giovedì 26 gennaio 2012

Insidious - Recensione


Insidious di James Wan - Genere: thriller/horror - USA, 2011.

I coniugi Renai e Josh Lambert si sono da poco trasferiti, con i tre figli, in una nuova casa situata in periferia. La loro vita trascorre tranquilla, finché una sera il loro figlio maggiore Dalton cade da una scala mentre sta esplorando la soffitta. All'apparenza non si é fatto nulla; ma il giorno dopo Dalton non si sveglia e diventa completamente insensibile a tutti gli stimoli. Da quel giorno inizieranno a verificarsi strani fenomeni in tutta la casa.

Dai produttori di Saw e di Paranormal activities (si da' nota - per inciso - che nel film è presente un riferimento a un possibile ottavo episodio della serie dell'Enigmista), un film che non convince sotto molti (troppi) punti di vista. La trama di per sé è piuttosto scontata e prende a prestito stilemi e topoi narrativi da altre pellicole; personalmente collocherei insidious al crocevia fra Paranormal activities, L'esorcista e Nightmare tutti film (a parte il primo...) più che degni, si potrebbe dire. Il film in questione però, fondendo insieme questi elementi narrativi, li banalizza e crea un cocktail che sa di già visto e - soprattutto - di insipido. Salvando solo qualche momento spaventevole, realizzato giocando sul registro delle apparizioni a sorpresa (un po' vecchiotto, ormai) il film non offre spunti adrenalinici e - a tratti - finisce col risultare piuttosto noioso.

Il montaggio è regolare: fabula e intreccio si accompagnano beatamente per tutta la pellicola, non c'è alcuna ricerca di elaborazione del dettato registico e anche la fotografia non brilla certo per qualità o originalità delle pose. C'è una netta prevalenza del rosso, che risalta visibilmente su uno sfondo a colori volutamente tenui, probabilemente in omaggio a Dario Argento (come si può facilmente constatare). Tecnicamente il film è mediocre quindi e non fanno eccezione neanche le performance degli attori principali, che risultano veramente impostate (i dialoghi sono - a tratti - molto banali). Una menzione alla colonna sonora, che risolleva leggermente le sorti di questo film che, personalmente, non mi sento di consigliare se non agli appassionatissimi del genere.

VOTO: 4/10

Il film in una frase:
Non è la casa ad essere infestata

martedì 24 gennaio 2012

Last days - Recensione


Last days di Gus Van Sant - Genere: drammatico - USA, 2005

Blake alter ego di Kurt Cobain, negli ultimi giorni della sua vita. La cronaca lirica e monotona della sua solitudine esistenziale interrotta da un venditore di Pagine Gialle che gli pone quesiti inserzionistici, da un detective che rivela storie e aneddoti dimenticando il soggetto investigato e dalla madre di Blake che lo supplica di andare via con lei. Intorno alla casa, che lo contiene insieme alla sua musica, respira la natura, scorre l'acqua in cui Blake monda i peccati e fa scivolare il dolore. Circondato da giovani coinquilini indifferenti, Blake compone il suo requiem e si congeda dal suo corpo.

Gus Van Sant, nell'ormai lontano (parlando nei tempi del cinema) 2005, confeziona questo efficace video-ricordo del mito della musica Kurt Cobain. Punto terminale della parabola iniziata da Gerry e continuata con Elephant, Last days rappresenta l'epilogo di una virtuale "triologia della morte", in cui il momento culminante della pellicola coincide con quello dell'abbandono del corpo (o dei corpi). Il film è stato pesantemente criticato per l'assenza di una trama vera e propria; obiezione legittima, si potrebbe dire ma vorrei ricordare che qui - come altrove in Van Sant- la trama non si basa sulla narrazione di fatti, quanto più sulla pura esplorazione dei tipi umani coinvotli (cfr. Elephant). L'occhio attento di un regista che ha un elevatissima coscienza di sé, percorre in maniera disincantata e tagliente le vicende della varia umanità che si muove brulicando sotto i suoi occhi. E' in questo contesto che deve essere letta l'apparente mancanza di impianto narrativo del film in questione, che comunque è strettamente connesso alla vicenda del protagonista.

Van Sant realizza qui un procedimento ardito. Il film non può essere caratterizzato né come una biografia, né come una riproposizione fedele degli ultimi giorni di Cobain. Quello che il regista fa (dantescamente parlando) è rendere i suoi personaggi "figure" dei loro corrispettivi reali. Michael Pitt non è Kurt Cobain; è Blake (il quale, però, è figura in senso auerbachiano di Cobain stesso). Si realizza così un complesso gioco a tre fasi in cui l'attore, nella sua azione performativa, interpreta una figura la quale a sua volta interpreta un referente; potremmo quindi parlare di "recitazione a due livelli".

Dal punto di vista tecnico-registico il lavoro svolto da Gus è - come al solito - ottimo e si caratterizza, in questa specifica realizzazione, per un abbondante uso del pianosequenza e per dei ritmi meno rapidi è più pacati rispetto a quanto accaduto in lavori precedenti. Anche qui come in Elephant Van Sant gioca con la frammentazione della storia e si diverte a mostrarci gli eventi da diversi punti di vista, provocando un piacevole effetto straniante. La colonna sonora, ottima, è composta da tracce tutte molto adatte alla vicenda che si innestano bene al tessuto della narrazione. Buona la performance di Micahel Pitt, credibilissimo in un ruolo non facile (il personaggio di Blake, peraltro, riprende molto la figura del gringo di Mala Noche), mentre sorvolerei sulla prestazione incolore della Argento.

VOTO: 7.50/10

giovedì 19 gennaio 2012

Hans - Recensione



Hans
di Louis Nero - Genere: thriller - Italia, 2005.

Hans Schabe è un giovane dirigente in una società di smaltimento dei rifiuti. Il suo passato, segnato da una madre violenta e poco amorevole, tornerà a farsi sentire con violenza quando la sua follia comincerà a consumarlo, facendogli credere di essere condannato a ingurgitare tutta l'immondizia prodotta dall'uomo.

Interessante produzione italiana che conta, fra gli altri, la partecipazione illustre di Franco Nero (idimenticabile in Querelle de Brest di Fassbinder), Hans è un'opera criptica, di difficile lettura ma per molti aspetti interessante ed originale. La storia segue la discesa nell'abisso della follia di Schabe, dalla sua infanzia in giù. La pellicola è densa di interessanti riferimenti e sicuramente dal punto di vista contenutistico-concettuale è una produzione validissima. Numerosi sono i riferimenti espliciti ai padri della psicanalisi Freud e Jung e non a caso questa disciplina svolge un ruolo preminente nel film: non come mera strizzatura di un cervello bacato. Tutto il film può essere letto in chiave psicanalitica sotto il comun denominatore del sogno. In Hans i deliri onirici di Schabe sono indistinguibili dalla realtà e ne costituitscono, anzi, una parte integrante.

Le parti oniriche del lavoro di Nero sono anche le più interessanti dal punto di vista della realizzazione tecnica: in esse si fondono efficacemente scelte musicali appropriate (la colonna sonora è il fondamentale meglio riuscito del film), alcune pose fotografiche molto riuscite e delle soluzioni di montaggio e ripresa di tutto rispetto. Nella media però il lavoro mi sembra minato da alcuni difetti che ne pregiudicano il potenziale, prima fra tutti una capacità recitativa non sempre all'altezza del compito, soprattutto nella prima parte. In particolare ci sono situazioni in cui la ricerca estetica di Nero si spinge, io credo, troppo oltre andando ad assumere una staticità fossilizzante, che non permette al film di muoversi fluidamente. Ne risultano sezioni molto interessanti, contrapposte però ad ampi quadri narrativi che si immobilizzano in un autocompiacimento estetico che risulta a tratti pesante ed eccessivamente lento.

Hans in definitiva mi sembra un bel film, che io consiglio soprattutto per l'originalità di alcune trovate. I problemi che ho velocemente tratteggiato però mi hanno fatto rendere conto che ci si poteva spingere ben oltre, dato che i presupposti c'erano ed erano buoni. In ogni caso, come tengo sempre a dire quando vedo una produzione italiana del genere, decisamente meglio del 75-80% del cinema nazionale attuale.

VOTO: 6/10

mercoledì 18 gennaio 2012

9: Nine - Recensione

9 (Nine) di Tim Burton - Genere: animazione - USA, 2009.

In un mondo distrutto dalla guerra fra gli umani e le macchine, un piccolo organismo robotico dotato di identità personale, 9, scopre di non essere il solo della sua specie. Purtroppo, sveglierà qualcosa più grande di lui e di tutti i suoi simili: Il Cervello.

Il genio polimorfo di Tim Burton, già regista del capolavoro Nightmare before Christmars e dei due efficacissimi Batman e Batman-Returns (oltre a tutta un'altra serie di titoli ben riusciti), ci regalava, ormai tre anni fa, un altro piccolo capolavoro della computer grafica. Burton fa convergere, in poco più di un'ora di film (misura canonica per i film d'animazione dalla Disney in poi), tutte le ansie e le suggestioni che hanno animato i suoi capolavori.
Il conflitto uomo macchina, costante sia del primo cinema di fantascienza sia di un filone letterario che si può far risalire al Frankenstein di Mary Shelley, fa da sfondo a un pianeta Terra del tutto cancellato, ridotto a un cumulo di macerie dalla cieca volontà progressista dell'uomo. La pellicola di Burton è una denuncia per l'uomo di oggi, un monito per ricordare a noi e ai nostri figli che la Terra non è nostra e che le nostre facoltà conoscitive hanno dei limiti.

I personaggi che fanno da protagonisti alle vicende, versione rinnovata dei classici homunculi alchemici, sono la riproposizione esatta di una piccola società che, dopo un periodo di crisi, cerca di recuperare la propria identità perduta all'interno di un mondo in rovina. I piccoli "androidi" ricalcano perfettamente una serie di tipi umani ancora oggi attuali e manifestano una volontà chiaramente semplificatoria e probabilmente pedagogica: attraverso questi tipi (non personaggi!), il regista sembra volerci insegnare che la ricostruzione della società, durante e dopo i periodi di "stato di natura", segue le medesime dinamiche. Nella fattispecie, soprattutto, ci si affida incondizionatamente alla figura di un capo carismatico (in questo capo, 1, il quale porta in maniera emblematica i simboli del potere religioso ed è non a caso refrattario rispetto al potere dello sviluppo tecnologico) che possa guidarci fuori dalla crisi. E' vero che non si tratta di invidividui sviluppati a tutto tondo (d'altronde è difficile farlo in un film d'animazione) ma sono tratteggiati con sufficiente precisione da far percepire allo spettatore che c'è un po' di ognuno di loro in ciascuno di noi.

Il film scorre piacevolemente, non risulta mai estremamente macchinoso e si muove con una certa agilità all'interno di un universo che è tratteggiato ma non approfondito al punto da destatre troppe domande nello spettatore medio. Le motivazioni della guerra uomo-macchina sono specificate in un apposito excursus che ricalca fedelmente le modalità di inserimento e di narrazione di questa scena (che ritorna in tutti i film che trattano questa materia; si veda p.e. The matrix), la quale costituisce la chiave di volta dell'intento pedagogico del film.

Tim Burton insomma ha confezionato un prodotto di tutto rispetto, che riprende in maniera forse un po' pedissequa dei topoi già un po' inflazionati. Ciònonostante, il suo stile inconfondibile, a metà fra lo steampunk e il gotico, rende tutto più interessante e caratteristico e questo aumenta l'attrattiva di una pellicola che gioca amabilmente fra l'intrattenimento e gli avvertimenti sui pericoli di un'esasperazione della volontà progressistica dell'uomo.

VOTO: 7/10
Il film in una frase:
"Hai risvegliato qualcosa di terribile!".

martedì 17 gennaio 2012

Paranoid Park - Recensione

Paranoid Park di Gus Van Sant - Genere: drammatico - Francia, Stati Uniti, 2007.

Alex è un sedicenne che vive a Portland negli USA. La sua passione è lo skateboard e tutta la cultura che ci sta attorno. Con l'amico Jared comincia a frequentare il Paranoid Park, un posto conosciuto da tutti gli skater della città. Lì conosce altri skater che, una sera, gli propongono nuove emozioni forti: saltare sui treni merci in transito nella vicina stazione.

Quattro anni dopo il suo capolavoro (Elephant - 2003), Gus Van Sant riprende in mano un tema che evidentemente gli è molto caro e in questo lavoro fa esplodere (di nuovo, anche se in misura ridotta) tutti gli escamotages estetici e registici che hanno decretato il successo dell'opera realizzata nel 2003. La narrazione muove da un episodio che coinvolge direttamente il protagonista e che - come al solito - voglio evitare di rivelare. A partire da questo evento traumatico si dipana la narrazione che si frammenta in un pulviscolo di percezioni e avvenimenti dove la fabula viene sovvertita, a costruire un intreccio a piani comunicati (o, in questo caso più propriamente, a scatole cinesi) che contribuiscono a un progressivo e mai banale svelamento del fulcro narratologico della vicenda. Come al solito in Van Sant, quindi, il montaggio è essenzialmente narrativo e costituisce il motore principale attraverso cui veniamo a conoscenza delle pieghe della storia, che viene costruita dai personaggi attraverso una progressione di elementi incasellati.

La fotografia è di buona qualità e tende continuamente alla ricerca dell'artisticità: da segnalare soprattutto le ampie vedute d'esterno e gli intermezzi più "intimistici" girati probabilmente con una telecamera amatoriale, che contribuiscono a dare un'area più "underground" al melange complessivo. Van Sant ha il pregio di aver scelto un terreno d'indagine estetica molto interessante e al tempo stesso connotato, riprendendo bene e in maniera mai banale la sottocultura urbana degli skaters americani, senza incappare nei soliti stereotipi triti e ritriti.
Mi sembra necessario segnalare la splendida colonna sonora, che conta su più di una traccia di grande impatto e di adeguata collocazione all'interno della narrazione. Buone le interpretazioni del cast, in particolare del protagonista.

VOTO: 8/10

lunedì 16 gennaio 2012

Dune - Recensione


Dune di David Lynch - Genere: fantascienza - USA, 1984

Nell'anno 10191 l'umanità è diffusa tra le stelle e l'universo conosciuto è retto dal Landsdraad, un sistema di tipo feudale in cui le grandi casate, che possiedono interi pianeti, sono in perenne lotta per il potere. Gli Harkonnen hanno abbandonato il pianeta, che avevano spietatamente sfruttato per estrarre la preziosa Spezia, sostituiti dagli Atreides, loro avversari, per ordine imperiale. La trappola è tesa e la strage sarà inevitabile. Arrakis, pianeta desertico e inospitale, è popolato da un misterioso popolo, i Freme, in grado di cavalcare i giganteschi vermi delle sabbie . I Fremen, che chiamano il loro pianeta Dune, hanno atteso a lungo la venuta di un Messia, il Mahdi, che li guidi, dopo secoli di persecuzioni, in una sanguinosa jihad alla conquista del pianeta. Chi controlla la Spezia, controlla l'universo.

Dall'omonimo romanzo di F. Herbert parliamo oggi di uno dei capolavori della fantascienza degli anni '80 e non solo, capace ancora di appassionare una fitta serie di fans in tutto il mondo. L'abile mano registica di Lynch, che si percepisce in alcune sequenze e soprattutto in alcuni stilemi estetici che conferiscono al film un'apparenza molto steampunk (come la frequente presenza di vapori e sostanze evanescenti, riprese nella londra de The elephant man). Devo ammettere subito che non ho letto il romanzo quindi mi è impossibile definire l'esito del lavoro di riadattamente, che presumo buono non volendo mettere in dubbio l'abilità di Lynch. Mi limiterò quindi a un giudizio puramente relativo al film.

La vinceda narrata è lunga e articolata, non particolarmente originale ma comunque convincente inserita nel contesto sci-fi che abbiamo qui di fronte. In realtà, salvo l'ambientazione, potremmo dire che Dune ricalca in pieno l'andamento di alcuni fra i più moderni conflitti, se seguissimo l'equazione "petrolio = spezia". L'attualità simbolica della narrazione conferisce alla pellicola un aspetto più contemporaneo e le consente di sorpavvivere e di destare interesse anche dopo trent'anni di vita alle spalle.

Tecnicamente il film non si fa decisamente ricordare, però. Eccezion fatta per la colonna sonora, di cui voglio attenzionare il bellissimo main theme, la fotografia è piuttosto scarsa e gli effetti speciali sono piuttosto carenti, considerando che eravamo già nel 1984 e la storia della fantascienza e del cinema tutto era già stata segnata dai primi episodi di Star Wars ad opera di Lucas, che offrono - a mio avviso - degli special effects più convincenti. I personaggi, comunque, sono ben caratterizzati e assolvono bene alla loro funzione, all'interno di uno schema narrativo piuttosto semplice che riesce però a dipanarsi lungo più di due ore di narrazione, con elevata accentuazione della funzione bardica del testo.

Un film da vedere, anche solo per il suo valore storico. Conserva ancora qualche elemento di grande godibilità, ma mi sembra che Dune abbia fatto un po' la sua epoca. Ciònonostante non mi dispiacerebbe vederlo trasmesso un po' più spesso in televisione: è comunque migliore di molte porcate che ci vengono propinate dal cinema attuale.

VOTO: 6.50/10
Il film in una frase:
Il dormiente deve svegliarsi

domenica 15 gennaio 2012

Melancholia - Recensione




Melancholia di Lars Von Trier - Genere: drammatico - Danimarca, Francia 2011.

Justine arriva con il neomarito alla festa delle nozze che il cognato e la sorella Claire le hanno organizzato con un ritmato protocollo. Justine sorride molto ma dentro di sé prova un disagio profondo che la spingerà ad allontanarsi in più occasioni dai festeggiamenti provocando lo sconcerto di molti, marito compreso. Non si tratta però solo di un malessere esistenziale privato. Una grave minaccia incombe sulla Terra: il pianeta Melancholia si sta avvicinando e, benché il mondo scientifico inviti all'ottimismo, il rischio di collisione e di distruzione totale del globo terrestre è più che mai realistico. Tempo dopo, con Melancholia sempre più vicino, sarà Claire a invitare a casa sua la sorella.

Avevamo lasciato Von Trier dopo il discusso (almeno da me) film Antichrist, gigantesco e criptico labirinto mentale in cui uno spettatore medio non poteva che perdersi. Due anni dopo lo ritroviamo qui, dopo la querelle che lo ha visto protagonista al Festival di Cannes, di nuovo con la Gainsbourg a ricoprire un ruolo di primo piano. Sicuramente un film più fruibile anche per uno spettatore medio che, comunque, non dev'essere disattento (stiamo parlando di Von Trier... anche la linearità più semplice nasconde sfaccettature e interpretazioni impreviste).

In questo film ho trovato molto di quel Luis Bunuel di cui ho amato particolarmente due pellicole, tutte e due rivolte a pugnalare al cuore la classe dominante: la borghesia. Sia ne "L'angelo sterminatore" che ne "Il discreto fascino della borghesia", il regista padre del surrealismo dipinge con gelida freddezza, ma con non poco sarcasmo tutte le ipocrisie della sua società. Lars riprende il portato di queste grandi opere, che ho apprezzato molto per la coniugazione del gusto surrealista a tematiche di più stringente critica sociale, e le trasporta nel nostro mondo contemporaneo. Von Trier critica senza remore i portati fondanti della nostra realtà, a partire dal matrimonio che rappresenta ancora l'istituto fondante della famiglia, almeno in linea di principio.

Attraverso le crisi di Justine e il comportamento crudo ma realista di sua madre il regista dipinge la crisi della borghesia occidentale attraverso il crollo delle certezze. Mentre il pianeta Melancholia si avvicina inesorabile, il mondo cade lentamente a pezzi, senza bisogno di nessuna apocalisse da decine di milioni di dollari. Fino all'ultimo la crisi dipinta dal regista in questa sua ultima fatica è silenziosa e intima, ma non per questo meno destabilizzante. L'implosione dell'umanità avviene attraverso l'esplosione dei suoi difetti e delle sue ipocrisie. L'umanità sull'orlo della crisi di nervi (o del fallimento ontologico) è l'umanità del futuro, la visione che Von Trier probabilmente ha di noi.

E' un' umanità insicura e spaventata, incapace di muoversi e di compiere i più elementari passi all'interno del mondo senza rischiare di cadere, non in grado di impegnarsi in alcun tipo di legame senza sentirsi costretta (Justine). E' l'umanità della scienza che vive di assoluti e di certezze inoppugnabili, che giorno dopo giorno si vedono disintegrate dalle crisi multiple che ci stanno colpendo senza remore (il marito di Claire). E' l'umanità spaventata dal domani, che non è più in grado di vedere un futuro per sé stessa (Claire). L'elenco potrebbe continuare: Lars compone un quadro della crisi umana complesso e variegato, unendovi una brillantissima tecnica cinematografica.

A conclusione di questa recensione voglio consigliare a tutti la visione di questo film, che ho ritenuto splendido. Penso che al suo interno ci sia ancora molto da scoprire; probabilmente ci vorranno visioni plurime per riuscire a scavare nel portato complessivo di una pellicola che si vuole ampia e complessa. Voglio soltanto ricordare, alla fine di un resoconto che non si è speso molto sulla tecnica - comunque ottima - la splendida colonna sonora (in particolare il main theme) e le bellissime interpretazioni delle due protagoniste femminili Dunst e Gainsbourg (quest'ultima visibilmente arricchita dall'espserienza di Antichrist, pellicola che - mi sembra - dialoghi molto con quest'utlima).

VOTO: 9.50/10

venerdì 13 gennaio 2012

Ovosodo - Recensione




Ovosodo di Paolo Virzì - Genere: commedia/drammatico - Italia, 1997


Cresciuto in un quartiere popolare di Livorno, detto Ovosodo, Piero arriva faticosamente al liceo classico, diventa amico del ricco e irrequieto Tommaso, sbanda per una cugina dell'amico, è bocciato alla maturità e, dopo il servizio militare, trova lavoro nella fabbrica del padre di Tommaso finché gli tocca in premio la coinquilina Susy. E si trova sistemato: marito, padre e operaio.


Cinema italiano che ha già qualche anno, ma che risulta ancora valido, attuale, divertente e fonte di interessanti riflessioni, l'opera di Virzì si inserisce bene in un filone pseudo-sperimentale che ha il merito di aver riprotato in auge il ruolo della vecchia commedia all'italiana. Come i film di Dino Risi o di Paolo Villaggio, il lavoro di Virzì ha il merito di saper coniguare efficacemente un umorismo non idiota con delle vene anche drammatiche, facoltà questa che sembra aver abbandonato il nostro cinema, in balia di titoli come "Box office" e i vari cinepanettoni.


Come un piccolo romanzo di formazione, "Ovosodo" allunga i suoi tentacoli lungo la vita di Piero, dal quartiere omonimo di Livorno, fino alla sua assunzione in fabbrica. "Ovosodo" è la rappresentazione dell'Italia della crisi, che negli anni Settanta assume le fattezze dei problemi energetici del '73, delle stragi terroristiche, della marcia dei Quarantamila.Come un Forrest Gump del belpaese, Piero si trova a vivere uno snodo fondante della nostra storia, attraverso non i grandi eventi storici ma i piccoli grandi eventi della vita quotidiana. "Ovosodo" non è un film che si ricorda per indubbie qualità tecniche, ma conta su un buon cast di riferimento e personaggi ben strutturati, che contribuiscono a dare al film un discreto spessore narrativo. In particolare vorrei ricordare il personaggio della Prof.ssa Giovanna, teneramente venerata e costantemente ricordata da Piero in tutte le fasi della sua vita, perfettamente interpretata; si tratta senza dubbio della migliore performance recitativa della pellicola, profondamente drammatica ma comunque estremamente dignitosa."


Ovosodo" è un film che consiglio perchè è in grado di unire diversi registri stilisti e linguistici per creare un interessante "pastiche" cinematografico, che da troppo tempo non si vedeva in Italia. Ho avuto modo di vederlo durante un incontro di cineforum negli anni del liceo e credo che esso trovi la sua ragion d'essere anche in quel contesto, perchè stimola la riflessione e può essere un modo per gli studenti di essere accompagnati dentro la "cultura sottile" di un periodo storico spesso poco esplorato.


VOTO: 7/10

mercoledì 11 gennaio 2012

Twilight - Recensione

Twilight - USA, 2008

La giovane Bella va a vivere con suo padre a Forks, una piccola e piovosa cittadina. Presto rimarrà affascinata da Edward, suo misterioso compagno di corso. Quando degli strani avvenimenti cominceranno a verificarsi, Bella capirà che Edward e la sua famiglia nascondono qualcosa…
Ed eccoci a parlare di uno dei film più chiacchierati degli ultimi anni: dalla penna di S.Mayers arrivano sul grande schermo i vampiri di Twilight ma cerchiamo di capire con quale risultato. La storia in sé non è certo innovativa: già nella celebre trasposizione cinematografica di Dracula realizzata da Coppola la storia d’amore fra un essere umano e un vampiro era ben presente nei temi. L’aggiunta (cioè la contemporaneità, il vampiro buono e il vampiro teenager) vengono dal filone fortunato inaugurato dalle serie TV in stile Buffy. Una confluenza di immagini e suggestioni che si uniscono in queste due ore di film, ma non senza problemi. La storia è scontata, banale e procede per accumulazione di eventi irrealistici (è giusto premiare i buoni sentimenti ma certe scene perdono davvero di veridicità!) e stereotipati.
Il montaggio è banalissimo, senza nessuno spunto d’analisi e completamente anonimo. Ne segue come si diceva che il film è senza struttura, un’invertebrato che striscia negli strati bassi della cinematografia. La fotografia non è da buttare completamente ma, rispetto ad altri film del genere (e non solo) è largamente insufficiente. Buoni i colori di alcune scene e i giochi di luci ed ombre nella scena della sala da ballo ma è ben poca cosa in una nave che sta affondando.
La colonna sonora è accessoria, strumentale e strumentalizzata a creare l’immagine del bel vampiro gentiluomo. Immagine affascinante ma che non emerge completamente in un’ambientazione contemporanea come quella proposta dove la gentilezza e la galanteria sono ormai estinte. La recitazione è insufficiente nella media ma il picco di bassezza si raggiunge in Bella. Senza voler esagerare credo che una tavola di compensato sarebbe più espressiva, convincente e brava di lei. Un personaggio che non ha neanche senso di esistere e che non compie MAI un’azione che non ci aspetteremmo. Piatta, scontata, banale: Bella è l’anti-personaggio per eccellenza.
Infine una riflessione sulla mitologia del Vampiro: il fascino dei non morti come appare da questo film? Devo ammettere che nel complesso non è spiacevole l’immagine urbana del Vampiro che è stata data e che, comunque è funzionale a una rilettura di questa figura nel contesto odierno. Diciamo che l’idea era buona ma la realizzazione è stata quanto di peggio ci si potesse aspettare. Se questo è il film-cult di questa generazione, che generazione dobbiamo aspettarci?
VOTO: 2/10

Respiro - Recensione

Respiro – Italia, 2002
Lampedusa, anni ’60. Grazia è la madre di tre figli e moglie di un pescatore. E’ una donna dallo spirito libero, che difficilmente si adatta alla vita e alla mentalità imperante del luogo. I suoi continui tentativi di sovvertire, anche nel piccolo, l’ordine sociale e le consuetudini la porteranno ad essere vista di cattivo occhio e considerata “pazza”.
Quando ancora c’erano film italiani veramente meritevoli. Respiro è l’esempio che il cinema italiano non è del tutto morto e in mezzo a tanti titoli di bassissima qualità riesce ancora a regalarci delle intense emozioni (come fu a suo tempo riconosciuto dal Festival di Cannes). Il film è la storia straziante e sommessamente disperata di una donna che cerca di far valere le sue ragioni e la sua personalità davanti alla noncuranza delle persone.
Nelle splendide ambientazioni marine di Lampedusa le ipocrisie della società sicula (alcune di esse ancora attuali) si specchiano in un mare azzurro e sono evidenziate da suggestive cornici di scogli bianchi. Bianchi come la purezza di una splendida Valeria Golino che nella sua semplice drammaticità non perde la carica emotiva che da sempre conttraddisingue l’arte meridionale-siciliana.
Questo ambiente crea degli scorci visivi di grande effetto, resi con estremo gusto ma senza nessuna pretesa da una fotografia più che buona. L’unica pecca tecnica del film consiste nel montaggio che, effettivamente, è un po’ troppo lineare ma – comunque – funzionale allo svolgersi di questa bella e drammatica vicenda.
Proposta annualmente nel ciclo televisivo che Rete 4 manda in onda in occasione del Giffoni film festival, Respiro rende protagonisti i giovani figli di Grazia che, al contrario della madre, incarnano fedelmente lo stereotipo del maschio dominatore siciliano. Interpretazioni più che buone anche per loro, anche se una spanna al di sotto della Golino. Altra (piccola) macchia del film è la quasi totale assenza di colonna sonora (spicca su tutti La bambola di Patty Pravo) ma le musiche di sottofondo sono efficacemente soppiantate dai suoni della natura.
Un gran bel film, adatto più o meno a tutti.
VOTO: 8/10

Dogtooth - Recensione

Dogtooth – Grecia, 2009
Una famiglia di cinque persone (padre, madre, due figlie femmine e un figlio maschio) vivono in una casa, in un punto imprecisato di un paese imprecisato, completamente recintata e isolata dal resto del mondo. L’unico ad avere contatti con l’esterno (rigorosamente a bordo dell’auto) è il padre. A tutti gli altri è precluso il contatto con ciò che sta fuori dal loro cancello. All’interno di questa casa-bolla sopravvive la finzione di una vita ideale, ma non è così semplice…
Dogtooth è un piccolo, semplice, diamante bianco. E’ un film a tratti minimale ma profondamente toccante, straniante e perturbante. La storia di questa famiglia, questa vita fittizia costruita dal padre, crea uno stridente contrasto con tutto ciò che siamo abituati a vedere. Un contrasto non in negativo (non del tipo nero-bianco) ma un contrasto – appunto – perturbante, vale a dire “c’è un po’ di questo film in ognuna delle nostre famiglie”.
E’ un lavoro questo di colori netti, con il bianco che domina sopra tutto. Il ritmo narrativo è volutamente assente, quasi piatto. A ben guardare, se qualcuno ci chiedesse nel concreto che cosa accade nell’ora e trenta di questa pellicola, se uno rispondesse “niente” non avrebbe tutti i torti. Eppure in questo completo nichilismo, in questa totale assenza di avvenimenti, si muovono – come fantasmi di una realtà che alla fine ci appartiene – dei personaggi piatti, anch’essi volutamente monocromatici, a dimostrarci quanto la vita dipenda da come ci viene insegnata.
Perchè, riflettendoci, chiameremmo mai il sale sale se nessuno ce lo avesse insegnato? Se qualcuno da piccoli vi avesse detto che il sale si chiama telefono o che la vagina si chiama tastiera voi non avreste creduto sulla parola ai vostri genitori? Ecco la sfida anche filosofica di Dogtooth: non solo una riflessione parodica sulla famiglia contemporanea ma anche un modo quasi focaultiano di riflettere sulle strategie dell’apprendimento e, in questo caso, del condizionamento sociale (perchè, si sa, la famiglia è la società in piccolo).
In questo entroterra concettuale si installa una regia dal montaggio inesistente, gli avventimenti si susseguono così in modo assolutamente nonsensical come la vita dei nostri cinque individui. Il vero punto di forza tecnico di Dogtooth sono però le inquadrature e la fotografia: è uno dei film con la fotografia migliore che io abbia mai visto. Insomma, un film artistico, geniale, straniante e spaventosamente contemporaneo. Consigliato al 1000%
VOTO: 9.50/10

Cube - Recensione

Cube (Il cubo) – Canada, 1997 - Thriller fantascientifico
Sei persone si trovano in una stanza a forma di cubo. Nessuno di loro ricorda il perchè si trovi lì dentro. Apparentemente non hanno nulla in comune e le loro professioni sono diverse: un medico, un poliziotto, un impiegato, una studentessa di matematica, un genio della fuga e un autistico. Scopriranno poi che quella stanza è solo uno dei molti moduli che compongono una gigantesca prigione cospsarsa di trappole. Dovranno impegnarsi per risolvere i misteri del Cubo e cercare una via d’uscita…
The Cube, thriller psicologico di genere survival che punta più sull’interiorità dei protagonisti che su altro. La loro fuga è sì una fuga dalle grinfie mortali del Cubo ma anche (e soprattutto) una lotta contro gli altri e contro sé stessi, per vincere i propri istinti e i propri lati oscuri. Bisogna dire che la trama è interessante e l’idea era – per l’epoca – piuttosto rivoluzionaria. L’unica pecca narrativa sono le domande insolute (chi ha costruito il cubo? perchè? a che scopo metterci dentro delle persone? etc.) a cui viene data solo una qualche superficiale risposta.
Il punto di forza della pellicola sta – al massimo – nell’interpretazione dei personaggi che in questo ambiente asfittico e dai colori netti mettono a nudo la loro umanità e le loro debolezze. Interpretazioni accettabili nel complesso, anche se ricalcano in maniere un po’ troppo stereotipata dei modelli umani già fin troppo inflazionati (p.e. il poliziotto violento). L’assenza di colonna sonora è funzionale al clima asettico del Cubo e quindi non se ne sente la mancanza (non più di tanto almeno); il vero problema è la bassa qualità della fotografia, che pregiudica di molto la buona impressione di questo film.
Un lavoro che nel complesso non è da buttare ma che neanche convince completamente. Bisognerebbe valutare la trilogia nel suo complesso, soprattutto considerando che nel terzo episodio (Cube zero) vengono svelati i segreti della costruzione del marchingegno. Un film per una sera disimpegnata, da guardare sgranocchiando patatine ma niente di più.

J'ai tué ma mère - Recensione

J’ai tué ma mère (Ho ucciso mia madre) - Genere: Drammatico – Canada, 2009
Hubert è un giovane diciassettenne che vive con la madre, separata ormai da anni. Il loro rapporto è tutt’altro che pacifico. I due in realtà vivono uno schizofrenico rapporto di amore-odio in un continuo tentativo di amarsi e odiarsi. Ma ci sono molte cose che la madre non conosce del figlio e quando questi piccoli grandi segreti verranno a galla, cosa succederà al loro già fragilissimo rapporto?
J’ai tué ma mère, un delicato e fragile racconto sul conflitto familiare e generazionale. Un conflitto che scuote nel profondo le strutture basilari della nostra società, partendo appunto dalla famiglia. Perchè la famiglia è la base di tutto e in questo caso è la base del malessere di un adolescente e di una madre che, come figuranti di una tragedia greca, sembrano riportare alla luce in salsa contemporanea il mito di Edipo. Non che il film in questione sviluppi la parte incestuosa del racconto, ma la continua ricerca di attenzioni che sfocia continuamente in un odio profondo non può riportare alla mente queste figure. L’unica differenza è che – nel caso filmico – Laio e Giocasta (l’oggetto di odio e quello d’amore) sono entrembi condensati nella madre, che diventa il feticcio a cui attaccarsi.
La storia – brevemente sintetizzata più in alto – si sviluppa tutta su questo entroterra e non concede soste o variationes sul tema. Il montaggio è abbastanza lineare ma ci sono dei momenti molto interessanti in cui musica e immagini si fondono particolarmente bene, creando dei momenti particolarmente piacevoli. Solitamente si tratta però di “pause narrative” e credo che questo sistema, se ampliato anche a momenti più intensi, sarebbe stato più efficace. La musica è piacevole e ci sono degl intermezzi di pianoforte molto interessanti anche se non sempre si legano bene alle immagini. Le interpretazioni sono convincenti, ma non emerge nessun personaggio in particolare. Da segnalare infine i momenti riflessivi di Hubert, contraddistinti dal bianco/nero, che sono una delle parti che mi sono piaciute di più.
J’ai tué è un film piacevole e fresco, interessante e non eccessivamente scontato. Con qualche ingenuità in meno penso che sarebbe potuto riuscire anche meglio ma, comunque, è già un risultato apprezzabile.
VOTO: 7/10

Porci con le ali - Recensione

Porci con le ali - Genere: film di formazione – Italia, 1977
Tratto dal best-seller omonimo di qualche generazioni fa, Porci con le ali (film liberamente ispirato al libro), eredita la storia di questo romanzo di culto ma si addebita anche svariati difetti. Rocco e Antonia sono due adolescenti che vivono nell’Italia della generazione post-sessantottina. La loro vita trascorre piuttosto monotona e insoddisfacente fino al momento del loro incontro e del loro amore.
Storia piuttosto banale, si dirà. E’ vero, ma le pagine ingiallite di Porci con le ali erano cariche di una sottile e ironica critica sociale che anche a generazioni di distanza dai fatti narrati risultava ancora efficace. Ci si poteva facilmente trasportare con la mente a quei tempi e – ancora più facilmente – si poteva scorgere spunti di attualità nel “diario sessuo-politico” di due adolescenti che si confidavano sui due grandi argomenti dell’epoca: il sesso e la politica. Il sesso cercato morbosamente in ogni situazione, che andava sempre a braccetto con una politica di sinistra fatta da giovani disinteressati a qualsivoglia forma di impegno.
Porci con le ali aveva un senso ed era un romanzo manifesto, per questo era adorabile. Il film omonimo è un fallimento, una brutta copia, quasi uno scimmiottamento. A parte la totale assenza di tecnica cinematografica: non c’è fotografia, la musica è completamente sconnessa rispetto alle vicende, il montaggio è lineare e i personaggi sono macchiette di ciò che vorrebbero o dvrebbero essere. Il problema più grave è che, della carica eversiva e splendidamente anarchica di un romanzo che ha fatto epoca non rimane assolutamente nulla. Il film procede a rilento, e i momenti di dialogo interiore dei protagonisti – che dovevano essere i più interessanti – fanno ridere. Così come fa ridere l’incipit, celeberrimo nel libro, in cui Antonia si masturba in un susseguirsi di termini scabrosi. Disgustoso.
Porci con le ali è un film sbagliato, che risulterà ancora più antipatico a chi – come me – ha apprezzato il romanzo.
VOTO: 4/10

L'arco - Recensione

L’arco - Genere: drammatico – Corea del Sud, 2005
Su una piccola imbarcazione da pesca vivono un vecchio pescatore e una giovane ragazzina, trovata dal vecchio ancora in tenera età e da allora da lui premurosamente allevata in attesa dell’età giusta per poterla sposare. I due si mantengono grazie ai pagamenti versati da gruppi di pescatori che spesso si recano sulla loro barca. Per dimostrare il suo amore alla ragazza, l’anziano pescatore la difende dai “clienti” molesti e la solidità della loro unione è comprovata da una particolare tecnica di predire il futuro. Le cose inizieranno a cambiare quando sulla barca arriverà un giovane ragazzo, che affascinerà molto la nostra giovane protagonista.
Spesso si dice che da un buon libro di dovrebbe trarre un ottimo film. In questo caso credo che questo film sarebbe anche un ottimo romanzo. Direttamente dalla Corea ci arriva una pellicola tecnicamente impeccabile e contenutisticamente particolarmente ricca. La storia è relativamente semplice ma non per questo non meritevole: l’ho trovata particolarmente originale e piacevole. Un racconto non scontato che si sviluppa solo con l’azione e senza la necessità di parole. Infatti il film è contraddistinto dai silenzi, lunghissimi ma mai spiacevoli. E’ un film delle evocazioni più che delle azioni. I nostri protagonisti agiscono, ma non parlano mai. Soltanto i pescatori che vengono invitati sulla barca si lasciano scappare qualche parola ma sono zittiti dal veloce saettare delle frecce scoccate dal vecchio.
L’arco è davvero il protagonista di questo film e – quasi – diventa un personaggio aggiuntivo. E’ dall’arco che ci arrivano le più suggestive e affascinanti evocazioni musicali di una pellicola che, bandendo quasi il dialogo, si sorregge egregiamente su delle melodie evanescenti ed evocative, sempre azzeccatissime. E’ con l’arco che i due protagonisti predicono il futuro a chi lo richiede loro, lasciando sempre nel massimo segreto il responso (vengono fatte tre previsioni ma di nessuna sappiamo il responso, che viene comunicato solo al diretto interessato). E’ l’arco che garantisce l’integrità del nucleo abitativo sulla barca ed è infine l’arco a regalarci una delle scene più dannatamente geniali che io abbia mai visto (ma che, essendo collocata alla fine, non voglio rivelare).
Gli spazi di sviluppo dell’azione narrativa sono ben definiti e bipolari: da una parte la barca, piccolo mondo in miniatura che però si dirama in una serie di ambienti diversi, quasi come se le porte e i passaggi fossero infiniti; un luogo labirintico dove solo gli esperti abitanti dell’imbarcazione sanno muoversi. Dall’altra parte abbiamo gli sconfinati e anonimi spazi del mare sterminato, ma non per questo meno affascinanti; anzi. E’ proprio al mare che il vecchio pescatore (come insegna il buon Hemingway) tornerà nel momento della sua sparizione, dopo aver scoccato l’ultima decivisva freccia. Il tutto poi è reso con una fotografia di altissimo livello e la recitazione è (doverosamente, visto che non ci si aiuta con le parole) fondata sugli sguardi e sull’espressività del volto. Bellissima!
Un lavoro particolare, forse non apprezzabile da tutti ma non per questo meno avanguardistico. Un film che onestamente mi ha catturato e affascinato particolarmente, come raramente mi è accaduto. Poi si sa, la mia passione sono i collegamenti fra cinema e letteratura e questo è un film a mio parere molto pascoliano, sotto certi aspetti; un film delle piccole cose. O meglio, un grande film delle piccole cose. Stando alla mia memoria, che è risalita a tutti i bei film che ho visto in questi anni, si tratta probabilmente del migliore film che io abbia mai visto.
VOTO: 10/10

Antichrist - Recensione

Manifesto italiano del film
Antichrist di Lars Von Trier – Genere: drammatico/”horror” – Produzione internazionale, 2009
La trama si sviluppa attorno ad una coppia il cui figlio muore tragicamente durante un amplesso tra i due coniugi. Il marito, uno psico-terapeuta, decide di aiutare personalmente la moglie a superare il trauma, pur conscio della non correttezza del comportamento. I due decidono di ritirarsi nel bosco di Eden allo scopo di vincere e superare le paure recondite della moglie.
Antchrist non è, come si potrebbe ingenuamente pensare dal titolo, un film sul genere Omen, anzi. Io stesso pensavo di trovarmi di fronte a un qualche prodotto del genere “horror da possessione” quando, all’uscita, ho visto questo film per la prima volta. Devo ammettere che allora non mi aveva per niente colpito, anzi. Rivederlo oggi, a distanza di tempo e certamente con tutt’altra attenzione, è stato doverso ed illuminante. Sì, perchè Antichrist è un gran bel film; devo ammettere di aver preso – all’epoca – una cantonata non da poco.
Organizzato come un piccolo romanzo filmico in tre chapters a cui si aggiungono un prologue e un epilogue, questa fatica di Von Trier non ci mostra, è vero, i demoni della tradizione cristiana, quelli che uno (dopotutto) si aspetterebbe. La pellicola ci parla di demoni ben più diffusi e pericolosi. Non è una rapida e infuocata discesa nell’Averno, ma un lento e tragico scivolamento nei meandri dell’inferno che solo la mente sa creare. Non il dolore ma il delirio, non la sofferenza ma la disperazione. Charlotte Gainsbourg, vincitrice a buon diritto del premio come miglior attrice al Festival di Cannes 2009, ci porta a bracetto nel suo delirio, la chiave di volta dell’intera vicenda. La presenza del marito si sente, ma è quasi accessoria: si rovesciano le parti del rapporto di coppia ed è l’uomo a risultare l’elemento ancillare.
C’è anche un terzo personaggio da considerare, la Natura. Indiscussa protagonista (peccato non poterle assegnare un premio) essa è la regista e la burattinaia di ciò che si svolge a Eden (nome, ovviamente e anche un po’ banalmente, voluto). Michail Bachtin, grande pensatore del secolo scorso, avrebbe apprezzato la maniera grottesca in cui il corpo e la natura si fondono all’interno della pellicola. Per chi non fosse avvezzo al lessico estetico, si precisa che “grottesco” in questa accezione significa sostanzialmente informe, dionisiaco (per usare un termine nietzschiano). Ed è il grottesco bachtiniano a dominare nelle scene di sesso ostentato e cercato con violenza (“Picchiami” ripete la moglie al marito), nella splendida scena della masturbazione nel bosco (a cui poi ne fa seguito un’altra splendida che però non voglio anticipare) e sullo stesso segno si muove la lunga scena del prologo iniziale, dove i due sposi consumano un rapporto sessuale.
Ed è questa scena che ci introduce all’ottima fotografia di Antichrist, dove l’oscillazione fra il colore (nella parte centrale) e il monocromatico bianco/nero (all’inizio e alla fine) uniti all’alta qualità delle riprese e all’ottima ricerca delle inquadrature ci danno un risultato molto buono, che a sprazzi raggiunge l’eccellenza. La colonna sonora non si ricorda certo nella parte centrale del film, anzi è del tutto assente. Ma è naturale: è il bosco a parlare con eleganza, facendo rumore anche con i suoi silenzi e lasciando che l’orchesta degli animali che lo abitano suoni per noi.
Un film molto ben riuscito, come ci si aspettava da Von Trier. Mi scuso con me stesso per averlo in origine considerato un fallimento
VOTO: 8.50/10

La pelle che abito - Recensione

La pelle che abito di Pedro Almodòvar – Genere: drammatico – Spagna, 2011
Il chirurgo Robert Ledgard vive nella sua lussuosa casa/clinica privata in compagnia di Vera, una bellissima ragazza per la quale lui sembra avere una vera e propria ossessione: l’uomo la tratta infatti come una cavia, tenendola rinchiusa in una stanza, vestita solo di un body color della pelle e osservandola tramite delle telecamere.
Il nuovo, attesissimo (almeno da me) film di quel diavolo di Pedro Almodòvar mi ha, almeno in parte, deluso. Eh si, perchè chi come me era abiutato alla tipologia di Tutto su mia madre o allo splendido La mala educaçion potrebbe trovarsi un po’ impreparato a questo “cambiamento”. La pelle che abito è un film che punta sulle tinte fosche più di quanto non sia già stato fatto in precedenza ma, forse eccede un po’. La trama è tutto sommato originale, almeno per noi occidentali (ho saputo che, tenuta in conto la cinematografia orientale d’alta classe, questo potrebbe non essere più vero) ed è ben interpretata dagli attori protagonisti che risultano sempre credibili anche se non spiccano per qualità.
Il montaggio sembra scontato ma si risolleva nella parte finale creando una piacevole struttura a rimandi che rimette in discussione l’idea che ci si poteva essere fatti. Sfruttando anche in una scena la tecnica del “vedere lo stesso episodio da più punti di vista” già emersa in Elephant e altrove, Almodòvar riesce a risultare più interessante di quanto l’apertura della pellicola non prospettasse. Il punto è che tutto avviene nei tempi sbagliati, troppo lentamente all’inizio (quando invece si poteva accelerare) e in questo modo la parte centrale e più interessante della vicenda risulta spostata verso la fine (nella 2° metà del film) e si è costretti a correre, accelerando per portare a termine il tutto.
La fotografia è accettabile ma da un regista apprezzato e apprezzabile come P.A. ci si aspetterebbe certamente di meglio. Ci sono, a tratti, delle belle inquadrature e il lavoro nel complesso non è da buttare ma mi aspettavo molto molto di più per un lavoro di questo genere. Apprezzabilissime invece le musiche, con delle sequenze di violino davvero suggestive, che si abbinano bene alle scene proposte. Un’altro problema della pellicola è il finale, imprevedibile (e questo è un bene) ma anche troppo rocambolesco e poco realistico; la situazione peggiora ancora se si considera che, proprio nel momento finale del film, diventa anche un po’ troppo buonista (dove l’Almodòvar cattivo de La mala educaçcion?).
Insomma, un deciso cambiamento di rotta per l’eccentrico regista spagnlo che, personalmente, non ho apprezzato molto (forse anche perchè le mie aspettative erano alte…) ma che – credo – potrà comunque risultare piacevole per gli amanti dell’autore.
VOTO: 5/10

Eyes wide open - Recensione

Eyes wide open di Haim Tabakam – Genere: drammatico – Israele, 2009
Aaron è un macellaio di Gerusalemme e uno stimato membro della comunità religiosa del quartiere. Ha una bella famiglia, vive rispettando i precetti della Torah e cerca di affinarsi continuamente nello spirito e nella vicinanza a Dio. In un giorno piovoso entra nel suo negozio un ragazzo senza storia, che presto caccia via. Presto però i loro destini si incroceranno di nuovo.
Interessante film israeliano, il primo di questa nazione che mi capita di vedere. Eyes wide open (emblematico e certamente non casuale titolo internazionale dato al film, con ripresa evidente dell’ultima fatica di Kubrick) è un film completamente immerso in un preciso clima storico, culturale e mentale. Siamo a Gerusalemme, ai giorni nostri. Siamo in una comunità ebraica fondamentalista (o quasi) che vive nel rispetto e nello studio dei due grandi libri dell’ebraismo, la Torah e il Talmud. Proprio questi testi regolano la vita del quartiere, sempre pronto a sanzionare con parole e con messaggi i comportamenti contrari alla morale.
Aaron si trova così in mezzo a due fuochi, l’apollineo e il dionisiaco. Da una parte il suo intimo sentimento di rispetto per la religione e il suo desiderio di elevarsi e dall’altro l’interesse suscitato da un giovane misterioso ragazzo-studente che è entrato nella sua vita all’improvviso, proprio come un’acquazzone. Interessante per il tema e l’ambientazione, la pellicola affronta in modo netto l’argomento della morale sessuale ebraica contemporanea, mostrando come al di là delle varie interpretazioni del testo sacro rimane di fondo un atteggiamento abbastanza chiuso nei confronti delle diverse realtà di genere. Aaron esemplifica una spinta all’autolimitazione di sé che molto spesso è negativa e può sfociare nella psicosi; è interessante analizzare questo problmea proprio perchè, seppure per motivi in parte diversi, affligge anche la nostra società occidentale.
Eyes wide open conta su una fotografia di buona qualità, con alcune inquadrature veramente riuscite e su interpretazioni tutto sommato buone. Personalmente si sente la mancanza di una colonna sonora importante, considerando che gli unici apporti sonori (o quasi) stanno nei canti della comunità. Il montaggio è lineare e questo sacrifica un po’ il film che comunque tecnicamente è di buona fattura. Ma come si dice, non è tutt’oro quel che luccica. Guardando il film ho avuto l’impressione di mangiare un piatto presentato molto bene, ma insipido. Il film non convince fino in fondo e risulta scontato sul finale, anche se l’ultmissima scena ne risolleva in parte le sorti.
Un titolo comunque interessante, da vedere per completismo geografico (non capita spesso di vedere film di questo genere realizzati in quest’area) e per immergersi in un clima altro (ma non troppo!) rispetto al nostro.
VOTO: 6.50/10

Les amours imaginaries - Recensione

Les amours imaginaries (tit. internazionale Heartbeats) di Xavier Dolan – Genere: drammatico – Canada, 2010
Un ragazzo e una ragazza, amici da tempo si innamorano dello stesso ragazzo. La loro ossessione diventerà sempre più importante, tanto che a un certo punto non potranno più fare a meno di lui.
Avevamo lasciato Xavier Dolan in preda ai complessi di Edipo in Ho ucciso mia madre e lo ritroviamo qui, cambiato ma non troppo, in questo nuovo esuberante e sorprendente Gli amori immaginari. Dolan dipinge a tinte forti e implicitamente fosche la discesa negli inferi della psiche (di nuovo!) ma non più in manienra pericolosamente antifamiliare come in J’ai tué. Il giovane regista e attore canadese questa volta si avvale della patina edulcorante del vintage e di un certo stile pseudo-indie per accompagnarci in un’altra, stroboscopica galoppata nell’Averno dei sentimenti. Gli amori immaginari sono una costante della vita, di quando in metropolitana ci infatuiamo a prima vista di una persona, di quando coltiviamo in silenzio passioni segrete per anni e poi siamo costretti ad abbandonarle, di quando aspettiamo morbosamente telefonate, lettere o segni che (lo sappiamo benissimo) non arriveranno mai.
E’ triste il racconto di Dolan, intimistico e straordinariamente vitale. Vitale perchè foriero di attuali interpretazioni, ma al tempo stesso profondamente sconsolante. Un elogio funebre ai sentimenti, destinati ad essere macinati nel tritacarne dell’ambiguità, di quella che ti fa soffrire di notte attanagliandoti con mille e più dubbi. Con una fotografia accurata ancorché un po’ incerta, sezioniamo il cuore dei nostri tre protagonisti, sperando e vivendo con loro realtà e ipocrisie che noi tutti abbiamo provato. Dolan non delude né come regista, bellissime le inserzioni non meglio definite di quelle vittime d’amore che cercano di disintossicarsi, né come attore. Il suo fascino ammaliante conquista lo spettatore e ci dimostra che si tratta di un individuo dalle elevatissime potenzialità.
La musica è scelta con attenzione e sempre accuratamente calibrata, con uno squisito gioco di violini ad accompagnare l’evolversi di questa nevrosi sentimentale. Una nota ulteriore va fatta per la scelta di inserire il brano Bang bang nella versione meno conosciuta di Dalida. Una scelta decisamente azzeccata, che dimsotra un bagaglio culturale molto importante per un artista ancora così giovane ma evidentemente così meritevole.
Un racconto tragico e attuale sull’amore inteso come sentimento, come forza distruttiva (tema ricorrente anche in letteratura dallo Stilnovo in poi), come energia folle che acceca e comanda, come sogno e come immaginazione. Una riflessione sullo statuto ontologico di un sentimento troppo spesso invocato senza conoscerne il potere, un demone troppo pericoloso per essere cercato nel momento sbagliato (a rischio di collezionare delusioni come il personaggio del povero Dolan!). Un salto in avanti rispetto al già riuscito J’ai tué ma mère, che porta Dolan a un livello ulteriore. Stiamo a vedere che cosa saprà fare anche se personalmente vedo ancora una mancanza di carica eversiva, di spinta all’osare che potrebbe renderlo un vero genio visionario del cinema occidentale (p.e. se si fa una scena con connotazioni sessuali – e qui ce n’è una bella forte – mostriamola! Osare è un obbligo, per chi può farlo come Dolan).
Un candidato ad essere uno dei miei film preferiti
VOTO: 8/10

Ringu - Recensione

Ringu di Hideo Nakata – Genere: Horror – Giappone, 1998
Reiko Asakawa è una giornalista che si mette a indagare sulla misteriosa morte di sua nipote e di alcune sue amiche. Andando a fondo nella vicenda, con l’aiuto del professor Riuji Takayama, scoprirà che le loro vite erano state cambiate da una misteriosa videocassetta, contenente immagini apparentemente prive di senso…
Dal best-seller internazionale di Koji Suzuki, sul finire del XX secolo il Giappone, attraverso l’occhio registico di Hideo Nakata, porta alla ribalta uno dei più innovativi, controversi e soprendenti film horror della storia del cinema. Quasi introvabile in streaming, sono riuscito -finalmente- a vedere questo capolavoro solo grazie a un sito specializzato. Nakata, in poco più di un’ora e trenta di film (partendo però dall’ottima base creata da Suzuki) è riuscito a creare un vero e proprio capolavoro che, come tutti i grandi classici horror ha dalla sua una immensa generatività. Proprio come i romanzi gotici per eccellenza, l’opera che si prende qui in considerazione ha creato uno stuolo di cloni più o meno diretti, arrivando a costruire una vera e propria innovazione di genere. Nei sottogeneri dell’horror è infatti difficile inserire film come Ringu, i remake (molto meno curati) The Ring, Phone, The grudge etc., tanto che si potrebbe pensare di inserirli in un’apposito sotto-genere.
Tornando a un’analisi dell’0pera di Nakata va detto che la storia è ripresa fedelmente dal romanzo dell’autore giapponese ma non per questo perde in freschezza e originalità. Per gli spettatori del 1998 Ringu ha segnato una vera e propria svolta narrativa, una specie di spartiacque o comunque qualcosa in grado di distinguere un “prima” e un “dopo”. Storia complessa che offre vari livelli di lettura, dando spunti anche sull’analisi razionale dei fenomeni paranormali (fotocinesi etc.), Ringu ha importanti agganci con la letteratura gotico-orrorifica di ogni epoca e si avvale anche di interessanti appigli filosofici o pseudo-filosofici (personalmente ritrovo nella storia di Ringu anche una ripresa della Teoria dell’immaginazione materna, già presente nell’Elephant man di Lynch). Tutto questo ne fa un’opera complessa e originale, non minimamente paragonabile all’obrorbio americano che ne è derivato.
Le interpretazioni sono convincenti sempre e comunque e si ha l’impressione (rara devo dire) che siano proprio i personaggi del romanzo a muoversi sullo schermo (salvo i doverosi adattamenti derivanti dal fatto che p.e. Asakawa nel romanzo è un uomo!) e questo genera un gradevolissimo e raro senso di continuità intertestuale. E ancora il personaggio di Sadako è terrorizzante perturbante, molto ma molto di più della sua “cugina” famosa, l’inflazionatissima Samara Morgan. Le apparizioni di Sadako sono rarissime ma straziant e la sua storia è così drammatica da risultare quasi commovente; ebbene sì, siamo portati anche noi a interagire empaticamente con Sadako, quasi a confermare i poteri di suggestione della ragazza.
Un capolavoro assoluto, una pietra miliare del cinema. Si potrebbe discutere di questa mia definizione visto che do’ la qualifica di pietra miliare di genere anche a film tecnicamente più imperfetti (Nightmare, Halloween etc.) ma, mentre questi lo sono per completismo o, se si vuole, per il loro valore storico, l’opera di Nakata è storicamente imprescindibile e tecnicamente impeccabile. Questo la pone almeno 5 o 6 spanne sopra da molti degli horror occidentali “classici”.
VOTO: 10/10

Spiral - Recensione

Spiral di Joji Iida – Genere: Thriller – Giappone, 1998
La salma di Ryuji Takayama viene esaminata dal suo amico e rivale, il patologo Mitsuo Andou. All’interno dello stomaco di Takayama, Andou trova un bigliettino con un criptico messaggio “un regalo per te”. Intanto Reiko Asakawa e suo figlio Yoichi Asakawa, moglie e figlio di Takayama muoiono in un incidente. Andou comincia ad unire i pezzi del puzzle e viene a conoscenza della videocassetta maledetta, che da la morte dopo 7 giorni che la si è vista. Andou, disinteressato alla propria vita, dopo la morte del figlioletto, guarda la videocassetta senza curarsi troppo della maledizione.
Dalla penna di Koji Suzuki, più o meno nello stesso periodo in cui Hideo Nakata consegnava il suo Ringu alla storia del cinema horror, esce nelle sale Spiral (tit. originale Rasen), riedizione cinematografica dell’omonimo romanzo. La diversa mano registica si vede, purtroppo! Chi avesse letto la recensione di Ringu (10/10) avrà preso atto della incredibile portata rivoluzionaria che questo titolo ebbe sulla cinematografia di genere (e non solo…); quindi vedere il seguito di un così riuscito capolavoro destreggiarsi appena nella soglia di accettabilità non è certo una gran cosa.
Partendo dal presupposto che già la trama di Spiral è meno scorrevole e coinvolgere di quella di Ring bisogna dire che nel film viene completamente meno la carica tecnica sperimentale di Nakata che, con poche semplici mosse, era riuscito a creare una vera e propria nuova mitologia dell’orrore e dell’ansietà. Spiral è un thriller piuttosto “scolatisco” non malvagissimo di per sé ma che, a confronto con il capostipite, perde gran parte dei suoi meriti (e il confronto – purtroppo – è inevitabile!).
Ma, fosse solo questo, il risultato sarebbe più che apprezzabile! Al di là dei meriti tecnici ciò che non mi ha convinto appieno del titolo è proprio la figura di Sadako. Come si ricoderà in Ring la sua storia era al centro della vicenda: la giovane donna era il nemico da abbattere, l’elemento di pericolo, ma nonostante questo esisteva una sottile trama lacrimosa nella sua storia che legava empaticamente il lettore/spettatore alle vicende della sventurata, tanto che era quasi impossibile non amarla! In Spiral rimane poco o nulla di questo melodramma senza musica, di questa storia nella storia e – cavoli! – è un vero e proprio omicidio questo!
Ma un altro piccolo delitto è stato perpetrato… sembra che il personaggio di Riujy Takayama sia stato del tutto tradito: la sua drammatica vena di goliardica simpatia scompare fino a renderlo un fantoccio quasi senza vita, al servizio di qualcosa più grande di lui. Da uno splendido personaggio a tutto tondo (quasi commovente nella fine del romanzo Ring) è stato tratto un mezzo-busto, una statuetta da presepe! Peccato!
Un film che non butterei completamente via, da vedere anche solo per completismo per avere una visione nuova delle vicende di Ring. Non aspettatevi un bis del capolavoro nakatiano.

Wild tigers I've known - Recensione

Wild tigers I have known di Cam Archer – Genere: drammatico/queer – USA 2006
Logan è un tredicenne molto silenzioso e socialmente isolato che frequenta le scuole medie. Vive con una madre “particolare” e passa le sue giornate da solo, fra le telefonate al suo unico “migliore” amico e i pomeriggi passati davanti alla TV. Un giorno, uscendo da una seduta con la consulente scolastica, fa la conoscenza di Rodeo, un ragazzo più grande e – per certi versi – molto simile a lui.
Pellicola dagli ottimi presupposti, Wild tigers è un titolo ambiguo e – per certi versi che specificheremo ora – affascinante. La storyline di per sé non è molto originale, ma è comunque abbastanza credibile e coerente con sé stessa. Il punto interessante del comparto narrativo sta proprio nella costruzione psicologica dei due protagonisti, così diversi ma così uguali. Due ragazzini, dopotutto che cercano di essere riconosciuti e apprezzati da qualcuno che sia come loro e, per questo, diverso dalla società. Logan è un delicato bozzetto della crescita adolescienziale, approfondito quel poco che basta a farci capire la profondità del suo disagio. Rodeo ha il fascino del misterioso e dell’informe, perchè informi e (apparentemente) insensate sono le sue scelte, e lo resteranno fino alla fine degli ottanta (circa) minuti di film.
Tecnicamente il film propone delle soluzioni molto interessanti che lo rendono, per certi versi, anche molto sperimentale: una fotografia discreta che però a tratti raggiunge momenti di intensa poesia visiva, fondendosi bene con la musica e con il comparto narrativo. Allo stesso tempo il dissidio interiore di Logan è reso benissimo attraverso l’alterazione vocale delle sue telefonate e alla fine si corona drammaticamente nella sua scelta di presentarsi alla fidanzata di Rodeo, non come Logan ma come Leah.
Un film apprezzabile per certi aspetti, sicuramente dimenticabile per altri. Un film che poteva essere un succeso ma che, inevitabilmente, si accartoccia su di sé!
VOTO: 6.50/10
Il film in una frase: “Se entrambi fingiamo che ci sarà una fine, allora forse ci sarà un inizio. E inizierà con noi, che scappiamo lontano insieme. Via! Via! Via! Lontano! Lontano! E vivremo con i leoni e dormiremo sugli alberi. Dormire, questo sarà tutto ciò di cui avremo bisogno”

Suicide club - Recensione

Suicide club di Sion Sono – Genere: drammatico/grottesco – Giappone, 2002
Un gruppo di studentesse si getta sotto un treno della metropolitana provocando l’inizio di quella che sembra essere una catena di suicidi. Il detective Kuroda, incaricato di seguire le indagini, riceve una strana telefonata da una ragazza, il Pipistrello, che gli indica l’accesso ad un sito in cui su uno strano pallottoliere i numeri variano dopo ogni suicidio, prima che questo venga scoperto dalla polizia.
Criptico, grottesco (nel senso bachtiniano del termine) e affascinante lavoro giapponese, Suicide club è un drammatico e morboso rovesciamento carnevalesco della classica vita di una moltitudine di persone “normali”, normalmente inserite in un sistema mediatico post-moderno. Rimane all’inizio lo spiazzamento dettato da una serie di gesti apparentemente privi di senso, ma non per questo ripresi con minore crudezza: in una visione del tutto scomposta e rabberciata del corpo del singolo individuo, non ci vengono risparmiati fiumi di sangue, orecchie mozzate et similia, tutto in uno stile per niente fastidioso-invadente e/o splatter ma – anzi – molto ricercato.
La trama è complessa, misteriosa e articolata. Labirintica e sostenuta fino alla fine, non lascia un attimo di spazio allo spettatore (nessuna pausa narrativa, nessun punto morto), che è trasportato in una faticosa ma necessaria cavalcata verso la risoluzione di un mistero che appare privo di senso. Siamo invitati nella casa del detective Kuroda, viviamo con i suoi figli e guardiamo con lui le Dessert (gruppo j-pop di giovani talenti esordienti) che, con le loro canzonette, ci accompagnano per i lunghi e tortuosi eventi della pellicola.
La musica, vale la pena di dirlo, si muove su due piani distinti: da una parte i brani “disimpegnati” ma non per questo meno funzionali alla riuscita del dramma filmico delle Dessert e dall’altra la canzone genialmente grottesca cantata da Genesis, personaggio dotato di un fascino magnetico, Charles Manson dell’era informatica e omaggio vivente al celeberrimo ma sempreverde Frank ‘n Further.
Qualche parola va spesa, bisogna dirlo necessariamente, sulle sequenze finali del film (diciamo sul finale in senso lato): vero e proprio tourbillion mentale spiazzante e geniale, con i bambini che ribaltano (grottescamente!) la loro funzione e, da innocenti creature diventano satiri demoniaci, pur senza compiere alcun atto sanguinolento. Essi rappresentano il monito e la morale del film: in una società come quella giapponese (ma, per traslato si potrebbe dire come quella contemporanea), dove il singolo perde di valore in un sistema mediatico che crea un tessuto che va ben al di là della singola entità ontologica, essi ci ricordano la necessità di recuperare il legame con noi stessi, in un modo drammatico ma non per questo meno attuale
VOTO: 8.50/10
Il film in una frase: “Loro non sono i nemici!”

Le quattro volte - Recensione

Le quattro volte di Michelangelo Frammartino – Genere: documentario (?) – Italia, Germania, Svizzera 2010
Un paese della campagna calabrese arroccato su una collina che si erge attorno a dei campi. Un vecchio pastore passa le sue giornate portando le pecore al pascolo e recuperando la sua medicina in una vecchia chiesa. Una capretta nasce e muove i suoi primi passi. Un vecchio albero viene abbattuto e trasformato in un albero della cuccagna. Viene preparato il carbone per l’inverno.
Sono sufficienti poche frasi concise a descrivere l’impianto strutturale de Le quattro volte. Finalmente un film che ci fa sperare nelle buone possibilità di un certo cinema italiano. Michelangelo Frammartino dipinge, attraverso un sapiente uso dei mezzi tecnici della cinematografia, quattro rappresentazioni della vita e del tempo. In un paese che vediamo, ma che non sentiamo (essendo quest’ultimo completamente “asettico” nel senso che non intesse relazioni con la narrazione principale) si muove un brulichio di entità diverse (appunto umane, animali, vegetali e minerali). Cercherò di concentrarmi di seguito sul contenuto del film e sull’interpretazione, quindi specifico subito che mi sembra tecnicamente un film riuscitissimo.
In primis, quindi, il vecchio pastore. Il volto segnato da una vita rurale (probabilmente) e le mani scavate, su cui si adagia una pelle anziana e molliccia, lo fanno assomigliare a uno dei Mangiatori di patate di Picasso. E dei personaggi picassiani l’anonimo pastore ha tutti i tratti drammatici. Attaccato alle sue bestie (alle capre sì, ma anche al fedele cane), il pastore vive segnato da una sconosciuta ma presumibilmente avanzata malattia. Sua speranza di sopravvivenza è la bizzarra medicina che gli viene preparata in una chiesa e che ogni giorno, prima di coricarsi, deve prendere. Su questo sistema di giornate ripetitive si innesta la forza demolitrice del Caso, che segnerà profondamente il destino di questo personaggio frammartiniano.
Una delle capre del nostro malato pastore è incinta, e partorisce un piccolo candido e bianco. Espulso dall’utero materno e gettato di violenza nel mondo, il piccolo animale esplora cianciante la realtà che lo circonda e noi, attraverso i suoi occhi insicuri, vediamo la natura ad un’altezza che non avevamo mai potuto apprezzare. Di nuovo, sarà il caso a determinare il suo destino, questa volta nelle fattezze di un solco nel terreno.
Un grande albero (un abete?), probabilmente vecchio almeno quanto il pastore, si staglia sopra la macchia che domina l’entroterra; lo fa con un’insistenza titanica propria della sua natura, a dispetto del passaggio delle stagioni e degli anni che ha “sulle spalle”. Tagliato dall’uomo, o meglio da un intero agglomerato umano, sarà pulito e sistemato per diventare centro della vita di paese, albero della cuccagna che, una volta abbattuto, dovrà completare il proprio ciclo, divenendo carbone (e questo ci porta direttamente alla quarta macro-sequenza narrativa).
Un film che si potrebbe definire, declinare e analizzare in vari modi. Resta il fatto che si tratta di una interessante e riuscita analisi, per certi versi “teatrale”, di quattro vite molto diverse ma molto reali (e, implicitamente, interconnesse). Resta da chiarire il “genere” (ma è una questione di secondaria importanza): Le quattro volte ha la forma del documentario, forse, ma ha la struttura narrativa di un film. La cura autoriale e tecnica però sono quelle di un film (drammatico?). Il documentario spiega, mentre il film evoca o tutt’al più racconta. Un ibrido quindi, tendente molto di più al film rispetto che al documentario, almeno secondo me.
VOTO: 8.50/10
Curiosità: Le quattro volte è stato il film italiano più premiato del 2010. Perfino il cane del vecchio pastore ha vinto un premio: è stato insignito del premio per la migliore interpretazione canica al festival di Cannes di quell’anno.

Titus - Recensione

Titus di Julie Taymor – Genere: drammatico/storico/teatrale – Regno Unito, Italia, USA 1999
Tito Andronico, generale romano, torna vittorioso in città dopo aver sconfitto i Goti della Regina Tamora, la quale viene condotta come schiava nella capitale. Lì, dopo aver affascinato il neo-imperatore Saturnino, assurgerà al rango di Imperatrice e metterà in scena una crudele vendetta nei confronti degli Andronici, colpevoli di avere ucciso uno dei suoi figli.
Re-interpretazione postmoderna del Titus Andronicus di William Shakespeare, il film è un concetrato ibrido che oscilla continuamente fra innovazione e intertestualità con la tradizione. Riprendendo in modo pressoché esatto la vicenda narrata dal drammaturgo e poeta inglese, la pellicola re-inventa la tragedia di vendetta messa in scena negli atit del dramma in chiave contemporanea. Sarà quindi una Roma, la nostra, dove troveremo a convivere in maniera pressoché perfetta la figura tradizionale del generale romano (Andronico – Hopkins) e, per esempio, l’esistenza delle automobili.
La sceneggiatura segue fedelmente, salvo qualche spostamento delle vicende, gli eventi narrati nei cinque atti, e anche i dialoghi sono ripresi fedelmente dalla tragedia creando – per altro – un piacevole effetto estetico “straniante” dato dal contrasto fra la modernità (relativa) della presentazione scenografica e il tono epico-arcaizzante dei dialoghi. Nonostante questo le relazioni dialoghiche fra i personaggi sono ben strutturate, credibili e comunque coerenti con sè stesse.
La fotografia è molto buona e mette in scena in maniera impietosa, proprio come Shakespeare voleva (questa è la tragedia più cruenta del drammaturgo, oltre ad essere la prima), lo spettacolo della distruzione del Corpo inteso sia in senso fisico (menomazioni, antropofagia, omicidi etc.) che in sesno ideologico (lo sfacelo del corpo familiare è alla base della Tragedia di Vendetta ordita da Tamora). La colonna sonora è essenziale, asciutta ma al tempo stesso epica; conferisce alla scena una solennità discreta, ma non per questo meno imponente.
I personaggi, in ultimo, sono molto ben caratterizzati: riprendono le personalità concepite da Shakespeare ma, senza ricadere nello stereotipo, le arrichiscono di nuove sfumature date dalla componente un po’ “pop” del post-moderno filmico. I personaggi quindi non sembrano essere stati scritti cinquecento anni fa: mantengono inalterato il loro carattere marmoreo ma riescono a muoversi bene nell’ambiente sfaccettato e nuovo che Julie Taymour ha saggiamente scelto per riproporre un dramma shakespereano troppo spesso dimenticato o bistratto dalla storiografia anteriore.
Il lavoro della regista è apprezzabilissimo e consiste in una vera e propria archeologia del teatro di Shakespeare, non in modo astratto e un po’ romantico come viene fatto di solito; quello che Taymour fa è cercare il vero teatro del poeta e metterlo in scena in chiave contemporanea, ma in un modo non troppo diverso da quello che doveva essere l’intento dell’autore
VOTO: 8/10
Il film in una frase: “Se mai ho commesso una sola buona azione in tutta la mia vita, me ne pento dal profondo dell’anima”

Diario di una schizofrenica - Recensione

Diario di una schizofrenica di Nelo Risi – Genere: psicologico-drammatico – Italia, 1968
Anna Zeno è una ragazza di diciassette anni, malata di schizofrenia. I gentiori, in virtù del loro buon livello economico e dopo aver provato senza successo una miriade di cure diverse, la mandano in cura in una clinica specializzata. Lì la terapeuta Madame Blanche cercherà di curarla comprendendo il suo malessere, anzichè imbottendola di medicine.
Liberamente tratto dall’omonimo romanzo, il film costitutisce un interessante documento degli ultimi anni Sessanta. E’ il dispiegarsi davanti ai nostri occhi della malattia mentale, rappresentata in una forma non eccessivamente spaventosa. Questo perchè non è importante traumatizzare lo spettatore ma rappresentare, nella maniera quanto più realistica possibile, il malessere di Anna, nell’esatta misura in cui anche lei lo prova. L’adattamento del romanzo è quindi ricco di riferimenti alla psicologia (si vede la consulenza scientifica di personalità eminenti del mondo accademico) che, per quanto utili e affascinanti, rischiano di confondere lo spettatore non specialista.
Il montaggio è piuttosto lineare, ma funzionale a una trama che (essendo ben ricalcata dal romanzo) non permette stravaganze o voli pindarici. La fotografia è discreta, ma non eccelle in nessun senso, così come la musica, presente ma piuttosto anonima; diciamo che passa inosservata. Buona invece la caratterizzazione dei personaggi: da una parte abbiamo Anna, continuamente in lotta con sé stessa e il suo malessere, dall’altra abbiamo Madame Blanche, personaggio affascinante e complesso; sicuramente il meglio riuscito della pellicola. Le due si muovono in una dinamica relazionale bidirezionale che ricorda un po’ quella che già decretò il successo di Anna dei miracoli, in tutte le sue versioni. L’aggiunta ulteriore rispetto al classico in bianco e nero che ho citato è una maggiore insistenza su una dialetta pseudo-hegeliana del tipo servo-padrone: non si capisce chi delle due abbia bisogno dell’altra.
Un film che comunque non delude ma che, sicuramente, poteva soddisfare molto di più; peccato. Sicuramente migliore dei 3/4 del cinema italiano attualmente prodotto.
VOTO: 6/10

Concorrenza sleale - Recensione

Concorrenza sleale di Ettore Scola – Genere: drammatico – Italia, 2001
Roma, 1938: Umberto Melchiori e Leone DellaRocca sono due commercianti di stoffa che lavorano sulla stessa via. Il primo, un milanese cattolico, prepara abiti su misura mentre il secondo, un’ebreo romano, vende capi confezionati. I due commericianti sono perennemente in concorrenza. Essi adottano continuamente svariate strategie per attrarre i clienti nei propri negozi e molto spesso litigano per futili motivi. Il loro pessimo rapporto subisce una radicale svolta, dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia.
Ettore Scola, dieci anni fa, ci riportava ad uno dei capitoli più neri della nostra storia. Un film che è stato girato in un epoca diversa, quando gli anni 2000 sembravano portarci nelle magnifiche sorti e progressive del futuro. Ciònonostante, un film che ha ancora qualcosa (per la verità molto…) da insegnarci. Il regista, con un occhio attento e con una fotografia dai colori vividi, ci riporta indietro nel tempo per mostrarci una faccia del regime che di solito non viene vista nei media. Il fascismo non erano solo le grandi marcie, la visita di Hitler a Roma o la marcia sulla capitale; il fascismo era nelle strade, nelle vie delle città e, in questo caso, nei negozi. Con un occhio a tratti ironico ma molto spesso impietoso, Scola evidenzia sagacemente l’ideologia popolare del regime, la triste realtà della contaminazione dell’ideologia operata in persone fondamentalmente “buone”. Tecnicamente discreto, il film impressiona e si ricorda più per la sua storia che per i suoi meriti costruttivi anche se, bisogna dirlo, le musiche sono veramente belle (celebre l’ouverture con le strade di Roma) e degne di nota sono le interpretazioni ben strutturate psicologicamente di Abatantuono (in un semi-inedito ruolo drammatico) e di Castellitto (“veterano” del genere, potremmo dire). Spicca per l’amara simpatia la performance di Jerard Depardieu, un piccolo diamante!
Veramente un film interessante e didascalicamente utile, consigliato per la visione scolastica (io stesso l’ho visto al liceo!)
VOTO: 7/10
Il film in una frase: “Un pensiero tuo non ce l’hai? Non hai mai un’opinione personale, sono gli altri quelli che ti devono dire quello che tu devi dire? Allora perché non fai come al solito? Di’ semplicemente quello che dicono i tuoi giornali. Dicono che tutto va bene, che tutto è opportuno, conveniente, regolare, nobile, patriottico, eroico, ardito, fatale, ineluttabile, indefettibile, immarciscibile, imperialista!

Odete - Recensione

Odete di Joao Pedro Rodrigues – Genere: drammatico – Portogallo, 2005
Odete lavora in un supermercato a Lisbona e sogna di avere un figlio da Alberto. Ma Alberto non vuole e la lascia. Rui è sconvolto dalla morte del suo ragazzo, Pedro.
Opera secunda del regista portoghese, Odete è un film dal fascino indubbio quanto ambiguo. La story-line è di per sé interessante; il tema della maternità ossessiva – come abbiamo visto – faceva da perno anche allo riuscitissimo A l’interieur, uno degli horror migliori che io abbia mai visto. Dunque anche qui, in un melodramma accompagnato dalla pioggia (elemento atmosferisco centrale nel film), una donna cerca ossessivamente di avere un figlio, arrivando a sacrificare a questo “ideale” (che come al solo travalica i confini fisiologici e si avvicina alla follia) tutta la sua vita, dal lavoro in giù. Verrebbe da chiedersi, guardando film come questi, dove si debba fermare il desiderio di maternità e fino a che punto, forse, si tratti di un desiderio a volte un po’ egoistico. A questa prima tranche narrativa si aggiunge di forza, a suon di aggiunte e intersezioni, la vicenda amorosa drammaticamente raccontata di due ragazzi, uno dei quali muore in un incidente stradale. Altra pioggia, questa volta lacrime. Un funerale dove la follia materna di Odete esplode in tutta la sua violenza, con lei che si getta sulla bara del morto, come volesse copulare ossessivamente con lui.
Il tutto è reso con una fotografia accettabile, una musica mai troppo presente e forse per questo un po’ sacrificata e delle interpretazioni certo discrete. Per forza di cose si staglia sugli altri personaggi la nostra Odete, che ci trasporto con la sua follia all’interno della sua malattia disperata. Un po’ sottotono la performance dell’amante infelice, novello Orfeo, che non riesce a trovare consolazione degna dopo la morte dell’amato. Si aggiunga qualche scena poco gradevole (come quella della sauna, a parer mio inutile…) e il film si avvia a un rapido declino; peccato.
Un film che, ancora una volta, parte da una buona base narrativa e si perde per strada, non riuscendo a convincere (quanto meno me, la critica è piuttosto “alta” con questo lavoro) completamente. Comunque un film “vedibile”.
VOTO: 5/10

L'esorcista - Recensione

L’esorcista di William Friedkin – Genere: horror di possessione – USA 1973
Georgetown. L’attrice Chirs McNeill è impegnata in un film e passa le sue giornate fra il set cinematografico e il tempo passato a casa con la figlia dodicenne, Regan. Quando la piccola Regan inizierà a manifestare strani comportamenti, che nessuno psichiatra riuscirà a spiegare, il suo destino si incontrerà con quello di Padre Damien Carras, un prete-psichiatra decisamente poco convenzionale…
The scariest movie of all time, L’esorcista. Prima di parlare del film in sé è bene valutare la bontà (eventuale) di questa fortunata affermazione. Si parlava già ai tempi delle recensione di Ringu della generatività del “mostro” come metro per misurare la riuscita e la risonanza multimediatica di un prodotto: a proposito del capolavoro di Nakata si è detto che la sua indubbia portata rivoluzionaria si misura nel fiorire di una filiera di titoli “cloni” o figli di The ring. Lo stesso si può dire per L’esorcista.
Anzitutto il film fonda un genere, che è quello degli horror di possessione. Proprio da questo titolo nascerà (e qui sta la generatività) una fortunata (più o meno) serie di titoli più o meno affini: dal vecchiotto Seitan (vero e proprio remake di dubbia fattura) fino ai più recenti Blackwater valley exorcism, The exorcism of Emily Rose, Exorcismus solo per citarne alcuni, per non parlare del prequel L’esorcista-La genesi e del sequel L’eretico. Il titolo è però anche estremamente pervasivo e la sua portata da vero e proprio oggetto di culto si vede, per esempio, anche nella citazione parodica che ne fa Scary movie II.
Ma veniamo al film, valutandone i parametri tecnico-narrativi in relazione all’epoca di produzione (compito arduo, ma inevitabile per film un po’ “vecchiotti”). L’impianto narratologico e la sceneggiatura sono complessi, articolati e ben strutturati. Certo non si tratta di un capolavoro del cinema impegnato, la natura d’intrattenimento da blockbuster si vede bene, ma per un horror degli anni ’70/80 siamo decisamente al di sopra della media (siamo negli anni dei grandi slaher americani, è bene ricordarlo). Bellissima a mio parere l’apertura (quasi muta) del film, con le riprese su un sito di scavi archeologici che vengono (giustamente) prolungate nella fantomatica “edizione integrrale”.
Le inquadrature e la fotografia sono la parte un po’ più carente, anche se ci sono comunque delle belle angolazioni visuali, come quella del celeberrimo arrivo del vero e proprio esorcista a casa McNeill (che si vede nella copertina che apre questa stessa recensione). La musica è accessoria, come si confà a un prodotto squisitamente d’intrattenimento, ma il motivetto principe del film è riuscitissimo ed è rimasto nell’immaginario come profondamente legato a questo titolo. Un ultimo aspetto su cui di solito non mi soffermo ma sul quale in questo caso vale la pena almeno accennare è il trucco e gli effetti speciali, ottimi per l’epoca. L’abbruttimento del corpo di Regan è progressivo ma terrorizzante.
Capolavoro insuperato del genere esorcismi, L’esorcista è ancora oggi un film storico e storicamente imprescindibile (di certo per la storia del cinema horror, ma onestamente credo che sia un film che in ogni caso ha fatto la storia del cinema in generale) per la sua multiforme presenza ancora oggi, a più di trent’anni dalla sua uscita. Uno dei film che hanno fatto scuola sulle tematiche della possessione e della demonologia insieme alla fortunata ma non altrettanto pervasiva serie di Omen.
VOTO: 8/10
Il film in una frase: “Il demone è bugiardo. Mentirà per confonderci e alle menzogne mescolerà anche la verità per aggredirci.”