lunedì 10 marzo 2014

Gravity























Gravity di Alfonso Cuaròn - Genere: fantascienza - USA, Regno Unito, 2013

Presentato alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia, il film di Cuaròn (già regista de Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) ha fatto incetta di premi all'ultima edizione degli Oscar. Prevedibilmente, vorrei aggiungere. Sì perché ora che ho potuto vederlo mi sembra che Gravity sia un'opera davvero degna dell'Academy. Mi spiego: è risaputo che questa cerimonia tende a premiare film mediamente commerciali e di successo e spesso non sanziona in modo adeguatamente positivo titoli che si impegnano maggiormente sulla ricerca espressiva (per quello, pare, ci sono già i Festival). Ebbene Gravity riesce a fondere perfettamente i due elementi, presentandosi come un campione d'incassi al botteghino che, al di là dell'apparenza smaccatamente spettacolare (il 3D e gli effetti speciali aiutano giocoforza da questo punto di vista), si lascia apprezzare anche per delle indubbie qualità tecniche. 

L'americanismo di Gravity lo si vede bene già dal cast: i protagonisti del film (meglio, gli unici due personaggi, visto che uno viene liquidato prima della conclusione del primo sontuoso piano-sequenza) sono Clooney e la Bullock, nomi di punta del cinema americano in particolare della scorsa decade. Entrambi interpretano in modo più o meno convincente (ho trovato migliore Clooney, lo ammetto; la Bullock per me era troppo, quasi kitsch) due personaggi estremamente tipizzati: l'uno l'astronauta eroico pronto a sacrificarsi per la buona riuscita della missione, l'altra la donna forte con alle spalle un passato difficile. Questo di solito è abbastanza per abbassare le aspettative di chi guarda un film, ma nel caso di Cuaròn (e qui acquista senso la mia affermazione di prima), questo canovaccio estremamente inflazionato viene condotto attraverso una capacità registica davvero fuori dal comune, che si sposa con una fotografia eccellente. Ho accennato prima al piano-sequenza: tutto il primo brano del film è condotto attraverso un'unica, lunghissima e movimentata inquadratura che ha davvero dell'incredibile: per più di quindici minuti Cuaròn disegna peripli vertiginosi sullo schermo, muovendosi circolarmente attorno ai suoi personaggi, come se anche la macchina da presa fosse libera dal peso della gravità. Una perizia tecnica del genere varrebbe da sola il prezzo del biglietto.

Ammetto che ci sono anche degli aspetti del film che non ho gradito molto e non a caso sono i più "americani". A parte alcuni momenti morti della sceneggiatura che erano evidentemente dei pezzi di transizione per le parti più spettacolari e coinvolgenti, non ho gradito molto l'epilogo lacrimevole che ha portato all'happy ending conclusivo. Ma in questo caso, per quanto non si tratti di elementi di secondo piano, la capacità registica riesce da sola a risollevare il film. Non che fare un film commerciale sia un male di per sé: ce ne sono di diversi molto belli. Se però non fosse stato per la maestosità delle inquadrature e della fotografia l'Oscar non sarebbe stato meritato. Invece, almeno per quanto riguarda gli elementi citati, il riconoscimento è davvero stato opportuno a mio avviso.

VOTO: 8.50/10 

Nessun commento:

Posta un commento