensione

Le quattro volte di Michelangelo Frammartino – Genere: documentario (?) – Italia, Germania, Svizzera 2010
Un paese della campagna calabrese arroccato su una collina che si erge attorno a dei campi. Un vecchio pastore passa le sue giornate portando le pecore al pascolo e recuperando la sua medicina in una vecchia chiesa. Una capretta nasce e muove i suoi primi passi. Un vecchio albero viene abbattuto e trasformato in un albero della cuccagna. Viene preparato il carbone per l’inverno.
Sono sufficienti poche frasi concise a descrivere l’impianto strutturale de Le quattro volte. Finalmente un film che ci fa sperare nelle buone possibilità di un certo cinema italiano. Michelangelo Frammartino dipinge, attraverso un sapiente uso dei mezzi tecnici della cinematografia, quattro rappresentazioni della vita e del tempo. In un paese che vediamo, ma che non sentiamo (essendo quest’ultimo completamente “asettico” nel senso che non intesse relazioni con la narrazione principale) si muove un brulichio di entità diverse (appunto umane, animali, vegetali e minerali). Cercherò di concentrarmi di seguito sul contenuto del film e sull’interpretazione, quindi specifico subito che mi sembra tecnicamente un film riuscitissimo.
In primis, quindi, il vecchio pastore. Il volto segnato da una vita rurale (probabilmente) e le mani scavate, su cui si adagia una pelle anziana e molliccia, lo fanno assomigliare a uno dei Mangiatori di patate di Picasso. E dei personaggi picassiani l’anonimo pastore ha tutti i tratti drammatici. Attaccato alle sue bestie (alle capre sì, ma anche al fedele cane), il pastore vive segnato da una sconosciuta ma presumibilmente avanzata malattia. Sua speranza di sopravvivenza è la bizzarra medicina che gli viene preparata in una chiesa e che ogni giorno, prima di coricarsi, deve prendere. Su questo sistema di giornate ripetitive si innesta la forza demolitrice del Caso, che segnerà profondamente il destino di questo personaggio frammartiniano.
Una delle capre del nostro malato pastore è incinta, e partorisce un piccolo candido e bianco. Espulso dall’utero materno e gettato di violenza nel mondo, il piccolo animale esplora cianciante la realtà che lo circonda e noi, attraverso i suoi occhi insicuri, vediamo la natura ad un’altezza che non avevamo mai potuto apprezzare. Di nuovo, sarà il caso a determinare il suo destino, questa volta nelle fattezze di un solco nel terreno.
Un grande albero (un abete?), probabilmente vecchio almeno quanto il pastore, si staglia sopra la macchia che domina l’entroterra; lo fa con un’insistenza titanica propria della sua natura, a dispetto del passaggio delle stagioni e degli anni che ha “sulle spalle”. Tagliato dall’uomo, o meglio da un intero agglomerato umano, sarà pulito e sistemato per diventare centro della vita di paese, albero della cuccagna che, una volta abbattuto, dovrà completare il proprio ciclo, divenendo carbone (e questo ci porta direttamente alla quarta macro-sequenza narrativa).
Un film che si potrebbe definire, declinare e analizzare in vari modi. Resta il fatto che si tratta di una interessante e riuscita analisi, per certi versi “teatrale”, di quattro vite molto diverse ma molto reali (e, implicitamente, interconnesse). Resta da chiarire il “genere” (ma è una questione di secondaria importanza): Le quattro volte ha la forma del documentario, forse, ma ha la struttura narrativa di un film. La cura autoriale e tecnica però sono quelle di un film (drammatico?). Il documentario spiega, mentre il film evoca o tutt’al più racconta. Un ibrido quindi, tendente molto di più al film rispetto che al documentario, almeno secondo me.
VOTO: 8.50/10
Curiosità: Le quattro volte è stato il film italiano più premiato del 2010. Perfino il cane del vecchio pastore ha vinto un premio: è stato insignito del premio per la migliore interpretazione canica al festival di Cannes di quell’anno.

Nessun commento:

Posta un commento