mercoledì 18 dicembre 2013

Ken Park



Ken Park di Larry Clark e Edward Lachman - Genere: drammatico - USA, Olanda, Francia, 2002

Larry Clark è senza dubbio una personalità interessante, anche se non si può certo ritenerlo un regista di quelli che si vedono raramente. Intendiamoci, i suoi film sono interessanti e questo Ken Park conferma l'impressione positiva che avevo avuto guardando Kids, di cui il film del 2002 sviluppa le tematiche in chiave più complessa e intimistica. Ma siamo lontani da livelli di alta cinematografia: devo ammettere che il motivo principale per cui mi sono interessato alle opere di Clark deriva dal fatto che in esse è chiaramente leggibile una contaminazione con Van Sant e Korinne, cosa confermata dal fatto che entrambi hanno collaborato alle sue produzioni. Rimane da chiarire il senso di questa relazione, ma non è questa la sede per fare un'indagine di questo genere.

Sta di fatto che Clark, utilizzando stilemi già messi a punto nel precedente Kids e attingendo a un bagaglio tipicamente vansantiano (l'attenzione ai giovani, l'utilizzo di immagini eterogenee rispetto al flusso cinematografico propriamente detto, lo skate-park come messa in forma del dinamogramma etc.), confeziona un'opera interessante e connotata da uno stile più materico e terroso. Se van Sant sublima le sue narrazioni su un registro che sconfina spesso nella metafisica (Elephant e Gerry) o mette in crisi categorie epistemologico-estetiche consolidate (Psycho) il tocco di Clark si percepisce in un'attenzione ai corpi e alle loro forme, su cui la macchina da presa sapiente, affinata nell'esperienza del regista come fotografo, si posa con attenzione fin troppo evidente.

A Clark interessano allora le forme del corpo e le sue derivazioni, che vengono analizzate con estremo realismo senza fare sconti all'evidenza fenomenica delle cose. Il legame fra eros e thanatos viene indagato senza alcun tipo di censura, con il risultato che molte sequenze di Ken Park risultano sessualmente esplicite e - forse - non adatte a qualsiasi pubblico (il film è stato vietato in alcuni paesi e non saprei dire se sia stato effettivamente distribuito in Italia). Anche se a tratti il procedere di Clark si fa prevedibile, soprattutto nelle ultimissime battute del film, Ken Park rimane un film assolutamente valido, discreto da un punto di vista tecnico ma che si lascia guardare con piacere, purché si sia disposti ad un approccio anti-idealistico alla verità dei corpi (splendidi i personaggi dei due anziani signori, rappresentati con grande caratterizzazione fisiognomica e piscologica, come quello del padre di Claude, il cui unico difetto è forse quello di essere troppo standardizzato). 

VOTO: 7/10 

giovedì 14 novembre 2013

Dillinger è morto

























Dillinger è morto di Marco Ferreri - Genere: drammatico - Italia, 1969
 
Adriano Aprà lo ha definito efficacemente il film della mia generazione ed in effetti il Dillinger di Marco Ferreri è senza dubbio una pietra miliare del cinema italiano e non solo. Accolto con entusiasmo dai Cahier e sistematicamente ostracizzato dalla grande distribuzione/trasmissione (rarissime volte è stato proposto in televisione) il lavoro di Ferreri è l'epitome di un nuovo modo di fare cinema, che sovverte nelle sue strutture fondamentali tutta la produzione precedente. In questo profondo rinnovamento delle strutture narrative e stilistiche della cinematografia pre-esistente l'opera di Ferreri viene spesso accostata, anche per alcune vicinanze di pensiero, a quella di Pasolini, forse non completamente a torto.
 
Dillinger è un film che sembrerebbe essere frutto del caso, come se la macchina da presa del regista si fosse trovata per errore a seguire il peregrinare notturno di un anonimo ingegnere industriale splendidamente interpretato da Michel Piccoli. Così la lunga attenzione che viene riservata alla preparazione della cena, oltre a prefigurare un interesse per il cibo che si connette puntualmente alla tematica della morte e dell'eros (cosa che sarà quantomai evidente ne La grande abbuffata), è rappresentata con una tale attenzione al dettaglio non funzionale che finisce con il risultare volutamente noiosa. Dopotutto, a chi interessa vedere la vita casalinga di una persona come le altre? Basta quest'idea di base a far tremare dalle fondamenta quel cinema dell'eroismo e dello spettacolo su cui Hollywood aveva costruito la sua retorica.
 
Così Dillinger è morto è un film che fa della manchevolezza narrativa il proprio cavallo di battaglia, tanto che la cosiddetta trama potrebbe essere riassunta in uno spazio minimo senza alcuna perdita dal punto di vista dell'intelleggibilità dell'immagine. Anche il linguaggio utilizzato è semplice, come se il regista volesse creare un'uniformità fra il suo film e quei video amatoriali che il protagonista guarda seduto in poltrona, mentre conclude la sua vera ricetta, che non consiste nella preparazione della cena ma nel "restauro" di una vecchia pistola, trovata avvolta in una pagina di giornale che recava notizia della morte proprio di John Dillinger (da qui il senso del titolo).
 
E' proprio nel rapporto con le immagini proiettate (e quindi, da un punto di vista meta-artistico, con il cinema), che il protagonista perde sé stesso, rendendosi conto di quale sia la sua condizione e decidendo di perdersi per sempre in quel mare di rappresentazioni illusorie. Per cercare di sfuggire alla vacuità routinaria della sua esistenza (da una nausea di sapore sartriano) alfine, in un ultimo quanto amaro slancio vitalistico, ucciderà la moglie, vista come concrezione materiale di quell'opprimente condizione. Ma dopo che il Nostro, imbarcatosi su una nave come cuoco, vede il cielo tingersi di rosso, lo svelamento della finzionalità dell'immagine rende lo spettatore consapevole che non c'è scampo all'umana condizione.
 
Dillinger è quindi un capolavoro di drammaticità, che sperimenta nuovi stilemi del linguaggio cinematografico entro una cornice narrativa quantomai debole, tratteggiando un tipo umano dai toni quasi sveviani, ripreso seppure in forma fortemente mutata, da altri personaggi coevi o successivi. Che cos'è il Fantozzi del 1975, se non una versione amaramente comica e forse più disillusa dell'individuo disegnato da Ferreri?
 
VOTO: 10/10 

martedì 12 novembre 2013

Alta Tensione


Alta Tensione di Alexandre Aja - Genere: horror - Francia, 2003

Considerando che High Tension era stato classificato da un noto sito di cultura contemporanea come uno dei cinquanta film più disturbanti della storia del cinema, devo ammettere che le mie aspettative erano piuttosto alte. In realtà il lavoro di Alexandre Aja, che ha firmato dopo questo film anche il remake de Le colline hanno gli occhi e il discutibilissimo Piranha 3D, a parte per alcuni aspetti che lo salvano almeno parzialmente, si rivela sin da subito piuttosto deludente. In effetti è possibile scorgere nella struttura della narrazione e nello stile di messa in scena dei dettagli che richiamano da una parte le atmosfere sporche e terrose tipiche di un certo slasher americano perfettamente rappresentato dal remake firmato da Nispel (e uscito proprio nel 2003) di Non aprite quella porta e dall'altra, soprattutto per un certo uso della fotografia e del colore, alcune ben più riuscite pellicole francesi come Martyrs di Pascal Laugier e A l'intèrieur di Bustillo e Maruy.

Se però i due film citati avevano degli indubbi meriti tecnici che sembrano per certi aspetti poter far parlare dell'emersione di un nuovo stile di genere nell'alveo del cinema francese, la presenza di elementi americaneggianti nella pellicola di Aja rende il procedere di Alta Tensione una semplice e prevedibile ripetizione di un canovaccio ormai trito e ritrito. E' pur vero che ci sono alcune modifiche attinte da altri titoli del genere che complessificano almeno in parte la semplicità del prodotto standard del genere, ma la scarsa innovazione che il regista propone nel mixare insieme questi elementi non può passare inosservata. Anche il finale a sorpresa, con ribaltamento percettivo e chiari risvolti psicanalitici è ben lontano dallo riuscire a convincere lo spettatore e, anzi, non fa altro che rivelare dei nodi scoperti all'interno dell'edificio filmico di Aja. 

Forse la volontà di strafare, cercando a tutti i costi di proporre un film che fosse in qualche modo innovativo ha spinto il regista troppo in là. A questo punto sarebbe stato preferibile un lavoro di puro intrattenimento che, pur senza eccellere nel suo genere, avrebbe soddisfatto senza dubbio l'obiettivo minimo di divertire lo spettatore disimpegnato. Il rischio di prendersi troppo sul serio finisce spesso, come succede in questo caso, colo portare a un lavoro approssimativo e di mediocre fattura, che si salva solamente da un punto di vista visivo per l'ottima scelta dei colori e di alcune inquadrature, elementi che mi hanno reso ancora più convinto delle buone possibilità (tutte potenziali) di questo lavoro (si veda ad esempio il modo in cui Aja rappresenta i corpi dei personaggi principali che, ancor prima di esse uccisi, sono avvolti da una luce mortifera che sembra farne prevedere il destino).

VOTO: 4.50/10 

domenica 10 novembre 2013

Kids



Kids di Larry Clark - Genere: drammatico - USA, 1995

Gli anni Novanta sono stati caratterizzati per larga parte da una nevrosi collettiva derivante dallo spauracchio dell'AIDS, come testimoniano egregiamente i numerosi documenti visuali e non solo dell'epoca. Entro questa cornice di riferimento sono letteralmente fioriti, anche sull'onda delle tematiche postmoderniste e poststrutturaliste, dei gender studies e di molti altri importanti filoni di ricerca, tutta una serie di realizzazioni artistiche che mettono al centro della loro indagine l'adolescenza come momento di passaggio e metamorfosi fisica e psicologica. Altri, come Gus van Sant, hanno cominciato ad indagare la figura dell'adolescente come un'entità non determinata, aperta alle possibilità della scrittura storica ma spesso condannata a non poter passare dalla potenza all'atto a causa di un destino incombente che l'occhio registico si limita a testimoniare. 

Kids, in concorso al 48° Festival di Cannes, fonde perfettamente queste linee di ricerca in un'opera visivamente violenta ma grandemente oggettiva, pur nei limiti concessi dal discorso filmico di stampo narrativo. Il regista Larry Clark, fotografo di professione, regala alle sue immagini un'aria solida e persistente; lo stile spesso impreciso e comunque ben lontano da una retorica della perfetta trasparenza rende la regia più simile a una documentazione che a una finzione: è come se lo spettatore si ritrovasse invischiato nel sottobosco sporco e brulicante della metropoli americana anni Novanta, all'interno della subcultura giovanile così spesso ritratta in maniera stereotipata dal medium televisivo. La ricerca visiva di Clark si sposa quindi in maniera perfetta con lo stile lirico di van Sant (produttore della pellicola) e trova un terreno fertile nella sceneggiatura scritta da Harmony Korine (di cui non si può non ricordare il ben più violento Gummo, primo lungometraggio del regista datato 1997, che sicuramente ha tratto un'ispirazione esasperata da questo lavoro di Clark). 

Il mondo di Kids è straniante, defamiliarizzante. L'immagine dei corpi dei protagonisti ci sconvolge anche oggi, a quasi dieci anni di distanza, in una società fortemente cambiata, perché quegli organismi oggettivamente sessuati (Clark disegna, seppure in maniera molto scolastica e autocensurata, scene di sesso abbastanza realistiche) appaiono non strutturalmente pronti all'atto che nonostante tutto stanno compiendo. Il fisico di Telly è asciutto, innaturalmente allungato, probabilmente frutto di una crescita non regolare e sembra che ad ogni movimento dell'atto di penetrazione la sua schiena si possa spezzare. 

Ma il grande lascito di Kids, proprio a partire dalla lezione vansantiana, è l'idea di una oscura causalità casuale che agisce a discapito delle intenzioni e dei progetti dei protagonisti. Così, quando Telly afferma di non poter vivere senza pensare e fare sesso, lo spettatore percepisce la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte a un defunto perché - a quel punto della storia - sa già quale sarà il suo destino e quello della ragazza che - inconsapevolmente e presumibilmente - ha appena infettato. In definitiva Kids racconta una dialettica interessante e vera fra il sesso visto come una ludica attività senza conseguente e il terrore giustificato ma almeno parzialmente condizionato dal discorso mediatico per l'AIDS, entro una prospettiva fortemente condizionata dall'epoca di realizzazione.

VOTO: 6.50/10 

giovedì 7 novembre 2013

Halloween: The Beginning



Halloween: The Beginning di Rob Zombie - Genere: horror - USA, 2007

Il remake è una strategia di rilancio ampiamente utilizzata all'interno del cinema di genere, soprattutto horror. Volendo tracciare un panorama generale che racchiuda gli ultimi 10-20 anni di cinema, potremmo facilmente trovare un minimo comune denominatore proprio nel ricorso continuo a questa forma di riscrittura che si è consolidata in forme ampiamente codificate insieme al remake. Eppure il film di Rob Zombie, pur all'interno di un panorama definito in maniera fin troppo archetipica, si ritaglia un proprio spazio di originalità e fa in modo che la sua produzione si distanzi dalla maggior parte di queste lavorazioni. 

Se dovessimo trovare un termine adatto a definire Halloween: The Beginning potremmo probabilmente parlare di antologia. Infatti Zombie confeziona un'opera che ha lo scopo primario di riabilitare l'immagine di Michael Mayers dopo le performance piuttosto scadenti degli episodi precedenti della saga (parliamo in particolare di Halloween: 20 anni dopo e Halloween: La Resurrezione), regalandoci un film che attinge a singoli episodi o movenze archetipiche dai film precedenti. Questo significa che Zombie, pur mantenendosi all'interno di uno stile pop e fortemente truculento, regala al pubblico un'opera in qualche misura innovativa che - almeno per questo motivo - merita senza dubbio un qualche tipo di riconoscimento. 

Fatta questa doverosa premessa dobbiamo però riconoscere che il film di Zombie è decisamente al di sotto di qualsiasi aspettativa, anche accantonando il fatto che non si tratta di un remake fede dell'opera (geniale per l'epoca) di Carpenter. La cosa è particolarmente evidente se si considera la sequenza iniziale, quella con il celeberrimo omicidio multiplo dei suo familiari da parte di Micahel Mayers. Anche se il regista decide saggiamente di non confrontarsi con l'immagine carpentierana per eccellenza (cioè la lunga soggettiva di Michael mascherato), tutta la sequenza - dilatata oltre il limite massimo di sopportazione - è infarcita di una retorica di buoni sentimenti e ambisce a una descrizione psicologica stereotipata che Carpenter aveva cassato in toto ed era riuscito a compendiare in poche semplici inquadrature.  

Il lacrimevole racconto del rapporto fra Michel e la madre fa parte di un registro altro, che non solo sembra del tutto alieno al personaggio che il regista vorrebbe riedificare (Mayers è il personaggio del silenzio per eccellenza), ma pare non essere in linea neanche con lo stile dello stesso Zombie, che in un film molto più riuscito come Le Streghe di Salem non indulge mai in questi sentimentalismi. Per il resto siamo di fronte a uno stile piuttosto accademico che utilizza il noto accompagnamento musicale del film in maniera assai prevedibile, così come accade per la fotografia (salvata solo dai colori a tratti interessanti) e per il montaggio. Fra i personaggi assume un'inedita rilevanza il Dr. Loomis, antagonista di Michael per eccellenza, ben interpretato da Malcom Mc Dowell.

Nel complesso si tratta di un'opera idealmente molto interessante per la sua inedita modalità di rapporto con il materiale filmico di base, ma che scade in una serie di errori concettuali e formali che ne minano profondamente la potenziale qualità. Su questo film ho letto numerose critiche di qualsiasi genere, dalle più negative a quelle accecate da una passione per il genere che impedisce una serena valutazione delle immagini. A mio giudizio rimane un film che, seppure con qualche trovata gradevole - in linea con lo stile sporco e disturbante di Zombie (che, comunque, rimane un musicista prima che un cineasta) -, finisce col prendersi troppo sul serio, a fronte di una natura eminentemente ludica. 

VOTO: 4.50/10 

mercoledì 6 novembre 2013

Zelig



Zelig di Woody Allen - Genere: commedia - USA, 1983

Zelig è un film che potrebbe apparire esteriormente atipico all'interno della prima produzione alleniana, essendo un film di completa finzione che decide di vestire i panni del documentario. L'intera vicenda raccontata nella pellicola il cui nome ha avuto una fortuna particolarmente pronunciata proprio in Italia, è completamente frutto d'invenzione ma, nonostante questo, il modo in cui è stata girata e la sottile preziosità dell'intarsio strutturale, la rende credibilmente simile a un documentario sugli anni Trenta in America. All'interno di questa cornice oggettivante che si incarna in uno sguardo distaccato privilegiante (falsi) materiali di repertorio, interviste e inserti successivi, trova spazio una classica storia alleniana, che in questo caso viene proposta allo spettatore in una forma in sé conclusa e successiva allo svolgersi dei fatti. In qualche modo Zelig ricostruisce la storia del suo omonimo protagonista come Welles aveva fatto in Quarto potere, ma lo fa in un modo evidentemente più vicino alla sensibilità medializzata degli anni Ottanta.

Utilizzando un'apparecchiatura di ripresa d'epoca (risalente all'incirca agli anni Venti), Allen infonde nelle sue immagini quello spirito discontinuo, impreciso e a tratti tremolante che le produzioni cinematografiche avevano davvero all'epoca. Pur travestendo (in maniera signifcativamente camaleontica, visto che l'intero film è basato sul meccanismo della metamorfosi) da documento reale, il film esaspera fino al parossismo quella sensazione di incredulità che un certo cinema ha sempre cercato di evitare; possiamo certamente apprestarci a vedere un film d'intrattenimento consci e consapevoli della sua natura finzionale, ma Zelig pur ricordandocelo, finisce con l'impedircelo. La patina di realtà imbastita da Allen è da una parte formalmente credibile ma dall'altra gli elementi di comicità la minano dall'interno, facendo saltare (dialetticamente) la sospensione dell'incredulità nello spettatore.

Lo sviluppo di questo docu-film procede quindi per accumulo (seppure all'interno di una linea narrativa che privilegia il racconto cronachistico/cronologico della vita di Zelig) di materiali eterogenei, tanto che ad un certo punto Allen arriva a fingere l'esistenza di un film dedicato al suo personaggio, che sarebbe stato girato nel giro di anni immediatamente successivo agli eventi, in pieno stile classico con tanto di eroi e spauracchio nazista. Il tutto viene finemente impreziosito dalla presenza di illustri studiosi della contemporaneità, come Susan Sontag, che si sono prestati a ricostruire in maniera del tutto fittizia un edificio speculativo sulla vita mai avvenuta di Zelig, a sottolineare ancora una volta come questo personaggio profondamente alleniano sia prima di tutto profondamente umano.

VOTO: 7.50/10 

martedì 5 novembre 2013

In the woods



In the woods di Angelos Frantzis - Genere: drammatico - Grecia, 2010

Esistono in qualsiasi campo della creazione artistica dei prodotti che non sono tanto interessanti per quello che dicono, ma per il modo in cui si propongono. Nel caso del cinema questo è particolarmente vero e non è difficile rintracciare, soprattutto in alcuni periodi storici, delle lavorazioni sperimentali - spesso condotte da grandi artisti (basti pensare a Marcel Duchamp o Andy Warhol, per citare due mostri sacri dell'arte contemporanea) - che si lasciano ricordare per il discorso sul linguaggio che propongono al pubblico. Al riguardo è bene sottolineare due problematicità: da una parte il pubblico d'elezione di queste fatiche più o meno riuscite è troppo spesso di nicchia e dall'altra è sempre più difficile trovare questa tipologia di prodotti, anche ricorrendo a mezzi di ricerca potenti come quelli offerti dalla rete.

In the woods è un "film" che si inserisce proprio all'interno di questo filone, proponendoci una sinfonia di immagini dal sapore impressionista che è caratterizzata da uno stile lirico ed evocativo nel quale la parte del leone la fa senza dubbio il paesaggio. I tre protagonisti risultano come risucchiati da un ambiente incontaminato e dalla memoria quasi edenica che ne risucchia le azioni; spesso le inquadrature presentano i personaggi fuori fuoco, proprio a vantaggio della rappresentazione di una rigogliosa ambientazione boschivo-vegetale, quasi come se quest'ultima divenisse a sua volta un personaggio, ritagliandosi prepotentemente il proprio spazio visivo. 

In generale In the woods è un lavoro atipico anche se non senza precedenti (in particolare sembra ricollegarsi per molti versi al più volte citato ma comunque splendido Gerry, del quale però non mutua le tinte apocalittiche e il paesaggismo desertificato), che evidenzia in maniera chiara le implicazioni di una scelta estetica spinta fino al parossismo. I dialoghi sono ridotti al minimo, le interazioni fra i personaggi sono spesso vuote e molto più frequentemente avvengono per tramite gestuale o visivo. Frantzis abbandona completamente la ricerca della narrazione a favore di una forma quasi antologica, che si costruisce affastellando aneddoti apparentemente irrelati, separati a volte da dei veri e propri stacchi in nero (stilemi ripresi dalla poetica di Kiarostami?). Conseguenza ultima di questo processo è un lavoro fortemente frammentario che sfrutta tempi dilatati e non comuni al cinema contemporaneo. 

Il grande problema (o, sarebbe meglio dire, l'interrogativo) sollevato da un prodotto come In the woods deriva dalla sua natura complessiva. La scelta apprezzabile di Frantzis di perseguire una sperimentazione pertinace rinunciando ai vezzi convenzionali della cinematografia attuale si traduce purtroppo in un film lento e slegato da qualsiasi concetto di riferimento. Scegliendo di sfondare il baluardo della forma eretto da Gerry realizzando un'opera così estrema, in cui delle riprese belle ma quasi amatoriali arrivano a far dubitare a volte delle convinzioni estetiche dell'autore, forse Frantzis ha compiuto un passo eccessivo. 

Senza dubbio rimangono nella memoria alcune immagini di splendida fattura e non si può non dare atto al regista di aver tracciato una dinamica delle relazioni approfondita ed esplicita rinunciando a qualsiasi forma di aneddoticità. Rimane comunque difficile formulare un giudizio complessivo in merito; senza dubbio si tratta di un film che si ama o si odia. Io, per quanto non mi ritenga un consumatore cinematografico particolarmente commerciale, non posso fare a meno di percepire una certa incompletezza.

VOTO: 6.50/10 

lunedì 4 novembre 2013

Perfect Blue



Perfect Blue di Satoshi Kon - Genere: animazione - Giappone, 1988

Il 1988 è senza dubbio l'anno di grazia per l'animazione giapponese, il momento in cui una forma cinematografica e/o televisiva come l'anime supera per la prima volta in maniera consistente le barriere geografiche e politiche e trova un concreto diritto di cittadinanza sul mercato occidentale. A questo rinnovamento, di importanza storica capitale per gli sviluppi successivi del cinema d'animazione e non, hanno concorso senza dubbio il meraviglioso Akira di Katsushiro Otomo e il particolarissimo Perfect Blue, di genere completamente diverso ma non per questo meno ricercato sotto molti punti di vista. Il grande pregio di questi prodotti sta nell'aver fatto capire per la prima volta come un certo cinema di animazione possa e debba rientrare all'interno dei canoni della settima arte, uscendo dal limbo indistinto in cui - purtroppo - ancora oggi è da molti collocato.

Cosa più unica che rara, anche attualmente, Perfect Blue è - da un punto di vista narrativo - la traduzione animata di quello che potrebbe essere considerato un ottimo film thriller a tinte psicologiche. Il paragone non deve sembrare azzardato, dal momento che il film pullula di riferimenti al genere e in particolare a Il silenzio degli innocenti che all'epoca non esisteva ancora come film (la pellicola con Hopkins è del 1991), ma si potrebbe ritenere che Satoshi Kon possa aver conosciuto il romanzo di Harris (uscito proprio nell'88). Entro una cornice narrativa fortemente connotata, si inserisce - dopo un' ouverture piuttosto prevedibile - il personalissimo stile del regista che ricorda per molti aspetti quello di David Lynch, soprattutto per il taglio delle inquadrature e per un certo gusto nei confronti del dettaglio quotidiano riletto in chiave perturbante . In aggiunta è sorprendente notare come il progressivo frantumarsi della linearità narrativa a favore di una struttura irregolare assimilabile per certi tratti a un nastro di Moebius, paia preludere alle più celebri realizzazioni del cineasta americano (Strade perdute su tutti). 

Il lavoro di Kon mette al centro, con uno sguardo pionieristico su una società ancora non lobotomizzata dall'imperversare della medialità digitale, le conseguenze che lo strapotere dell'immagine televisiva e più in generale mediata ha sullo statuto delle rappresentazioni. Così la storia della protagonista rimane lungamente sospesa e lo spettatore non riesce a comprendere i motivi per cui la sua immagine (unica vera dimensione di esistenza?) pare aver preso corpo e aver cominciato a godere di un diritto di cittadinanza esclusivo. La risoluzione conclusiva dell'enigma che sostanzia la narrazione è ben lungi dall'avere una natura puramente conciliante: le problematiche sollevate dalla visione di Perfect Blue, soprattutto per uno spettatore attuale, rimangono attualissime e hanno delle implicazioni etiche che è difficile sottovalutare. 

Perfect Blue è un film narrativamente piacevole, molto interessante sotto il profilo ideale e contenutistico che - se confrontato con il coevo Akira - denuncia però una qualità disegnativa non certo delle migliori. Il grande lascito di questo lavoro (fra gli altri) sta però proprio nella sua capacità di affermare con forza la propria natura cinematografica, anche a fronte della presenza della tecnica d'animazione.

VOTO: 7/10 

domenica 3 novembre 2013

Videodrome



Videodrome di David Cronenberg - Genere: thriller/fantascienza - Canada, 1983

Cronenberg è senza dubbio il maggior interprete cinematografico della fenomenologia del corpo postmoderno,  il corpo mutato e modificato che ha perso parzialmente o del tutto la propria matrice biologica a favore di una natura ibrida e mutevole. Quasi dieci anni prima del difficile e già recensito Il pasto nudo e con una potenza visiva molto maggiore, Videodrome indaga non tanto il rapporto fra uomo e tecnologia (come capita di leggere molto spesso), quanto più lo statuto dell'immagine televisiva e - in seconda battuta - di quella cinematografica. Nel pieno di quell'età postmoderna che gli anni Ottanta stavano solo cominciando a prefigurare, l'opera di Cronenberg assume tutto il valore di un monito inascoltato o di una possibile evoluzione dello statuto di realtà delle immagini. 

L'uomo cronenbergeano non è più il flaneur alle soglie della nevrosi visiva descritto da Baudelaire, ma si traduce in un'entità indistinta che si perde - al pari del suo illustre predecessore - in un territorio fluido e indistinto in cui non è più possibile distinguere la finzione dalla realtà e tutte le categorie di riferimento risultano inefficaci. Così i personaggi di Videodrome vivono fisicamente in funzione del medium televisivo, che molto spesso li introduce alla nostra vista, condizionando profondamente anche la dinamica del linguaggio filmico; così una figura basilare come il campo-controcampo, pur mantenendo la sua funzione eminentemente dialogica, si trova cambiata di segno e si svolge spesso fra un'individuo e il televisore. Un esempio calzante di questo meccanismo, che scardina il meccanismo del dialogo introducendo un discrimine diacronico all'interno della relazione, è dato dai nastri che il prof. O'Blivion invia al protagonista. Al di là del nome particolarmente significativo del personaggio in questione, è interessante notare come le movenze argomentative del semiologo siano fondamentalmente diverse rispetto a quelle del contatto vis-à-vis e risultino pesantemente condizionate dalla presenza di uno schermo (in questo caso reale ma, soprattutto, ideale). 

Il Videodrome che regala il titolo a quest'opera di Cronenberg è quindi essenzialmente un dispositivo di controllo e comunicazione che, a fronte di un particolare tipo di segnale (e - potremmo dire - di linguaggio), agisce sulla struttura dell'individuo, modificandola. Questo non può non rendere manifesto il collegamento già suggerito al corpo modificato, ibridato dalla tecnologia, che rendere l'uomo simile ad un automa. In un processo di progressiva metamorfosi che si origina dalla presa di coscienza di una frattura percettiva sempre più grave, il destino ultimo degli individui cronenbergeani sembra riconducibile a quello della ben nota Creatura del Frankenstein di Mary Shelley, o almeno all'immagine che un certo cinema ne ha dato. La versione proposta sul grande schermo da Boris Karloff e dai prosecutori (certamente non filologicamente corretta) in effetti punta fortemente l'accento sulla meccanicizzazione del corpo e sulla dipendenza mentale del Mostro da una volontà di ordine superiore. 

Nell'ottica di Cronenberg non c'è più distinzione, nel panorama contemporaneo, fra reale ed artificiale, biologico e meccanico, così com'è andato progressivamente assottigliandosi il discrimine che separava la verità dall'illusione mediale ricostruita. Nei nuovi non-luoghi dell'anestetizzazione senza scopo l'uomo diventa il nodo di una rete di interscambio che lo assorbe modificandone profondamente gli schemi percettivi. Che questo modus vivendi, possa un giorno condurre ad una nuova evoluzione del corpo fisico, come sembra essere suggerito dal Videdrome?
VOTO: 9/10 

giovedì 31 ottobre 2013

Benny's Video



Benny's Video di Michael Haneke - Genere: drammatico - Austria, Svizzera, 1992

Un film glaciale, che si apre e si chiude con un inserto in presa diretta girato con una camera a mano (?) in modo amatoriale e impreciso. Tutto è sospeso e contenuto entro questi due momenti, che diventano la chiave di lettura e di interpretazione dell'intera - bellissima - pellicola di Haneke, forse più celebre per l'ugualmente ben fatto Funny games. Con uno spirito indagatore, il giovane Benny, filma l'uccisione di un maiale e la sua agonia dopo aver ricevuto il colpo: il suo sguardo si fa portatore di un'indagine morbosa, tradotta formalmente con l'osservazione attenta del volto dell'animale contorto negli ultimi spasimi.
 
L'immagine, piantatasi solidamente nel suo immaginario, inaugura una nuova consapevolezza nel protagonista che, moderno flaneur senza interesse ne consapevolezza, vive guardando le immagini sullo schermo. La sua intera esistenza è in effetti mediata e anzi sostituita dall'artificialità di ciò che viene mostrato dalla televisione, dalle cassette della videoteca o da lui stesso. Anche il panorama al di fuori della sua finestra non esiste in quanto tale, ma solo attraverso la mediazione di un apparecchio di registrazione in diretta, che trasmette su uno schermo le immagini riprese in piano-sequenza del mondo esterno, che così facendo si qualifica come entità completamente separata e inattingibile.
 
Tutto ciò che di significante avviene all'interno della pellicola ha in effetti una natura fortemente mediata, tanto da farci dubitare che ne esista un corrispettivo reale. La stessa uccisione della ragazza, annomima copratogonista di questa vicenda a tratti quasi onirica, viene mostrata in fuori campo proprio su quella televisione che costituisce l'unico elemento di conginunzione fra Benny e il mondo esterno. In questo drammatico disegno esistenziale in cui (a differenza di molti altri commentatori) non vedo una vena di critica sociale alla condizione della gioventù contemporanea, lo spettatore si trova costantemente sospeso fra lo sviluppo di una diegesi particolarmente debole e la rottura di ogni impressione di continuità grazie al costante intervento di frammenti di grana diversa, che costringono chi guarda a ritrovarsi nella stessa condizione gnoseologica del protagonista.
 
Nel complesso un film violento, interessante e formalmente molto ben fatto che meriterebbe di ricevere una maggiore attenzione di pubblico e di critica (almeno, di una certa parte). E' senza dubbio possibile leggere fra le righe un accenno di critica all'alienazione dell'adolescenza assorbita dal flusso anestetizzante delle immagini, ma credo che eleggere questo paradigma di lettura a chiave interpretativa generale dell'intera opera ne riduca fortemente le possibilità e ne faccia purtroppo dimenticare le felici trovate formali (fra cui, vale almeno la pena di ricordare in extremis il ricorso al riavvolgimento dell'immagine registrate che - si ricorderà - trova la sua massima espressione proprio in Funny Games).
 
VOTO: 8/10

martedì 29 ottobre 2013

Alps



Alps di Yorgos Lanthimos - Genere: drammatico - Grecia, 2011

Il film rivelazione che ha lanciato Lanthimos nel mondo del grande cinema, il pluripremiato Dogtooth, rimane senza dubbio il suo capolavoro. Nell'attesa di poter vedere il suo annunciato The Lobster, il qui presente Alps rappresenta un piacevolissimo intermezzo, ben realizzato ma a mio avviso non all'altezza del suo predecessore. Il cambio di tematiche e - almeno in parte - di poetica, pone infatti questo film su un piano diverso rispetto al lavoro precedente del regista che - come si ricorderà - proponeva una cruda esasperazione degli stereotipi borghesi di vontrieriana memoria, accompagnata da una riflessione sul linguaggio che deve senza dubbio avere affascinato Athina Rachel Tsangari (qui accoppiato a Lanthimos nel ruolo di produttore). 

Alps è un film stilisticamente molto gradevole che, per tutta la prima parte, gioca sullo sbalestramento percettivo dello spettatore, perso in una successione mal coordinata di apparizioni. Col procedere della vicenda (o, sarebbe forse meglio dire, delle vicende?) la situazione si chiarifica e la potenza teorica del lavoro di Lanthimos si mostra chiaramente: i suoi personaggi diventano allora delle "apparizioni" nel senso berkeleyano del termine, nel senso che esistono "a intermittenza" all'interno di un sistema di ruoli altamente codificato. Il meccanismo che sta alla base di questo processo concretizza la celebre teoria del "complesso della mummia", secondo cui la fotografia, il cinema e gli altri meccanismi di riproduzione del reale assolverebbero in ultima analisi una funzione di conservazione a beneficio dei posteri, preservando dalla disintegrazione la memoria di un allora che non è più e la cui rimemorazione viene affidata a un simulacro materiale. 

L'opera consolatoria che i protagonisti, quasi tele bianche su cui le circostanze inscrivono le definizioni caratteriali che li rendono personaggi, mettono in opera dietro compenso assume quindi una funzione assimilabile a questo orizzonte. Ciò non può non suggerire allo spettatore che dietro al discorso di Lanthimos si nasconda un "messaggio" metacinematografico, che proprio queste caratteristiche delle arti visive (e del cinema in particolare), si propone di indagare. La cortocircuitazione che si consuma fra reale e immaginario assume sempre più le forme di una caduta in cui le parti e i ruoli si fanno progressivamente più confusi ed entro cui, alla fine, non è più possibile distinguere quale sia la realtà rispetto alla quale si costruisce il "gioco delle maschere". In altre parole, qual'è la vera vita che la protagonista si è scelta (semmai questa definizione potesse essere valida)? Potremmo essere portati a credere che sia quella di placida infermiera che vive con il padre? Certamente sì, eppure il brevissimo brano in cui lei cerca di indagare il sesso del padre non può lasciarci indifferenti, non può non aprire uno spiraglio di dubbio nelle poche certezze che avevamo ricavato.

Lanthimos realizza un film che non ha in definitiva senso nell'accezione classica del termine. Senza progressione narrativa né caratterizzazione dei personaggi, che alla fine non possiamo neppure più definire tali, rimane "soltanto" un prodotto magistralmente realizzato e in cui regna sovrana la confusione dei ruoli e del senso di realtà che, in modo molto più consapevole di quanto non accada altrove, viene definitivamente messo in crisi.

VOTO: 8.50/10

venerdì 25 ottobre 2013

Attenberg



Attenberg di Athina Rachel Tsangari - Genere: drammatico - Grecia, 2010

 
Presentato alla sessantasettesima Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto (meritatamente) la Coppa Volpi e scelto per rappresentare la Grecia agli Academy Awards del 2012, Attenberg è un film complesso, profondamente contemporaneo e contraddistinto da una ricerca espressiva che si manifesta tramite una notevole politezza di esecuzione. La semplicità rimane dunque la qualità principe di un lavoro particolarissimo che, richiamandosi in maniera piuttosto diretta alle felici realizzazioni di Giorgos Lanthimos (e a Dogtooth in particolare), accompagna in maniera quasi impersonale una diegesi che è ridotta al minimo: la vicenda è semplice e lineare e anche i personaggi coinvolti nel suo sviluppo sono pochissimi; questa rinuncia alla componente patetico-rappresentativa diventa anche qui come altrove la condizione necessaria ad un'indagine più attenta di altri aspetti, più formali che narrativi.
 

L'influenza di Lanthimos, co-produttore del film e addirittura attore nel ruolo di un ingegnere, si percepisce con chiara evidenza nelle due tematiche più importanti dell'intera pellicola, vale a dire il trattamento del paesaggio e - soprattutto - il problema del linguaggio. Come si è già avuto modo di accennare, Attenberg è un film dai toni mininalisti, che fa muovere i suoi - pochi - personaggi  (ma sono davvero tali? Cosa sappiamo di loro?) in un universo spoglio o comunque disabitato. Non ci sono che presenze fantasmatiche nella Grecia di Tsangari, che riprende qui il gusto per gli interni asettici che è proprio di Lanthimos. Anche i pochi individui che fanno da contorno allo sviluppo della narrazione non mutano la realtà dei fatti e il loro passaggio finisce con il rassomigliare a quello delle comete, che attraversano i cieli pur senza mutarne la natura. Anche da un punto di vista visivo la loro presenza si caratterizza per una divisione, essendo sempre divisa da quella delle due protagoniste da un medium (una strada, un vetro etc.), che rende impossibile la comunicazione e il rapporto.
 
Questo ci permette di introdurre la problematica - anche questa volta innegabilmente mutuata da Dogtooth - del linguaggio. Anche se Tsangari non raggiunge i livelli del suo co-produttore nella dissoluzione delle nozioni linguisticamente fondamentali di senso e riferimento, l'attenzione alla parola e al suo potere viene studiata sin dai primi minuti di Attenberg, fondendosi spesso con una attenzione tutta particolare alla sessualità e ai termini che la definiscono. Il punto di massimo di questa ricerca è raccolto nella scena in cui Marina e il padre, seduti su un letto matrimoniale (entro una camera bianchissima!), pronunciano una serie di parole dal suono molto simile, dando il via ad una catena che preso sconfina nell'imitazione del verso animale, fino a far diventare il loro gioco una vera e propria pantomima tutta votata alla mimesi del non umano. E' questo il destino del linguaggio o, forse, la sua base? Il doppio statuto delle parole che spesso recano entro sé il germe del loro contrario; forse è questo il punto di arrivo della ricerca che qui si avvia?
 
E in questo panorama desolato ma non per questo misantropo, la macchina da presa disegna spesso il profilo di questi non-luoghi del contemporaneo ricorrendo a stilemi normalmente espunti dal canone del cinema di consumo: il fermo immagine, riprese lunghe e/o con punto di ripresa fermo, sconfinamento delle azioni nel fuori campo con inquadratura che resta vuota. Tsangari ci propone una sintassi atipica ma ricercatissima, un continuo rimando alla frammentarietà dei linguaggi (filmici, verbali, segnici etc.) che - nella "isteria piccolo borghese" in cui ci ritroviamo tutti confinati, è diventata una costante del nostro modus vivendi.
 
VOTO: 9/10

giovedì 24 ottobre 2013

La morte corre sul fiume



La morte corre sul fiume (The night of the hunter) di Charles Laughton - Genere: thriller - USA, 1955

Se qualcuno decidesse di affidare ad un attore (italiano o meno che sia) la direzione di un film. possiamo scommettere che - salvo alcune eccezioni - il risultato sarebbe verosimilmente disastroso. Charles Laughton, premio Oscar al miglior attore nel 1934 per Le sei mogli di Enrico VIII, in un'epoca in cui il cinema aveva tutta un'altra valenza, è riuscito a confezionare quel piccolo capolavoro che è La morte corre sul fiume. Suo unico film, girato in pochissimo tempo e con una qualità tecnica veramente notevole, il suo lavoro si fa ricordare anche e soprattutto per uno stile particolarissimo che, anche calato in un'epoca in cui la linearità classica aveva già subito degli attacchi, si caratterizza per una serie di scelte estetiche davvero ingegnose. 

Influenzato tanto dalla poetica griffithiana quanto dalle Avanguardie europee, Laughton confeziona un prodotto fortemente narrativo che può essere letto in maniera stratificata, a più livelli di complessità che possono facilmente essere riconnessi a porzioni di pubblico dotate di interessi differenti. Se da una parte la diegesi si risolve nella versione un po' movimentata di una conciliante storia dai toni quasi fiabeschi, ad un livello di lettura più elevato possiamo notare dapprima la critica neppure troppo sottesa a un certo tipo di approccio al mondo della religione e poi - a salire -la malcelata misoginia di un autore che rappresenta quasi tutti i suoi personaggi femminili come donne credulone e facilmente abbindolabili e la preziosità di alcune scelte stilistiche. 

Se è innegabile, ad esempio, un certo influsso dell'Espressionismo tedesco soprattutto per quanto riguarda l'uso (appunto espressionistico) delle luci che spesso operano dei veri e propri tagli sulle figure, mi pare altrettanto evidente l'influenza di un certo cinema francese che, soprattutto in alcuni momenti (emblematica la sequenza in cui viene scoperto il cadavere di Willa Harper), si manifesta nella ricerca di un cinema che sia più delicato e pittorico (penso, ad esempio, ai massimi capolavori di Jean Vigo). 

A incorniciare il tutto non possiamo non ricordare la meravigliosa interpretazione di Robert Mitchum, che dona al personaggio di Harry Powell una presenza importante e concreta, che appare fortemente amplificata dalla gestione intelligente della fotografia e delle luci che Laughton è riuscito a mettere in campo in questa sua prima ed ultima opera. Di certo è impossibile compendiare in poche righe l'importanza e il merito di un film come questo che - come sempre e ancora una volta - merita senza dubbio di essere visto per poter essere apprezzato (e analizzato) sino in fondo.

VOTO: 8.50/10 

lunedì 14 ottobre 2013

Tulpa



Tulpa: Perdizioni Mortali di Federico Zampaglione - Genere: thriller - Italia, 2013

Federico Zampaglione, al suo terzo lavoro da regista, è considerato dai più come il legittimo erede di una tradizione, quella del Giallo all'italiana, che sembrava destinata a spegnersi. Parliamo di quel filone di pellicole che, inaugurato da Mario Bava con film quali Sei donne per l'assassino, ha raggiunto il suo apice con le fatiche argentiane della Trilogia degli Animali e ha toccato il punto di massimo sviluppo con Profondo Rosso. Dopo l'involuzione della poetica argentiana, che ha portato a prodotti come il trascurabilissimo Il Cartaio, il genere sembrava destinato a scomparire, almeno momentaneamente, dalle scene. E' una fortuna, allora, che il film di Zampaglione si sia proposto come una consapevole riflessione del panorama iconografico e situazionale di questo cinema di consumo ormai all'empasse. 

Ragionando sul bacino tematico squadernato da Argento, Zampaglione svecchia le figure di film quali Il gatto a nove code e sceglie di ambientare la doppia vita della sua protagonista nel dechirichiano quartiere dell'EUR a Roma. Entro spazi anonimi tratteggiati con sapienza ma ripresi in maniera ampiamente impersonale, una Claudia Gerini bella ma troppo spesso eccessiva nella recitazione, si barcamena fra una vita da manager in carriera e delle serate all'insegna della trasgressione sessuale in un club dalle tinte rossastre e dalle atmosfere orientaleggianti. E' interessante notare come i luoghi del film rispecchio appieno l'itinerario esistenziale della Gerini, sospesa nella tensione fra l'ordine apollineo del suo lavoro in una grossa società ai piani alti di un bell'edificio dal gusto razionalista e la passione sobbollente nei sotterranei di un garage. 

Entro questo range di situazioni per la verità piuttosto classiche il registra organizza la dinamica non eccessivamente innovativa della vicenda propriamente "gialla". Se da una parte possiamo apprezzare l'originalità degli omicidi, presenti in gran numero e rappresentati senza lesinare sui dettagli truculenti, non possiamo non notare come la gestione della suspence lasci in qualche modo a desiderare. Quando l'assassino svela la sua identità, si innesca un prevedibile meccanismo nel quale Zampaglione cade nel prevedibile errore di voler omaggiare quel fastidioso gusto argentiano per il paranormale e l'occulto. Se fino a quel momento il film si manteneva entro un solido e cruento realismo, appena disturbato da un interesse misterioso per l'occulto e il metafisico, l'evoluzione conclusiva appare forzata e fuori luogo.

Il film, tecnicamente discreto, si fa ricordare soprattutto per la bellezza della fotografia, soprattutto all'interno del club dove la Gerini passa le sue serate all'insegna della passione. In queste occasioni la gestione perfetta del colore e delle ombre garantisce ai corpi una presenza statuaria e vibrante, immersa in un colorismo irreale e perturbante. Un'ultima nota va certamente fatta alla bellissima interpretazione di Nuot Arquint, che ha reso Kiran il personaggio largamente più riuscito dell'intero film. Nel complesso un lavoro interessante, che lascia intravedere una speranza di sviluppo per il cinema italiano lungo una direttrice che è stata, storicamente, una delle sue strade maestre; un peccato per la presenza di alcune difficoltà tecnico-interpretative che in un certo senso indeboliscono le qualità di un lavoro altrimenti molto valido.

VOTO: 5.50/10 

domenica 13 ottobre 2013

Aquadro



Aquadro: La prima volta non si scorda mai di Stefano Lodovichi - Genere: drammatico - Italia, 2013

Una delle costanti del cinema italiano di consumo degli anni Duemila, che ancora ci stiamo portando dietro, sembra essere la predilezione per storie d'amore che indagano il mondo degli adolescenti attraverso delle lenti più o meno ammiccanti, critiche o consapevoli. L'esempio delle atroci pellicole tratte dai fortunati libri di Federico Moccia sarebbe fin troppo facile; ci permettiamo quindi di segnalare come anche un film come Melissa P., racconto cinematografico romanzato del caso letterario dell'omonima autrice si inserisca perfettamente entro questo panorama di produzioni. Stefano Lovodichi, classe 1983, propone una sua visione di questo ormai indagatissimo mondo con Aquadro, lavorazione italiana di recentissima uscita. Per una volta fa decisamente piacere vedere come il cinema italiano, quello fatto con passione da giovani autori che hanno le competenze per portare avanti un discorso compiuto, abbia ancora delle carte da giocare. Infatti, a partire da un canovaccio collaudato, il regista riesce a inserire degli elementi di forte autorialità che connotano il film come un elemento interessante e meritevole di attenzione, soprattutto in senso proiettivo. 

La storia d'amore dei due protagonisti, ancora studenti di una scuola superiore, viene raccontata da Lodovichi con sapienza narrativa e formale, cosa che non può che rendere più che legittimi i riconoscimenti guadagnati da Aquadro soprattutto per quanto riguarda la sceneggiatura. Il dettato registico, pur nella sua semplicità, si mantiene entro un buon livello di realizzazione, arricchito da alcune preziosità linguistiche che ci lasciano apprezzare, in nuce, la possibilità di una discorsività anche più articolata di quella che ci è stata proposta (i raccordi sonori, gestiti benissimo, ne sono un chiaro esempio). La perfetta dialettica fra scrittura trasparente e ricerca di ulteriori possibilità espressive rendere Aquadro un lavoro perfettamente riuscito, pur senza qualificarlo come un autentico capolavoro. Siamo di fronte, vale la pena ricordarlo di nuovo, a una validissima alternativa a molto cinema popolare che, con la presenza di divi dalle dubbie capacità recitative, cerca di fare presa su un pubblico disattento: Lodovichi, invece, sembra pretendere qualcosa in più dal suo pubblico, costretto a seguire il procedere di un amore ormai privo di qualsiasi parvenza auratica, raccontato a volte in maniera non immediatamente intellegibile. 

Un modo nuovo e intelligente di parlare degli adolescenti agli adolescenti, senza perdersi nel mare limaccioso dei facili sentimentalismi e nel contempo evitando di tratteggiare un'immagine erronea e semplificata delle dinamiche relazionali di una gioventù sempre più legata alla finzionalità dell'immagine informatica, a tal punto da non vedere - spesso - l'evidenza di ciò che succede nella realtà.

VOTO: 7/10 

Cannibal Diner



Cannibal Diner di Frank W. Montag - Genere: horror - Germania, 2012

Pensare che il cannibal-movie è un'invenzione grossomodo italiana può essere considerato almeno in qualche senso, un merito; è innegabile infatti che il filone di pellicole cui appartiene ad esempio il controverso Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, abbia contribuito alla ridefinizione di un genere che, da sempre, procede per accumulazioni e derive manieriste di cicliche innovazioni. E' stato così per l'epigonismo balbettante dei prodotti derivanti dalla filiazione di Ring, mentre attualmente assistiamo a riproposizioni invarianti di stilemi apparsi compiutamente in R.E.C. ma già presenti in un progetto pionieristico come The Blair Witch Project. Cannibal diner si inserisce quindi in un filone di titoli ben collaudato ma ormai metastatico e lo fa - fra le altre cose - raccattando citazioni illustri con cui cercare di risollevare il livello del prodotto.

L'unico punto interessante di un film completamente piatto, sono infatti le riproposizioni di immagini e topoi derivanti da titoli più o meno riusciti che, in ogni caso, hanno fatto la storia del cinema. Così è impossibile non riconoscere la sequenza ricalcata sul modello della notissima scena di Shining in cui Nicholson abbatte la porta della stanza da bagno a colpi di accetta. Allo stesso modo l'intera struttura narrativa del lavoro di Montag propone una mistura malriuscita di elementi che possiamo ritrovare tanto nel classico Le colline hanno gli occhi (anche se in questo film pare senza dubbio maggiore, anche solo per questioni di ritmo narrativo, l'influenza dei remake successivi) quanto nel ben più recente Chernobyl Diaries. 

Ma se quantomeno nel film ambientato nel luogo della fuoriuscita di radiazioni più nota della storia, la fattura tecnica era per certi versi almeno accettabile, la realizzazione di Cannibal Diner risulta, da tutti i punti di vista, un pasticcio che pare non tentare neanche di proporre qualcosa di minimamente innovativo. Anche a livello di intrattenimento, comunque, l'obbiettivo sembra non essere stato raggiunto: non potendo cercare di creare qualcosa di originale, il regista avrebbe potuto quantomeno cercare l'accondiscendenza degli appassionati investendo sul lato gore e truculento della vicenda; purtroppo le scelte sembrano andare in direzione contraria e l'effetto generale è di una noia estrema a fronte di una durata quantomai ridotta, che non arriva neppure agli 80 minuti.

VOTO: 2/10

sabato 12 ottobre 2013

Bling Ring



Bling Ring (The Bling Ring) di Sofia Coppola - Genere: drammatico - USA, 2013

Film di apertura della sezione Un certain regard di Cannes 2013 e ultima fatica della apprezzatissima Sofia Coppola, The bling ring è stato un film enormemente discusso dal momento del suo arrivo nelle sale italiane, con un bombardamento mediatico decisamente importante e con il relativo precipitarsi in sala di fiumi di spettatori attratti dal lato glamour della vicenda raccontata e dalla presenza della fortunata Emma Watson, che aveva già dato una buona prova di sé in Noi siamo infinito. Che la Coppola si sia interessata, nel corso della sua carriera, all'adolescenza e ai meccanismi esistenziali che questa fase innesca nei suoi protagonisti è un dato di fato; impossibile non ricordare a tal proposito il suo lavoro d'esordio (Il giardino delle vergini suicide), che proponeva in maniera efficace un nuovo schema di formazione che, nell'ambito della dinamica fra Eros e Thanatos, conduceva a uno sviluppo dei suoi diafani protagonisti.

Per certi versi, assistiamo a un recupero almeno parziale delle stesse atmosfere anche in questo nuovo The Bling Ring, anche se la citazione è accompagnata da un consistente rovesciamento di senso. In effetti l'ultima opera della Coppola appare statica e rigidamente antievolutiva; questo di per sé non è necessariamente un male, ma per come sono state condotte l'orchestrazione dell'opera e la gestione della sceneggiatura, vale certo la pena di chiedersi quale sia il senso di tutta questa pellicola. Da una parte potrebbe essere ammissibile ritenere che la regista abbia voluto rappresentare la vacuità dell'esistenza di un drappello di giovani che, svuotati dei valori minimi dalla voracità della società consumistica, si ritrovano a ricercare la loro possibilità di realizzazione nell'appropriazione (indebita) di feticci materiali altrui. Da questo punto di vista Bling Ring diventerebbe la massima rappresentazione di una mitografia della celebrità che fa dell'immagine in sé un valore di rappresentazione: le celebrità svaligiate dal quintetto di protagonisti non hanno altro da offrire se non la possibilità di farsi guardare e questo solo elemento, per la conformazione valoriale della società rappresentata, basta ad assicurare solo un valore auratico/cultuale di cui l'oggetto si fa materializzazione evidente.

Walter Benjamin diceva che dello sport, così come del cinema possono parlare tutti quanti; quest'affermazione in effetti riproduce bene una delle problematiche e nel contempo degli aspetti più interessanti sul discorso cinematografico. La teoria interpretativa sintetizzata poco sopra, sposata da critici insigni e da tanti dilettanti come il sottoscritto, non è che l'evidenza delle infinite possibilità che un film come Bling Ring offre di imbastire teorie che, per quanto mi riguarda, non sono altro che un tentativo di giustificare a posteriori l'opera coppoliana, arrivando in alcuni casi anche a paragonarla a Springbrakers, oggetto di ben altra levatura ma dalle tematiche in qualche modo assimilabili. Duole un po' dirlo, ma bisogna ammettere che la prova registica offerta da Sofia Coppola è, nel caso di Bling Ring, particolarmente infelice. 

Al di là di una sceneggiatura che alterna momenti di prevedibilità estrema riavvolgendo continuamente la narrazione su sé stessa nell'eterna ripetizione di situazioni formalmente equivalenti con ingenuità di scrittura che certo non ci si sarebbe aspettati da un film presentato al Festival di Cannes, il grave problema del dettato di The Bling Ring è il ruolo dello spettatore. La regia dispone infatti gli elementi della comprensione in maniera ridondante, in modo che al pubblico non sia lasciata neanche la più elementare operazione di elaborazione interpretativa: tutto è spiegato con una chiarezza quasi fastidiosa, anche quando non ce ne sarebbe stato alcun bisogno. Oltre a questa difficoltà non certo marginale è possibile individuare tutta una serie di veri e propri errori di gestione dei rapporti fra immagine e comparto sonoro e un utilizzo decisamente inadeguato della pluralità dei registri mediali (mi riferisco alle scene in cui la regista interpola il film con materiale filmato di repertorio, immagini e schermate dai social network). 

Il tutto porta alla definizione di un prodotto prevedibile e trascinato, sopratutto nella parte finale, da una retorica della narratività banale che solo in alcuni punti sembra venire parzialmente meno; purtroppo si tratta di pochissime sequenze in cui, anche se in maniera non sempre felice (l'uso eccessivo di brani rallentati ne è un esempio) che non modificano in linea di massima l'impressione generale che ho esposto nelle righe precedenti. Posso convenire con chi dirà che esistono film certamente peggiori di questo, ma da una pellicola presentata a Cannes, che ha prodotto una discorsività così forte intorno alla sua uscita, il livello che ci si aspetta è decisamente superiore. 

VOTO: 4/10 

lunedì 7 ottobre 2013

Almost blue



Almost blue di Alex Infascelli - Genere: thriller - Italia, 2000

Ricordo che alcuni anni fa, quando ancora non avevo praticamente idea di come funzionasse il cinema. H2odio, thriller del regista Alex Infascelli, trasmesso su MTV, mi colpì particolarmente. Almost blue è il stato il suo film d'esordio e, senza dubbio, si tratta di un prodotto interessante per quanto già un po'datato. In particolare mi sembra che Infascelli sia riuscito a recuperare la struttura narrativa di base della cinematografia di tipo argentiano, raggiungendo però livelli di ricercatezza formale che, a mio modesto avviso, il presunto Maestro del brivido, non è mai riuscito a raggiungere (con l'esclusione, per essere onesti, di Profondo rosso e Suspiria). Almost blue rappresenta il tentativo di un cinema italiano troppo sottovalutato di dare aria a un genere che troppo spesso si ripiega sulla sterile riproposizione di una serie di stereotipi ormai consolidati. 

Per quanto la vicenda narrativa non sia particolarmente originale (diverso era il caso del già citato film del 2005, molto più particolare a livello diegetico), l'opera di Infascelli si lascia ricordare per la capacità di orchestrare la progressione drammaturgica attraverso un ritmo irregolare basato su dei contrappunti fulminei controbilanciati da dissolvenze in nero che azzerano la visione e la percezione dello spettatore, mettendolo di fatto nella stessa situazione esperienziale di uno dei protagonisti che (si ricorderà) è non vedente. Anche la fotografia è molto buona e rende evidente una gradevole ricercatezza nella scelta del punto di ripresa, cui fa da controcanto un uso intelligente del montaggio, spesso spinto fino al proprio limite per quello che riguarda la decodifica degli eventi rappresentati. 

Unica pecca, forse, è la performance recitativa di alcuni attori, fra cui la protagonista femminile che ho trovato piuttosto anonima. Al di là di questo, comunque, siamo di fronte a un lavoro di tutto rispetto che, forse, non ha potuto contare su dei mezzi di produzione maggiori che gli avrebbero permesso una presa più incisiva sul pubblico e sulla critica. Ad oggi Infascelli rimane, per quanto mi riguarda, un regista sottovalutato nel panorama italiano.

VOTO: 6/10 

domenica 29 settembre 2013

Evangelion 3.0: You can (not) redo



Evangelion 3.0: You can (not) redo - Genere: animazione - Giappone, 2012


A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, è indubitabile che nell’educazione e nella formazione della cultura visuale dei bambini e dei ragazzi, una parte progressivamente crescente sia stata condizionata dalla visione dei prodotti di animazione giapponese, proposti principalmente sulle reti private del gruppo Mediaset e su alcuni canali secondari (la RAI sembra non aver quasi mai ritenuto opportuno questo genere di contenuto per il proprio palinsesto). Si tratta di una tendenza che a partire dagli anni Duemila si è progressivamente invertita, anche per l’appiattimento dell’offerta e della qualità dei prodotti. Il punto di svolta di questo processo dunque, l’apogeo di una tendenza ormai in dissoluzione, è da rintracciarsi fra la fine degli anni Novanta e i primi anni del XXI secolo. Non è un caso allora che proprio in quel periodo, MTV (emittente musicale che proponeva un insieme di serie animate ignorate dalle altre reti) avesse cominciato a trasmettere Neon Genenis: Evangelion. Il ritorno al cinema della serie con la tetralogia Rebuild of Evangelion, arrivata in questi giorni al terzo episodio (Evangelion 3.0: You can (not) redo) ha quindi smosso le fasce di fan che aspettavano l’uscita del titolo, quelle stesse che l’11 Settembre del 2001 (data ancor più emblematica per un cartone animato denso di escatologia), erano pronti a sintonizzarsi su MTV.

Evangelion 3.0, a differenza dei due precedenti lavori di Rebuild, non si preoccupa di riscrivere la vicenda narrata nella pur non eccessivamente prolissa serie televisiva, se non in piccola parte. La vicenda è infatti quasi completamente nuova, non fosse che per alcuni dettagli contingenti e per la presenza di quella chiave di volta che è Kaworu Nagisa, personaggio molto sacrificato dall’anime che riesce a trovare una dignità maggiore in questa occasione, anche se la natura del suo ambiguo rapporto con il protagonista Shinji non riesce ad emergere con la stessa incisiva chiarezza che aveva nel manga originale.

Il mondo di 3.0 è devastato da un’apocalisse causata, pure in maniera involontaria, proprio da quello Shinji Ikari che avrebbe dovuto sventarla, pilotando le unità EVA cui si fa cenno nel titolo. Lo scontro con gli Angeli, nemici tradizionali delle puntate dell’anime, dal nome biblico e dalle oscure facoltà, viene completamente messo da parte per quasi tutta la durata della pellicola e un’attenzione molto maggiore viene data a quegli elementi che, pur costituendo il fascino di Evangelion erano rimasti avvolti nel mistero (le vere intenzioni della NERV, i piani della SELEE, la natura di Rey Hayanami, il rapporto fra l’unità EVA01 e la madre di Shinji). La conseguenza di questa profonda riscrittura narrativa è una gestione diversa dei personaggi, che vengono profondamente mutati e per lo spettatore affezionato risultano in alcuni casi quasi irriconoscibili; questo è il caso, ad esempio, di Misato Katsuragi, che perde del tutto la vena divertente e spiritosa che faceva da contraltare alla sua sempre lucida riflessione sulla difficile posizione che era chiamata a ricoprire.



Un altro motivo di perplessità potrebbe risiedere nella difficoltà di gestire i rapporti fra questo episodio della tetralogia e le puntate della serie originale, anche considerando il lungometraggio End of Evangelion. In particolare You can (not) redo pone delle problematiche di plausibilità di non facile risoluzione se si considera che esso è in tutto e per tutto incompatibile con la conclusione dell’anime e con questo evidenziato nel film sopraccitato. Si apre dunque un ulteriore universo di possibilità, anche più drammatico almeno per quanto è stato possibile vedere sino a questo momento. Stante questo è evidente che l’attesa per il quarto e ultimo capitolo di questa riscrittura cinematografica, divenuta ormai profonda a tal punto da mettere in crisi l’edificio visivo messo in piedi dal cartone animato di base, è estrema. La chiusura del cerchio che tutti si aspettano potrebbe anche non arrivare mai ed è molto verosimile pensare che i profondi cambiamenti messi in atto da questo terzo episodio di Rebuild potrebbero aver lasciato scontenti alcun fan, perplessi dal nuovo stato di cose aperto da questa apprezzabile ma forse azzardata operazione filologica. 

Nel complesso un film valido, non eccelso, senza infamia né lode. Non saprei se consigliarlo o meno a un amante della saga, poiché le reazioni potrebbero essere decisamente contrastanti.

VOTO: 6/10 

mercoledì 25 settembre 2013

L'odio



L'odio di Mathieu Kassovitz - Genere: drammatico - Francia, 1995

Pluripremiato film del francese Mathieu Kassovitz, già autore del fortunato I fiumi di porpora, recensito insieme al suo sequel su questo blog, L'odio è un film certamente più impegnato tanto da un punto di vista etico quanto da un punto di vista tecnico-formale rispetto al precedente analizzato. Una giornata nelle banlieu francesi, da sempre territorio di scontro fra le frange più eversive della popolazione giovanile e l'ordine costituito, diventa tragica metafora delle contraddizioni di un mondo in costante involuzione, che precipita sotto gli occhi distratti di spettatori spesso assenti nella spirale della dimenticanza. Il merito di Kassovitz è proprio quello di essere riuscito a riprendere questo magmatico ribollire di tensioni con uno spirito quasi giornalistico, attento a non prendere una posizione ben chiara nonostante il terzetto di protagonisti appartenga chiaramente a uno solo dei due mondi in conflitto.

Il trio di debosciati svogliati e costantemente sul piede di guerra, su cui spicca il personaggio ben interpretato da un Cassel convincente anche se a volte un po' didascalico, è infatti spesso talmente lanciato nella sua operazione suicida contro il sistema che non si può fare a meno di provare una certa antipatia per questi individui. Lo spettatore ha la capacità e la distanza per vedere le ragioni di ambedue le parti in causa e questo rende fastidiosi e stridenti i continui assalti che i ragazzi di periferia mettono in pratica, apparentemente solo per il gusto di fare rivoluzione. Nessun giudizio morale viene espresso, nel senso che non si prende posizione nel confronto sociale che L'odio rappresenta molto bene; alla fine, e l'expicit in questo caso è fondamentale, rimane solo un vasto senso di solitudine e la coscienza - come si legge in molte recensioni che parafrasano una felice battuta - che "l'odio porta sempre altro odio".

Il dettato registico è sorvegliatissimo e attento, cosa che non può che confermare la scelta della giuria di Cannes '95, che ha premiato il film con il riconoscimento alla miglior regia. Lo stile di Kassovitz è meno maestoso e televisivo di quello adottato per I fiumi di porpora e qui emerge in tutta la sua efficacia una retorica della discontinuità che sembra fondare i nessi fra le inquadrature non tanto sulla trasparenza, quanto più sulla libera connessione tematica, cosa che emerge soprattutto nei titoli di testa e comunque nella primissima parte della pellicola. La scelta del punto di ripresa è sempre felice e appare il frutto di una riflessione ben chiara, cosa che è confermata anche dall'uso frequente e felicissimo di numerose interpellazioni (sguardi in camera), che chiamano direttamente in causa lo spettatore come costituente del significato ultimo dell'immagine. Una nota meritoria hanno anche le due sequenze, piuttosto brevi in verità, in cui l'universo mentale/immaginario di Vinz (Vincent Cassel) si mescolano in maniera molto felice.

In conclusione, un film decisamente valido che - fra l'altro - non risente assolutamente dei suoi quasi vent'anni e tratteggia con uno stile ricercato ma non barocco un panorama ancora oggi attuale.

VOTO: 8/10 

martedì 24 settembre 2013

Moebius



Moebius di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2013

Reduce dall'ingombrante successo meritorio di un Leone d'Oro nel 2012, Kim Ki-duk si è ripresentato quest'anno a Venezia con il controverso film fuori concorso Moebius. Dopo il drammatico minimalismo di Arirang, altro titolo contestatissimo e non da tutti apprezzato, e la violenza visiva di Pietà, il talentuoso regista coreano ritorna ad indagare il tema delle relazioni familiari (lo aveva fatto con il suo ultimo lavoro e con diversi dei precedenti, fra cui certamente svetta per fattura e fortuna Ferro 3: La casa vuota), con una capacità di penetrazione visiva certamente fuori dal comune. Anche in questo caso la semplicità della trama è la conditio sine qua non per un lavoro sull'immagine che si esprime in questo caso soprattutto con una cura maniacale per la scelta dell'inquadratura, strategia che - come avremo modo di dire - non da' sempre i propri frutti. La vicenda è mossa da un episodio di evirazione familiare, episodio topico da Catullo in poi (si ricorderà che l'Evirazione di Attis è uno dei più celebri carmina docta del poeta latino), utilizzabile soprattutto - e questa è la direzione che sembra prendere Kim - per rileggere in chiave conciliante o conflittuale la dinamica del complesso edipico in psicanalisi. 

La scelta di azzerare completamente la sfera dialogica (opzione già sperimentata in L'Arco, primo film a raggiungere il massimo dei voti in una recensione su questo blog, precedentemente ospitato da wordpress) non appesantisce eccessivamente l'incedere della vicenda e fa in modo che lo spettatore sia chiamato a ricostruire la dinamica degli eventi e la strutturazione psicologica dei personaggi soltanto attraverso il divenire della loro gestualità. Si tratta di una decisione fortemente sperimentale che però non sempre sembra sortire l'effetto sperato: in particolare non ho trovato felice il continuo rendere conto delle ricerche che il padre del protagonista compie su internet per informarsi circa le possibilità di cura per il figlio. La cosa poteva funzionare la prima volta, ma il fatto che il regista ci mostri di continuo sequenze del genere lascia legittimamente sospettare che proprio a questi passaggi egli affidi la possibilità di decodifica del pubblico: il silenzio dei personaggi poteva invece essere usato in maniera più intelligente e una diegesi più ellittica avrebbe favorito una visione ancora più consapevole.

Altro punto abbastanza dolente riguarda proprio lo sviluppo delle relazioni fra i tre protagonisti (tutti gli altri sono accessori; la rosa potrebbe essere estesa a quattro se si includesse anche l'amante del padre di famiglia, ma la nostra scelta si può facilmente giustificare facendo notare che essa è interpretata dalla stessa attrice che impersona la moglie). Soprattutto nell'incipit e nella parte finale emergono alcune incongruenze comportamentali, che rendono la vicenda meno realistica del dovuto: questo di per sé non è un male, ma visto che Kim ha optato per un'orchestrazione fortemente legata alla sfera fenomenica, queste fratture finiscono con l'avere un effetto sbalestrante e, in ultima analisi, ingiustificato. Un' ultima annotazione deve essere fatta in merito a ciò che il regista sceglie di mostrare: come abbiamo già detto tutto l'universo narrativo è mosso da un Sacro Graal (il riferimento non è casuale) che si concretizza nell'organo sessuale maschile. Un'impostazione di questo genere richiede e sembra promettere la visione di immagini disturbanti presentate senza alcun tipo di censura, in pieno accordo con quell'aria sporca e materica che il regista aveva proposto già in Pietà. Così non è però e in tutte le sequenze potenzialmente shockanti viene scelto un punto di ripresa che, in un modo abbastanza infantile e tipico più della retorica televisiva che di quella cinematografica d'autore, maschera continuamente l'oggetto in questione. 

Ho sempre trovato abbastanza fastidiosa la mania autocensoria di molti registi e di certo non mi aspettavo di vederla messa in atto da un autore asiatico e provocatore come Kim Ki-duk; se Bernardo Bertolucci ha mostrato senza difficoltà le nefandezze sessuali dei tre protagonisti del bel The dreamers, perché Moebius sceglie di chiudere gli occhi al suo pubblico? La sensazione che si ricava da questa scelta, più o meno consapevole che sia, è quella di una forte indecisione stilistica, che indebolisce di molto le possibilità estetiche della pellicola. Nel complesso il film è comunque abbastanza interessante, ma l'ho trovato decisamente al di sotto delle capacità del suo autore e, quel che è peggio, ben lontano dalla vena sperimentale e provocatoria che aveva animato i suoi titoli precedenti. 

VOTO: 5/10

lunedì 23 settembre 2013

Un giorno di ordinaria follia



Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher - Genere: drammatico, thriller - USA, Francia, Regno Unito, 1993

Prendere il sogno americano e rovesciarlo di segno, mostrare il lato oscuro della tranquilla vita borghese. Il film ormai non più recentissimo di Schumacher ci proietta nella spietata crudeltà del mondo metropolitano, con le sue ipocrisie e le sue contraddizioni: il logorante immobilismo di un inutile ingorgo autostradale, ripreso con una maestria fuori dal comune, fa da incipit al drammatico scivolamento di un convincente Michael Douglas nella spirale della follia. La parte più convincente di questo lavoro sta proprio nella prima metà, quando il desiderio pseudoanarcoide del protagonista non è ancora completamente definito e risulta estremamente affascinante. Il montaggio alternato mette lo spettatore in guardia sullo sviluppo della storia, segnalando la presenza di un filo rosso che si inspessisce progressivamente connettendo fra di loro i vari personaggi, in verità in modo piuttosto prevedibile. 

Man mano che la vicenda si definisce e le relazioni si fanno più chiare la vicenda perde di smalto e risulta in fin dei conti abbastanza accademica. Rimane buona la caratterizzazione psicologica del personaggio interpretato da Douglas, che non perde il fascino oscuro e delirante che lo caratterizzava. Lo stesso non si può dire per tutti gli altri interpreti che finiscono con il ricoprire dei ruoli standardizzati e, per quanto riguarda il detective Prendergast, addirittura televisivo. Anche le modalità della progressione narrativa non sono, in realtà, molto originali: tutta la vicenda assume quasi un sapore videoludico con Bill Foster che, a spese delle sue vittime, si guadagna delle armi sempre più pericolose fino che, sul finale, non si ritrova praticamente disarmato. 

Lo stile della pellicola è trasparente e rende facile la lettura allo spettatore: i personaggi sono costruiti su opposizioni binarie destinate a rovesciarsi nella conclusione e l'unico elemento di interesse da questo punto di vista potrebbe riguardare il giudizio morale nei confronti del protagonista. Da un punto di vista etico come giudicare un individuo che, in fin dei conti, è vittima della nevrosi urbana contemporanea? L'incapacità di intendere e volere potrebbe forse essere un discriminante e bisogna ammettere che, soprattutto nella seconda parte del film, quando la vicenda si fa via via più aneddotica si potrebbe essere tentati di ritenere che Douglas sia dalla parte del giusto. Proprio a questo serve il detective Prendergast, monito vivente alla necessità di resistere di fronte alle brutture della propria vita. Il giudizio registico è dunque ben definito e anche questo elemento, unito ad un insieme di reminiscenze topiche dal sistema classico dei generi cinematografici, contribuisce a rendere ancor più inoffensivo e conciliante il portato del film.

Il film in generale si lascia guardare con piacere, ma è davvero un peccato che i buoni spunti che ne animavano la prima parte si siano poi placidamente ripiegati nel proseguo della vicenda.

VOTO: 5.50/10

Il settimo sigillo



Il settimo sigillo di Ingmar Bergman - Genere: drammatico - Svezia, 1957

Che Bergman sia uno dei grandi geni del cinema mondiale è fuori discussione: lo abbiamo affermato con forza nella recensione de Il posto delle fragole e possiamo tornare a ripeterlo qui, nel successivo Il settimo sigillo. Nonostante le affinità di fondo, immancabile residuato di una coscienza autoriale ben sviluppata e coerente come quella bergmaniana, le due opere non potrebbero essere più diverse. Tanto Il posto delle fragole era un dramma intimista, che riguardava solamente l'anziano professore che aveva come protagonista, tanto Il settimo sigillo è una narrazione epico-escatologica che ha ambizioni universali in quanto dedicata al dramma dello scivolamento nell'abisso che riguarda tutti gli uomini. 

In un Medioevo immaginario ma materico lacerato dalla pestilenza, sospesa fra il pallore innaturale dei corpi affaticati dagli stenti e l'oscurità di un cielo mai completamente sgombro, si consuma una improbabile partita a scacchi fra un cavaliere crociato e la Morte. Attorno a questo leitmotiv si intrecciano le vicende dei protagonisti, dapprima divisi in due gruppi e poi uniti, per l'imperscrutabile disegno del fato. La bizzarra compagnia attraversa le campagne alla volta di un castello e nel suo peregrinare vede attorno a sé i segni tangibili della distruzione portata dalla peste e del delirio collettivo conseguente alla sua diffusione. In un modo sempre più disilluso verso il potere salvifico di Dio si distinguono invece degli individui che cercano la purificazione della carne: sono proprio questi intermezzi i più belli del film, proprio perché spingono lo spettatore a riflettere sulla sua condizione circa ciò di cui si discute. Lo scollamento sensibile fra la non-morale di alcuni dei protagonisti e la fede cieca di questi personaggi, disposti ad annientarsi in vista di una ricompensa maggiore, amplifica enormemente l'effetto di queste sequenze, che culminano nel rogo della donna accusata di stregoneria, probabilmente debitore dello straordinario La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer. 

Su questo sfondo di oscurità entro il quale si sviluppa l'efficacissimo memento mori bergmaniano esistono però dei momenti di rottura, delle punte di ironia che permettono di riconsiderare la presenza del divino e l'immanentismo teologico che sembrerebbe animare il capolavoro di Bergman. E' proprio in questa dinamica di tendenze contrastanti, in questa sospensione incerta fra ironia e serietà che risiede, al di là degli indubitabili meriti tecnico-registici, la grandezza di un film che ancora oggi rimane uno dei più affascinanti della storia. 

VOTO: 9/10  

sabato 21 settembre 2013

The Eye



The Eye di Oxide Pang Chung e Danny Pang - Genere: thriller - Cina, 2002

I tre grandi padri innovatori del cinema horror asiatico e più in generale globale sono stati senza dubbio partoriti nei paesi del Sol Levante. Il primo fu il meraviglioso Ring di Hideo Nakata, liberamente tratto dall'omonimo e altrettanto splendido romanzo di Suzuki; poi fu la volta dell'altrettanto ben fatto Ju-On di Takashi Shimizu, targato 2000. The Eye è senza dubbio il terzo elemento per chiudere il cerchio. La grande capacità di innovazione di queste tre pellicole risiede in primis nel fatto che il loro comparto narrativo risponde alle medesime dinamiche di sviluppo, seppure con delle modifiche contingenti; in secondo luogo la ragione per cui ci si deve legittimamente interrogare sul loro successo ha a che vedere con la loro straordinaria generatività in termini di sequel e improbabili remake americani.

Anche in questo caso il motore della diegesi risiede nella comunicazione fra due mondi, quello umano e quello sovrasensibile/paranormale, filtrata non attraverso il nastro magnetico di una cassetta, ma tramite le cornee di una donna grazie alle quali la protagonista, cieca dalla nascita, comincerà a vedere le ultime immagini passatele davanti agli occhi in vita. Niente di nuovo sotto il sole ed in effetti, essendo il film del 2002, ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di meglio (in quel periodo già cominciavano a risentirsi le propaggini dell'effetto Ring); al di là della fotografia buona e dell'uso intelligente e libero del montaggio soprattutto nelle sequenze in cui viene ripreso il delirio "onirico" della protagonista, il film non si lascia ricordare particolarmente.

Bisogna ammettere comunque che la storia è, per alcuni tratti, sinceramente inquietante, soprattutto quando ancora non si riconoscono bene le cause di questa anormalità percettiva. Quando la vicenda comincia a farsi più chiara e i due protagonisti si avvicinano alla risoluzione dell'enigma tutto sembra ripiegarsi su sé stesso e concedersi a delle punte di scolarismo che potevano certamente essere evitate; in particolare si può fare riferimento al finale, veramente didascalico e riconciliante con tanto di voce over a condire il tutto. In fin dei conti è un lavoro che non può essere neppure classificato come horror ma che, per alcuni momenti di particolare tensione, si lascia incasellare piuttosto agevolmente entro i ranghi del thriller. 

Un film che da un punto di vista storico ha senza dubbio avuto un discreto peso nello sviluppo di un genere, pur senza raggiungere sotto il profilo stilistico le vette di precisione e bellezza che Ring o Ju-On si erano ampiamente concessi.

VOTO: 6.50/10

lunedì 16 settembre 2013

Harry a pezzi



Harry a pezzi di Woody Allen - Genere: drammatico, commedia - USA, 1997

Nelle pagine virtuali di questo blog ho più volte recensito film di Woody Allen, autore che ammetto di aver scoperto e cominciato ad apprezzare da poco. Harry a pezzi è il più maturo di quelli che ho visto fin'ora e conserva intatte alcune delle caratteristiche stilistiche del cinema alleniano, senza risparmiarsi alcune nuove trovate che ben si adattano, comunque, a quello spirito schizofrenico e un po'paranoide che caratterizza il periodare di questo regista. Anche in questo caso, come in molti altri, il nucleo tematico orbita attorno alla vicenda di un intellettuale outsider, fortemente fuori dagli schemi, che incarna e riflette la figura dello stesso regista, vero e proprio centro di irradiazione del suo cinema. Nevrotico, incline al tradimento eppure fortemente legato al ricordo, ateo e freddo nei confronti del rapporti umani, Harry è il classico esempio di un'umanità cinica e disillusa, elemento tipico del cinema di Allen.

La struttura di base ricorda molto quella del bel Il posto delle fragole, cosa che fra l'altro ci conferma l'amore di questo autore per il bergmanismo, tratto fondamentale di diversi suoi film. Harry sta per essere premiato dall'università che lo aveva cacciato e tutto il tragitto che il film ci porta a fare prenderà le sembianze di un ritorno alle origini a partire dal quale il protagonista intraprenderà un viaggio interiore per riconsiderare la sua esistenza. L'iter attraverso le insoddisfazioni e gli insuccessi di Harry si rifrangerà come in un sistema di specchi attraverso le creature che la sua penna ha creato, che mostreranno i chiari legami che legano la creazione artistica e la vicenda autoriale. Il camuffamento di personaggi ed eventi passa attraverso un linguaggio metaforico che riproponendo le stesse situazioni del mondo reale crea un diverso universo di possibilità: la virtù demiurgico-creatrice della scrittura e più in generale dell'atto artistico emerge dunque come uno degli assunti di base del film.

La formazione linguistica è quindi stratificata e spesso fortemente discontinua: la diegesi si compone grazie a un progressivo gravitare di detriti narrativi attorno al filone principale della vicenda: l'esistenza di Harry diventa quindi il centro propulsivo attorno al quale vengono attratti degli elementi che, presentati in discontinuità, mettono i due universi di riferimento in comunicazione e interscambio. Nel finale, a saldare definitivamente la connessione fra i due mondi interviene, come nel capolavoro bergmaniano, il mondo onirico che - con la sua capacità di travalicare il fenomenico - ricompatta gli elementi e irradia una speranza, mai prima presentatasi, sul destino del protagonista.

Il film è decisamente piacevole e ben strutturato ma, nonostante sia forse più ricercato degli altri film alleniani che ho recensito precedentemente, non mi ha convinto altrettanto. Siamo lontani, mi sembra, dall'intellettualistica drammaticità di Manhattan e ancor più dall'impreciso e scanzonato universo de Il dittatore dello stato libero di Bananas o di Prendi i soldi e scappa. Comunque un lavoro meritevole; sopratutto una valida alternativa alla mediocrità imperante del cinema comico, un melange dei generi e temi che complessifica l'immagine solitamente disimpegnata che viene data di questo tipo di film.

VOTO: 7/10