sabato 15 marzo 2014

Amen



Amen di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2011

Ho sempre ritenuto Kim Ki-duk uno dei registi più interessanti dell'attuale panorama cinematografico e chi segue questo blog lo sa fin troppo bene. Pure, temo che la mia stima per questo cineasta mi abbia condotto a valutare in maniera troppo ottimistica Pietà, film che gli valse il Leone d'Oro nel 2012, cui ha fatto seguito il mezzo insuccesso di Moebius. Penso che dovrei riconsiderare il giudizio dato a quel film, come a molti altri su queste pagine, ma non è la sede giusta per pensarci. Amen è un film minimale ed esteticamente molto difficile, che richiede un grandissimo sforzo allo spettatore. Gioverà ricordare che viene subito dopo Arirang, ultimo lavoro veramente valido di Kim secondo me, che entro una cornice nudamente documentaria mette in scena il disagio e la crisi creativa dell'autore. Se come credo ho bene interpretato Arirang, alla sua conclusione Kim si era dato due strade: smettere per sempre di fare film oppure tentare un nuovo inizio, ricominciare dal grado zero. E la risposta è proprio questo Amen.

Girato con uno stile impreciso, tremolante e spesso amatoriale, tutto il film è stato realizzato con una "troupe" di sole due persone: lo stesso Kim, che interpreta l'uomo misterioso che porta una maschera antigas e l'attrice Kim Ye-Na, vera e propria protagonista del film. Attraverso una struttura che richiama alla mente almeno un po' il Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, Kim mette in scena una non-storia fatta di casualità, di ricerca, di mancati incontri, di elementi insoluti. E' evidente che Amen apre a un'ampia gamma di speculazioni che vanno dal filosofico al matecinematografico e per me è questo secondo aspetto il più interessante. Senza dubbio l'anonima ragazza abbandonata all'aeroporto di Parigi, che poi comincerà un viaggio in Francia (con una capatina perfino a Venezia!) è uno dei molti alter-ego di Kim, come ne ritroviamo diversi nella sua cinematografia (così ho interpretato, ad esempio, anche il Tae-Suk di Ferro 3). Interessante, se tutto questo è vero, che questa volta il portavoce delle istanze registiche nel film sia una donna, non a caso incinta. 

La ragazza, che si reinventa per sopravvivere diventando una sorta di artista di strada, ci parla degli esordi di Kim, di quel mondo oscuro che è la sua vita prima dell'esordio alla regia. Non sarà allora un caso che l'ultimo gesto che la Nostra compie prima della conclusione del film sia quello di guardare in camera, "inquadrandoci" con le mani: è una chiara dichiarazione di intenti, il desiderio di tornare al cinema poi confermato tanto da Pietà quanto da Moebius. Il senso di questo Amen allora è davvero quello di un ritorno, di una ricerca ossessiva dell'arké cinematografica di Kim e lo stile ce lo conferma: niente di più diverso dalle eleganti inquadrature dei suoi capolavori, da quella capacità quasi pittorica di racconto che portava il campo sonoro quasi fuori dal film, creando spazi sospesi e di eterna suggestione. 

Quello che il regista sempre chiederci è allora uno sforzo, il tentativo difficile e complesso di dargli ancora fiducia, di entrare nel suo mondo e in questo suo nuovo inizio. E' appunto una sfida difficile, che personalmente non mi sembra vincente. Come Moebius, forse anche come Pietà (che a questo punto potrei non aver capito e letto nella maniera giusta), questo Amen è un film riuscito a metà, che si spinge probabilmente troppo oltre sul sentiero della semplificazione, senza garantire quell'empatia quasi commossa che ancora si poteva offrire in Arirang.

VOTO: 5/10 

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