giovedì 31 maggio 2012

Le onde del destino - Recensione


Le onde del destino di Lars Von Trier - Genere: drammatico - Danimarca, 1996

Film in un prologo, 8 capitoli e un epilogo. Bess ha deciso di sposare Jan, tecnico su una piattaforma petrolifera, nonostante il parere contrario degli anziani della comunità che non apprezzano l'ingresso di un 'estraneo'. Bess, che ha un dialogo interiore con Dio, ama Jan con tutta se stessa, corpo e anima. Un giorno lui rimane vittima di un incidente sul lavoro che lo immobilizza per sempre su un letto. Chiede allora a Bess di rifarsi una vita perché la comunità non le consentirà mai di divorziare: deve fare l'amore con un uomo e poi descrivere a Jan quanto accaduto. A lui sembrerà di rivivere sensazioni che non può più provare. Bess inizialmente oppone resistenza ma poi decide di cedere. Per amore.

Era il lontano 1996 e Von Trier non era ancora il regista anticonvenzionale e simbolista che tutti oggi conosciamo e (forse) apprezziamo. Eppure già in questo film, drammatica e vibrante storia dalla solida struttura narrativa (divisa appunto in capitoli, come sarà poi Dogville) si percepisce già il tocco di Von Trier, la sua cifra poetica e stilistica. E' una storia forte, drammatica, realistica ma al tempo stesso trascendente (simile forse a quella di Dancer in the dark per questo). La vicenda di Bess McNeil, elemento alieno in una società teocentrica e patriarcale di una dimenticata cittadina affacciata sul mare del Nord, si situa al di fuori di qualsiasi schema socialmente accettabile per il piccolo e ottuso assembramento umano in cui vive; diventa quindi figura dell'emarginazione, della difficoltà di relazionarsi (cfr. sempre Dogville) ma inizia già ad aprirsi sull'altro grande tema del cinema vontrieriano e cioè la critica agli istituti sociali, in particolar modo alla famiglia (cfr. Melancholia e Antichrist) e alla Chiesa.

E' un film quasi lynchiano questo che von Trier confeziona, un inno dedicato alla narrazione, con un repertorio tecnico che non esorbita dalla normale struttura di un film commerciale ma che ad ogni inquadratura presenta un elemento di tensione, una potente scossa sottocutanea che traccia un film parallelo, un itinerario di suggestioni e immagini che sgancia il film dalla mera narratività e lo eleva a vera e propria creatura artistica. 
La fotografia dai colori tenui traccia ambienti poveri e fatiscenti, modesti ed austeri. Eppure quest'austerità diventa presto stancante e appare fuori tono se messa a confronto con i folli movimenti sincopati di Bess, che pur perpetuando quegli stessi colori li mette in movimento con il suo incessante destreggiarsi fra gli ambienti e le situazioni. 
Il montaggio è lineare, si basa principalmente su figure piuttosto classiche e non cerca ossessivamente una scomposizione del piano narrativo o dell'immagine (cosa confermata anche dalla "rigida" divisone in capitoli, che non servono a estraniare lo spettatore ma a condurlo nella storia); fanno eccezione solo alcuni momenti in cui alla successione di raccordi si sostituisce una modalità di ripresa più concitata e indecisa, ma è un momento marginale; Von Trier si lega alla narrazione convenzionale e affida il suo messaggio alla forza delle pure immagini.

Immagini splendide da un punto di vista compositivo, che tracciano come abbiamo già ricordato un doppio movimento, come se l'universo diegetico si sdoppiasse e noi vivessimo la stessa storia da due punti di vista, quello di Bess e quello di tutto il resto del "mondo". Due prospettive diverse e apparentemente inconciliabili: da una parte il movimento ascensionale di Bess verso la santità e la salvezza di Jan, dall'altro il medesimo movimento, percepito da tutti gli altri come una caduta nel baratro. Le due pulsioni troveranno però la loro unione nel finale che, seppure un po' didascalico (le campane celesti ricordano vagamente il futuro avvicinarsi del pianeta Melancholia), garantisce allo spettatore una conciliazione con il film e una completa immedesimazione nel tessuto narrativo, nella storia di questa Maddalena contemporanea e così profondamente umana.

Nessuna sperimentazione estrema, nessuna provocazione spettatoriale, "solo" un film perfettamente riuscito, a metà fra il narrativo e il simbolico.

VOTO: 9/10

mercoledì 30 maggio 2012

Strade perdute- Recensione


Strade perdute di David Lynch - Genere: Thriller - USA, 1996

Fred, sassofonista di Los Angeles geloso della bruna moglie Renee, riceve una videocassetta dove lo si vede accanto al corpo della consorte assassinata. Lo arrestano per uxoricidio, ma presto nella sua cella le guardie trovano, al suo posto, il giovane meccanico Pete  che, scarcerato, torna al lavoro in officina e si fa paladino di Alice, pupa bionda di un gangster.

Considerato, a torto o a ragione, come uno degli imprescindibili capolavori della storia del cinema, Lost Highways rappresenta senza dubbio appieno la mentalità e lo stile del suo regista, il visionario Lynch ed è senza dubbio uno dei lavori più complessi che mi sia mai capitato di vedere da un punto di vista narrativo. Già a un primo livello di lettura la struttura della vicenda appare complessa, contorta ed ellittica, proponendo un sistema di ritorni che si fa sempre più evidente e perturbante nel prosieguo della vicenda. Così come il protagonista (o meglio i due protagonisti) si confondono fra loro e sono a loro volta confusi, lo spettatore intraprende un percorso nei meandri di una costruzione labirintica e pensata appositamente per imbrigliarlo in una spirale senza via di uscita. 
Quello che Lynch vuole fare è farci uscire dal nostro abituale rapporto con le immagini, farci intraprendere una strada perduta, appunto, perché sterrata e incerta, dove la navigazione si svolge a vista ed è affidata alla sensibilità del pilota più che ai cartelli stradali. Ecco, allo stesso modo il corpo del film si rifrange in una molteplicità di piani che sfumano l'uno dentro l'altro, impedendone una lettura chiara e definita e auspicando una decriptazione psicologica ad opera del singolo fruitore.

Come nel forse (ingiustamente?) più celebre Donnie Darko, che pure si basa sulla moltiplicazione dell'universo diegetico, qui i piani si contaminano sempre di più, ma mentre nel film culto degli anni Duemila le ambiguità si ricompongono in un finale che ancorché non conciliante appare parzialmente risolutivo, qui le perplessità rimangono immutate dopo poco più di due ore di film. 
Chi è davvero l'uomo del mistero, personaggio affascinante e perturbante almeno quanto il Soave di Blue Velvet?

Da un punto di vista tecnico-stilistico siamo ovviamente ad altissimi livelli per la qualità delle immagini anche da un punto di vista fotografico e plastico; troneggiano come sempre in Lynch gli oggetti stranianti, sui quali la macchina da presa indirizza con insistenza la nostra attenzione. I personaggi si caricano come da copione di un fascino morboso, che qui è ancora più accentuato dalla difficoltà di dirimere i nodi di Gordio che affliggono un tessuto narrativo quanto mai franoso. 
Sicuramente un'ottima prova di un David Lynch assolutamente visionario, ma probabilmente un film troppo complicato per essere apprezzato da tutti, al contrario di un Velluto blu, senza dubbio di più facile esegesi. 

VOTO: 8/10

giovedì 17 maggio 2012

La grande abbuffata - Recensione


La grande abbuffata di Marco Ferreri - Genere: grottesco - Italia, Francia, 1973

Quattro uomini piuttosto benestanti si chiudono in una bella casa nei sobborghi cittadini per consumare un enorme pasto di ottima qualità, con l'unico scopo di morire.

Marco Ferreri è senza dubbio (insieme a Pier Paolo Pasolini) uno dei registi più controtendenza, particolari e volutamente anticonvenzionali che l'Italia abbia mai avuto. Casi rari, che ormai sembrano aver abbandonato queste terre. Già nello splendido Dillinger è morto il regista, scomparso a Parigi nel 1997, aveva fatto esplodere con tutta la violenza possibile e immaginabile la bomba della critica sociale, qui riproposta e se possibile anche con maggior violenza. Ferreri raduna per questa fatica un cast d'eccezione, con un Mastroianni rubacuori, quasi l'altra faccia de La dolce vita felliniana e un Tognazzi veramente grottesco e pasoliniano nelle sua azioni, solo per fare qualche nome. 

Il film di per sé non ha una trama, non segue le portate di un pranzo tipo, anche se l'idea originale è quella. Presto la bellezza compositiva dei primi piatti cede il posto a un tripudio di cibi di ogni sorta, consumati in ogni stanza della casa, che diventa un enorme bordello, quasi una statua all'ingordigia rapace dell'uomo. C'è molto de L'angelo sterminatore di Bunuel in questo film, a partire dalla volontà di decostruire l'istituto della società borghese e benpensante. C'è almeno altrettanto di pasoliniano, in particolare faccio riferimento al capolavoro Salò che era forse più incentrato sui temi del potere e della bio-politica. 

E' un viaggio autodistruttivo, una parabola dell'autoannientamento umano che passa non a caso attraverso quelle azioni che secondo i teorici del comportamento (e della critica alla società occidentale), come Marcell Mauss che maggiormente risentono di una regolamentazione, vale a dire il cibo e tutte le attività che concernono gli orifizi (sesso, escrezioni etc.). E' proprio qui che emerge una memoria pasoliniana, con il celebre Girone della Merda che non può non tornare in mente. 

In generale un film difficile da descrivere, un enorme banchetto ai vizi umani, con una volontà di critica sociale che però non è mai pura demagogia antiborghese, anzi spesso si risolve in un puro gioco grottesco di corpi, cibo, sesso e liquidi, fino alla bellissima sequenza finale, dove Tognazzi si uccide mangiando il pasticcio di carne da lui stesso cucinato a forma di Santa Maria del Fiore.
Certamente, un film che mal si presta ad essere guardato prima o dopo i pasti.

VOTO: 7.50/10

martedì 15 maggio 2012

Vogliamo anche le rose - Recensione


Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi - Genere: documentario - Italia, Svizzera, 2007

Alina Marazzi ricostruisce, attraverso la tecnica del "found footage" (cioè il montaggio di filmati già esistenti) un bel documentario sulla condizione della donna, a partire dal movimento femminista degli anni Settanta. 
Non ho mai visto troppo di buon occhio i documentari sul femminismo perché molto spesso si riducono a una sterile riproposizione dei medesimi argomenti, senza sforzarsi di accendere su di essi una luce che sia anche vagamente problematizzante, come a dire "viva il '68", il che è anche giusto... ma il Sessantotto ormai è passato e bisogna guardare al presente, senza dimenticare le radici della questione.

Di solito si dice che "il documentarista restituisce una fotografia" di qualcosa. Alina Marazzi si spinge ben oltre fornendoci un racconto delle questioni che hanno portato alla genesi e al successivo sviluppo della questione femminista ma senza fermarsi a una mera (e piuttosto inutile) contemplazione degli eventi. Sarebbe stato certo facile dal momento che la Marazzi non produce ma monta.
La sfida di questo lavoro è quindi proprio quella di spingere lo sguardo autoriale oltre la superficie, increspandola, andando al di là delle parole e delle immagini per consegnare loro un senso ulteriore, che anche oggi possa essere utile e attuale. 
Rifuggendo con grande abilità dai soliti stereotipi e dal pericolo della banalità e sfruttando saggiamente documenti d'epoca visivi e sonori, Alina Marazzi ci restituisce quindi una rappresentazione coerente, interessante, credibile e problematica della questione femminile in Italia.

Ciò che emerge soprattutto da questo lavoro è l'ardimento di alcune scelte linguistiche, che da una parte elevano il livello del film spingendo alla ricerca di una pura estetica (che però è anche etica, dato l'argomento impegnato) e dall'altra spronano l'occhio e lo sguardo dello spettatore a procedere oltre la superficie, interrogandosi non solo sugli eventi "diegetici" ma soprattutto sul proprio ruolo, su come noi spettatori del 2012 guardiamo questo documentario e il suo oggetto d'indagine, vale a dire la donna.
Un esempio su tutti: durante una breve sequenza Alina Marazzi utilizza un pezzo di un film dove si capisce molto presto che sta per consumarsi un atto sessuale. La regista lascia allo spettatore appena il tempo di rendersi conto di questo fatto, gli lascia appena la possibilità di accendere la propria immaginazione e poi, subito, toglie l'immagine, lasciando l'audio di un quasi amplesso su uno sfondo completamente nero. Lo spettatore è spiazzato, il suo desiderio è frustrato e quindi non può che rivolgersi a sé stesso: in questo respiro dell'immagine (che si ritrova in altre sequenze) spettatore e regista sono parte di un processo creativo e condividono un tempo processuale e una sensibilità unica.

Un bel lavoro quello della regista italo-svizzera, che andrebbe valorizzato maggiormente in virtù del suo impegno sociale e della bellezza di alcune soluzioni

VOTO: 8/10

lunedì 14 maggio 2012

Gerry - Recensione


Gerry di Gus Van Sant - Genere: drammatico - USA, 2002

Tratto da una storia vera, il film racconta la vicenda di due ragazzi che decidono di andare a fare un scampagnata nel deserto e si smarriscono. Solo uno di loro riuscirà a tornare indietro.

Prima parte della vansantiana "Trilogia della morte", che comprende anche l'osannatissimo (a ragione!) Elephant, Gerry è un'opera maestosa, silenziosamente splendida e profondamente innovativa e indagatrice per quello che riguarda le dimensioni del linguaggio cinematografico. Forse la punta più alta dello sperimentalismo vansantiano, ancor più del suo film successivo. Girato poco dopo la tragedia dell'11/09/2001, il film è pensato come un contraltare visivo al senso di smarrimento e di perdita delle certezze che aveva invaso la società americana. Anche grazie alla ripresa di alcune tecniche registiche adottate dal regista Bela Tarr, Gerry diventa l'estrema manifestazione di un cinema dell'Apocalisse, molto poco americano. In questa sede cercherò di mostrare a grandi linee che cosa mi ha suggerito il film, quali corrispondenze ha fatto scattare, senza nessuna pretesa di completezza.

La pellicola si presenta sin da subito come una riproposizione "strutturalista" del genere western, molto caro a Van Sant. Il paragone potrebbe stupire, ma Gerry è in effetti un western ridotto all'osso, alla sua struttura fondamentale: opposizione fra civiltà e barbarie, paesaggio americano etc. Pur senza avere praticamente una struttura narrativa il film dialoga quindi con la tradizione cinematografica americana, ma la integra e la supera in modo dialetticamente eccellente. La musica straniante e onirica di Arvo Part accompagna in questa prima, splendida sequenza (le immagini di Van Sant sono sempre e comunque pittoricamente magnifiche) dei lunghi piani-sequenza che appiattiscono l'inquadratura tipica del western: se infatti nei film tradizionali del genere erano presenti gli elementi del paesaggio (il cowboy, il cavallo, la vegetazione e le rocce) in maniera stratificata, vale a dire a differenti profondità, qui tutti questi elementi ritornano ma allo stesso livello di dignità (anzi, come vedremo, il paesaggio assume un'importanza molto maggiore). I protagonisti sono presentati in controluce, contravvenendo a qualsiasi regola stilistica (e, fra l'altro, compaiono dopo cinque minuti buoni dall'inizio del film), a dimostrazione che non sono le loro macchiette narrative ad interessare il regista.

Sin da subito le battute sono pochissime, i dialoghi quando sono presenti si riducono a poche semplici schermaglie verbali che si diradano progressivamente nel corso del film, man mano che i due Gerry si addentrano nel deserto. Spesso sono discorsi incomprensibili a uno spettatore qualunque, sono piuttosto autoreferenziali (p.e il discorso fatto poco dopo l'inizio, durante la prima notte, in riferimento alla "conquista di Tebe" ritengo potrebbe alludere a un tipo di videogioco storico, molto popolare in quegli anni; questo fra l'altro stabilirebbe un legame con la valenza del videogioco usato in Elephant). 
Anche in questo film, peraltro, ritornano le nuvole (stilema tipico del regista), solitamente a marcare un passaggio di tempo, un restringimento del tempo diegetico del film, in particolare nei momenti di transizione giorno/notte. 

Dopo la prima notte assistiamo alla prima di una lunga serie di metamorfosi del paesaggio, che qui passa dall'essere uno spazio brullo puntellato di arbusti al presentarsi come una distesa di rocce e sassi, il tipico deserto roccioso americano. Da questo momento spariranno anche i rumori "di sottofondo" degli animali e il rumore più comune sarà quello del vento: la destrutturazione procede sempre di più.
Nel frattempo i due Gerry vengono lasciati sempre più in disparte, occupano le zone interstiziali e marginali dell'immagine e proprio in questo spazio roccioso inizia la loro metamorfosi, che li abbruttirà terribilmente. E' qui che fa la sua prima comparsa una figura fondamentale nell'ottica della rilettura western: la maglietta di Gerry (Matt Damon) sistemata a turbante gli dona un'aria altra, orientale che non può non essere letta in opposizione con la facile demotivazione dell'altro Gerry (Ben Affleck). Sembra che il nuovo cowboy di Van Sant sia una specie di beduino del deserto. 

Il deserto roccioso di frantuma presto in pulviscolo sabbioso e attraversiamo insieme ai due Gerry una specie di Sahara. Qui c'è una delle scene più belle di tutto il film, un debito di Van Sant nei confronti di Bela Tarr (in particolare de Le armonie di Werckmeister): un lunghissimo piano-sequenza dei due Gerry che camminano fianco a fianco, con le loro figure che si sovrappongono progressivamente. Armonizzate dal ritmo della marcia le loro silohuettes diventano una sola, indistinguibile entità. I due Gerry sono in realtà uno solo, due facce della stessa medaglia, due lati dello stesso individuo. 

Il successivo cambio di paesaggio ci porta in un campo tempestoso di tumbleweeds (altro segno del western, le tipiche palle di fieno) e qui c'è un altro grande colpo di genio di Van Sant: la scena del miraggio. I due Gerry sono ripresi di spalle (posa cara a Van Sant) e vediamo avvicinarsi dalla profondità del campo una terza figura, che progressivamente si avvicina mentre il campo si restringe su Gerry/Affleck. Solo quando la figura si sarà avvicinata ci accorgeremo che il regista si è preso gioco di noi e che anche noi come Gerry ci siamo fatti intrappolare nell'apparenza delle cose: siamo vittime di un miraggio che ci ha accecato, anche noi ci siamo persi in quel deserto. 

Il deserto è ormai pronto ad accogliere anche noi e si trasforma ulteriormente, diventando una distesa bianca e dai confini assolutamente indefiniti: un'enorme tabula rasa. Questo è l'ambiente apocalittico per eccellenza, il luogo del non ritorno per uno dei due Gerry che, stremato, si butta a terra. E' questo il luogo dove, dopo un'ora buona di silenzio assoluto e sibili del vento sentiamo tornare, in lontananza, i versi degli animali. La chiusura è vicina, ma non senza un sacrificio. Gerry/Affleck, che aveva camminato con la morte sul petto, con la stella da sceriffo appuntata sopra il corpo, deve essere sacrificato. 
Subito dopo la sua morte, che Van Sant affronta quasi come una sfida senza importanza, ecco che in lontananza, dallo sfondo, si staccano delle figure, ombre che manifestano forme di vita, che vediamo sul fondo di un campo completamente bianco e "tagliato" dal passaggio delle nuvole. 

Il finale è emblematico: Gerry/Damon, salvato dal deserto, è nel retro di una macchina in parte a un bambino mentre il padre, alla guida, lo guarda con sospetto. Non sappiamo nulla, il film si chiude nell'indecisione più assoluta, lasciando aperta una serie di possibili indeterminati. 

Prima di chiudere, e dovrei affrettarmi visto che mi sono già dilungato troppo, vorrei mettere assieme gli elementi che ho raccolti fin'ora e tentare di dare una lettura del lavoro di Van Sant abbracciando l'idea del film apocalittico post-undici settembre. 
Consideriamo i due Gerry come due parti di uno stesso individuo, come due elementi di una stessa mente, che possono essere coordinati (la marcia armonizzata) o in contrasto (l'indecisione sulla direzione da prendere). Questo individuo-tipo è certamente un americano (Van Sant è molto radicato all'interno del suo contesto). Se consideriamo la strada come l'itinerario tipo di un americano nella sua esistenza e l'uscita di strada come un evento traumatico che fa perdere i punti di riferimento, ecco che Gerry può davvero essere letto come la fine dei grandi racconti americani, il crollo delle certezze e dei miti made in USA. 
E allora ecco che la scena del deserto bianco si legge bene se immaginiamo quella tabula rasa come un luogo di sospensione, come una grande mente dove le due anime dell'americano-tipo che cerca di uscire dalla crisi sono in contrasto. E' vero che alla fine il Gerry superstite rimane sotto l'occhio vigile di un Padre, ma è anche vero che fra i due, quello era il Gerry meno americano (basta ricordare il suo turbante per capirne l'alterità rispetto al "sistema").

Nessuna pretesa di completezza in queste parole, solo la presa di coscienza di trovarsi di fronte a un vero capolavoro.

VOTO: 10/10

giovedì 10 maggio 2012

Ferro 3: la casa vuota - Recensione


Ferro 3: La casa vuota di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2004

Tae-Suk è un giovane che trascorre le sue giornate entrando nelle case lasciate vuote occasionalmente dai proprietari. Dorme sul divano, si fa la doccia, lava i panni, aggiusta gli oggetti che non funzionano, gioca a golf e si scatta fotografie da solo con la sua camera digitale. Tutto con una leggerezza quasi ultraterrena. Un giorno, entrando in una casa, si accorge c'è una ragazza, Sun-hwa, che ha dei segni di maltrattamenti sul viso. Sono i continui litigi con il marito. Tae-suk, la prende con sé, per vagare insieme nelle case degli altri, e condividere questo strano modo di vivere che trasforma, lentamente, la loro amicizia in amore.

A detta di molti uno dei film più belli degli ultimi dieci anni, Ferro 3 porta la firma di Kim Ki-duk, regista coreano già apprezzato in questa sede per lo splendido L'arco. In questo film, apparentemente molto lontano dall'altro titolo già analizzato molto positivamente, abbiamo senza dubbio la stessa aria di sospensione, quasi mistica che pervade completamente gli spazi e i personaggi. E' un cinema interessante, molto poco americano, un cinema di poesia che si basa sull'evocazione più che sulla narrazione.
La trama è piuttosto semplice, ma sorprendentemente rivoluzionaria, sia per la materia che per il modo linguistico di tratteggiarla. Il nucleo di base del racconto non sembra eccedere dal tradizionale dramma borghese (la moglie picchiata dal marito violento), ma su questa base il regista installa una serie di eccedenze, di  dati ulteriori che trascendono la semplicità di una visione che si sarebbe presto potuta rivelare convenzionale. 

Anzitutto, e questo è un dato sia linguistico che narratologico, i protagonisti non parlano per tutta la durata del film (neanche troppo lungo, un'ora e mezza circa) e questo è quantomai strano per uno spettatore che è abituato al cinema occidentale in generale. Sorprendentemente, almeno per me, il tutto risulta perfettamente calibrato e anche se il protagonista maschile non parla mai e la protagonista femminile spiccica solo qualche parola alla fine del film (un finale, fra l'altro, che vale da solo tutto il resto!), la pellicola non annoia mai, anzi. 
Questa novità, questa eccedenza straniante rispetto ai canoni tradizionali, unita al vagabondare quasi onirico dei due personaggi in case vuote, che non abitano in quanto spazi non connotati dalla loro presenza, contribuisce a trasformare una storia in un dramma, un melodramma nella fattispecie. 

E' un melodramma ben riuscito, che non si risolve in farsa sentimentale ma evoca sensazioni che non vengono mai completamente espresse dalla narrazione: è richiesta un'intensa attenzione da parte dello spettatore per riconfigurare in chiave significante le informazioni, che gli vengono soltanto suggerite e mai affidate in modo completo. Siamo nelle mani di una voce narrante ambigua, che non si capisce se è sospesa in una onniscenza che ci è negata oppure davvero non sa quello che accade davanti ai suoi occhi. E così molti elementi del film rimangono incogniti, o meglio vengono affidati allo spettatore. Non ci viene spiegato quasi nulla, il narratore non comunica con noi, così come i personaggi e alla fine rimaniamo con un pugno di mosche, un nugolo di dubbi che però siamo felici di non aver risolto, come a dire che nella nostra conoscenza non dev'essere per forza sempre tutto spiegato e che i silenzi sono altrettanto importanti rispetto alle parole (emblematica in questo senso la frase finale). 

VOTO: 10/10

mercoledì 9 maggio 2012

Il bandito delle undici - Recensione


Il bandito delle undici di Jean-Luc Godard - Genere: drammatico - Francia, Italia, 1965

Abbandonati moglie e figli e sbarazzatosi di un cadavere, Ferdinand-Pierrot fugge con Marianne, ne viene tradito, la uccide e si fa saltare in aria.

Una trama sterile, quasi imbarazzante per la sua povertà. A fronte, però, un film assolutamente geniale, innovativo e travolgente, che ben riflette un preciso clima culturale in primis e cinematografico in secundis. Sono gli anni che preludono alla contestazione, finita l'era degli eroi hollwoodiani, il cinema europeo si svecchia e si rinnova. E' la nascita del cinema moderno, cinema dello sguardo, che esige spettatori attenti e non più anestetizzati a pellicole-favola. 
Godard è uno dei massimi interpreti di questa svolta e torna sul luogo del delitto dopo Fino all'ultimo respiro e sfida di nuovo il genere gangster-story, così in voga nell'America classica. 

In realtà di gangster qui c'è poco o nulla: forse ce ne sono i presupposti fondamentali, ma non la struttura e le intenzioni. Muoiono delle persone, ma la loro morte non viene mai mostrata; succedono delle cose che lo spettatore non conosce (gran parte del passato dei due protagonisti rimane ignoto) e la maggior parte delle azioni sono vuote, prive di un senso narrativo proprio, sono inutili e non fanno progredire la trama (che pure, come si è detto, pare non averne bisogno).
E' un cinema di sentimenti e di parole, non di azioni, un cinema di vuoti e di silenzi, che come sempre si installa sul rapporto d'amore tutto particolare dei due protagonisti, splendidi interpreti.

Tecnicamente, l'anti-narrazione allo stato puro. I mezzi linguistici usati da Godard sono i più svariati: organizzazione della storia come un romanzo, o un saggio; citazioni colte letterarie realizzate da Belmondo nella sua veste di divo-filosofo; inserti pseudo-musicali assolutamente inutili dal punto di vista narrativo; scompaginamento dell'illusione di realtà con un montaggio non trasparente e una nota di asincronismo sonoro, senza considerare le frequenti apostrofi dirette allo spettatore.
E' cinema dello sguardo, cinema da guardare e con cui eventualmente immedesimarsi, ma a condizione di riconoscerne la falsità, la natura mediante.

Ci sarebbe molto altro da scrivere in merito, ma un capolavoro del genere va sicuramente visto per essere apprezzato al meglio.

VOTO: 10/10

mercoledì 2 maggio 2012

Da morire - Recensione


Da morire di Gus van Sant - Genere: drammatico/commedia - USA, 1995

Suzanne Stone è una bionda e bella ragazza di Little Hope con un sogno nel cassetto: sfondare in televisione. Sposatasi all'adorante Larry Maretto, figlio di un ristoratore italo-americano in odore di mafia, si risolve a farlo fuori nel momento in cui l'uomo avanza la richiesta di un figlio e di una vita borghese e provinciale, inconcepibile ostacolo sulla strada di Suzanne per il successo. Sfruttando il suo potere di seduzione su tre adolescenti complessati, la Barbie killer mette a segno il suo colpo, ma non tutto va secondo i piani. 

Film vansantiano del periodo hollywoodiano e per questo molto sottovalutato da alcuni (non a torto, visto che gli altri due titoli del periodo ossia Will Hunting e Scoprendo Forrester sono fra le punte più basse del cinema del regista). E in effetti in Da morire non c'è nulla di estetico, almeno a una prima occhiata. Non c'è il fascino da viaggio on the road di Mala Noche, non c'è la fine indagine linguistica che rende memorabili Elephant o Last days e neanche il melodrammatico intreccio di L'amore che resta. Il film in questione è assolutamente narrativo e non eccelle dal punto di vista linguistico, è veramente molto hollywoodiano, ma al tempo stesso non si riduce a mera imitazione di un modello ormai esasperato.

Ciò che garantisce a Da morire l'originalità necessaria a elevarsi al di sopra del cinema commerciale americano medio sono soltanto - in effetti - alcuni espedienti messi in atto dal regista, attraverso cui Van Sant costruisce un melange transcinematografico che sembra già preannunciare alcune soluzioni dei film successivi. 
Innanzitutto la storia comincia a disarticolarsi, si rifrange in mille prospettive diverse, tanto che per gran parte del film lo spettatore non si sa raccapezzare in mezzo alle testimonianze non sempre collimanti di chi ha vissuto le vicende: in questo pulviscolo di opinioni, voci di corridoio e simili, la vera immagine di Suzanne Stone si compone per addizioni incrementali, un po' come l'immagine televisiva è composta da una serie di unità di grana più fine. 
Van Sant realizza un film che colpisce al cuore il medium televisivo, mostrandone le pericolose pieghe non solo nell'alienazione prodotta nei tre adolescenti, ma anche (e soprattutto) in quella prodotta in Suzanne, che come un Fitzcarraldo contemporaneo, vive assolutamente al di fuori della realtà, in un mondo tutto suo e del quale la televisione è l'unica signora e padrona.

La Kiddman è qui al suo massimo, rende benissimo la parte di Suzanne Stone, che sembra quasi disegnata per lei. Non è un caso in effetti, dal momento che anche l'alter-ego reale della protagonista (il tutto è ispirato a un fatto di cronaca, com'è tipico in Van Sant) viveva nel sogno di fare la televisione e quindi aveva abbandonato la sua reale fisicità per coltivare un'immagine di sé che potesse essere telegenica (sono frequenti i richiami alla necessità di rimanere "in linea" e di non avere imperfezioni).

Il film vansantiano, insomma, pur senza voler toccare le vette artistiche dei suoi capolavori, riesce comunque a destreggiarsi dignitosamente all'interno del panorama filmico, anche grazie alla geniale trovata (che ricorre in ogni film del regista) di ibridare l'immagine filmica con delle sequenze prese da altri supporti (super 8, o immagine televisiva in questo caso). Una commedia nera riuscita, mediamente divertente anche se a volte un po' troppo ingenua e stereotipica.

VOTO: 7/10

martedì 1 maggio 2012

Le relazioni pericolose - Recensione


Le relazioni pericolose di Stephen Frears - Genere: drammatico/storico - USA, Gran Bretagna, 1998

Francia fine '700: un po' per gioco un po' per vendetta, la marchesa di Merteuil macchina col visconte di Valmont un complicato intrigo di seduzione, amore e abbandono, intrigo che sfugge di mano a entrambi. 1° film hollywoodiano del britannico S. Frears che, nel raccontare in immagini il sulfureo romanzo (1782) di strategia erotica di Choderlos de Laclos, si è servito della riduzione teatrale (1986) del suo compatriota Christopher Hampton, autore anche della sceneggiatura, conservandone la struttura e l'atteggiamento di sogghignante sarcasmo verso la vicenda e i personaggi.

Vincitore di vari premi oscar, fra cui uno meritatissimo per i costumi, Le relazioni pericolose è probabilmente uno dei migliori film in costume che mi sia capitato di vedere. Anche se risente un po' del fatto di essere un adattamento (in particolare pesa il passaggio teatrale, di cui il film recupera senza troppe difficoltà alcuni procedimenti di impostazione), Frears fa di questa pellicola un' opera originale, che riflette contemporaneamente non solo sui contenuti esposti nella trama ma anche sul modo in cui questi contenuti sono veicolati visivamente. 
Per non rischiare di dimenticarmene in seguito, una nota in apertura che vuole sottolineare le splendide interpretazioni dei due protagonisti, Glenn Close e John Malkovich che rendono questo film quello che è: è solo grazie alle loro interpretazioni davvero magistrali che tutto si eleva ed esce anche dal proprio contesto, "trascendendo ogni controllo". 

La trama è quantomai complessa e articolata e si sviluppa attraverso una continua serie di aggiunte, un accumulo progressivo di elementi che saranno poi magistralmente fatti esplodere nel finale. Da questo punto di vista sono emblematiche le due scene che incorniciano il tutto, quella iniziale e quella finale. Se all'inizio vediamo i due protagonisti che si svegliano, si abbigliano e si truccano, alla fine della vicenda quello che ci appare è un quadro fisso della Close che si strucca. E allora, ferme restando queste due sequenze, tutto ciò che succede nelle due ore di film può essere considerato come un progressivo incrinare la superficie, un lento ma inesorabile mostrare le ingenuità egoistiche dei personaggi, che inseguono incessantemente un obiettivo, senza neanche sapere esattamente quale sia. 
Ed è proprio da questo punto di vista che il film trascende sé stesso, abbandona le (pur bellissime) atmosfere barocche e le musiche d'aria vivaldiana per tentare in maniera efficacissima di dettare una parabola comportamentale, un declino delle sicurezze umane, che risulta attualissimo ancora oggi. 

Da un punto di vista di montaggio il film non esorbita rispetto all'impostazione classica del film, ma non si sente neanche la necessità di strafare. Tutto è perfettamente controllato e preciso, così come i piani dei due personaggi principali, tutti intenti a costruire una rete di inganni e tradimenti. Conseguentemente lo spettatore è catturato dalla bellezza delle immagini (a tratti così ben composte da sembrare quadri), si immedesima nei personaggi e rimane come imbrigliato in un sistema di inquadrature che non gli lascia scampo. 
Anche qui, tutto cambia nella scena finale: come Glenn Close anche il montaggio si perturba, modificandosi per permetterci di cogliere nient'altro che il viso statuario e sconfitto di una donna che ha perso la sua battaglia.

Probabilmente uno dei film più narrativi che abbia mai visto, uno di quelli che ricerca meno (almeno in senso esplicito) una sua propria collocazione nel panorama estetico eppure (con mia grande sorpresa) uno dei migliori esempi di come un film di genere possa diventare un oggetto degno della massima considerazione.

VOTO: 9/10