mercoledì 29 maggio 2013

La verifica incerta



La verifica incerta di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi - Genere: sperimentale - Italia, 1964

Sin dai primi anni della sua esistenza, il cinema ha sempre consentito ai suoi autori di utilizzare una serie di linguaggi particolari e molto diversi fra loro, al punto che alcuni di essi risultano addirittura autoescludenti l'uno rispetto all'altro. Rigettando completamente l'impostazione narrativa del film classico, alcuni titoli si sono sempre contraddistinti per la ricercatezza formale che, a fronte di una certa autoreferenzialità, infonde in queste opere una compiutezza difficilmente raggiungibile altrimenti. In particolare si presta particolarmente a questo scopo la pratica del found-footage, una modalità espressiva consistente nella selezione, modifica e connessione in fase di montaggio, di frammenti di girato già esistenti. Una dei più rappresentativi esponenti di questo modo di fare cinema è Alina Marazzi, recentemente uscita al cinema con il primo dei suoi lungometraggi che, abbraccia invece gli stilemi tipici della narrazione; l'uso del found footage si ritrova invece tanto in Vogliamo anche le rose quanto in Un'ora sola ti vorrei.

Tutti questi lavori sono stati (ampiamente preceduti) dal lavoro di Grifi, che fra il 1964 e il 1965 ha composto, assieme a Baruchello, uno dei più grandi manifesti della demistificazione cinematografica che mi è mai capitato di vedere. Abbandonando completamente l'ottica di dover narrare una storia, il regista si prende la libertà di ricercare modi nuovi e inesplorati per connettere le immagini fra di loro, sfruttando il potere evocativo del montaggio nella sua forma primigenia (il riferimento ad Ejzenstejn e all'effetto Kulesov non può non arrivare). 

Frammenti dei generi principe della cinematografia occidentale (western, noir/poliziesco, drammatico, kolossal a sfondo storico) sono interpolati fra di loro con l'unico scopo di mostrare la natura artificiale e intrinsecamente negoziale di una modalità di produzione e - soprattutto - di visione che troppo spesso viene contrabbandata come l'unica possibile. Il "documentario" di Grifi è un grido potente che scuote dalle fondamenta la struttura stessa del modo attuale di fare cinema, cercando di demolire l'impianto della communis opinio secondo cui il cinema è essenzialmente un luogo di svago, dove immergersi passivamente in una storia cui possiamo accordare la nostra buona fede per un tempo di un'ora e trenta circa.

C'è un altro modo di approcciarsi alle immagini, che per la loro stessa natura di realtà mediatizzate, non smettono mai di offrirci possibilità di protagonismo e di attenzione. Sono molti i titoli che, anche in maniera meno estrema, tematizzano la centralità dello spettatore nella costruzione del discorso e del senso filmico. Grifi e tutto un certo genere di cinema sperimentale ha portato all'apice questa tendenza, che però - è bene ricordarlo - è inscritta nel codice genetico della settima arte. Se questo tipo di immagini è andata perduta è certamente colpa nostra che, abituati ad esplosioni e fiabe postmoderne autoconclusive, non riusciamo a vedere dietro le immagini, in quello spazio interstiziale che è pronto a farsi abitare dal nostro sguardo.
VOTO: 10/10

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