lunedì 27 maggio 2013

Easy rider



Easy rider di Dennis Hopper - Genere: drammatico - USA, 1969

Negli anni Sessanta il cinema mondiale era stato completamente travolto, nei metodi di produzione e nel linguaggio espressivo, dalla nascita del paradigma moderno grazie alle suggestioni provenienti prima dal Neorealismo italiano e poi dalla Nouvelle vague francese. Anche lo star system americano, ben capendo quanto fosse importante adeguarsi alle nuove esigenze, si riformò nel profondo abbandonando lo stereotipato ed edulcorato sistema del "classico". La "Nuova Hollywood" proponeva al suo pubblico film nuovi che decostruivano la mitologia edificata fino a quel momento, mettendo fortemente in crisi il ruolo divistico del protagonista e puntando le luci sui recessi nascosti, sulle ombre, sul senso della crisi e dell'incertezza.

Questa nuova tendenza, per molti critici, inizia proprio con questo film di Dennis Hopper, che oltre al regista conta nel cast anche Peter Fonda e uno splendido Jack Nicholson. In Easy rider riescono a convergere e a convivere senza difficoltà (anzi, rinforzandosi a vicenda), un assetto narrativo definito anche se in maniera molto debole e una ricerca stilistica di alto livello. La trama a maglie larghe è facilmente intuibile: i dialoghi sono semplici e più che con la voce i personaggi si esprimono in senso fisiognomico o mimico (il che è praticamente una costante quando c'è Nicholson inquadrato). I volti diventano specchi su cui si inscrivono le ansie e le aspettative di una generazione magmatica e in movimento, generazione cui i due protagonisti appartengono tangenzialmente e dalla quale però sono così fortemente contaminati.

La grammatica visiva viene impiegata in tutte le sue possibilità: campi lunghi e inquadrature alla John Ford accolgono il rumoroso passaggio delle motociclette dei due centauri che, correndo verso il carnevale di New Orleans, sono alla ricerca di un viaggio che in realtà appare frivolo e senza meta. I costanti riferimenti al genere del western contribuiscono a dare a tutto il lavoro di Hopper un'aria fortemente demistificatoria, come se lui e Fonda fossero i nuovi cowboy, disilluse vittime di un sistema che si è ripiegato su sé stesso. L'odio con cui i cowboy del cinema classico guardavano agli altri, i loro avversari, ora ritorna indietro e il conflitto si polarizza attorno all'idea di libertà/assoggettamento alle regole del vivere sociale. 

Capitan America, in sella alla sua motocicletta, rappresenta il mito della "Gioventù bruciata" di Kazan, che - conquistata finalmente la libertà - ne scopre anche i risvolti più anarcoidi e distruttivi, andando a morire proprio quando la destinazione sembrava raggiunta. C'è da chiedersi se davvero ci fosse una destinazione; il film è del 1969 e quindi si colloca proprio nel momento di massima crisi generazionale, in cui gli hippies dovevano fare i conti con la voce che avevano guadagnato urlando contro i propri genitori.

Tutto è raccontato con una disincantata ma non per questo meno drammatica sensazione di precarietà, di pericolo dietro cui si adombra una sorta di nostalgica adorazione del passato. La scena del cimitero, splendida per impostazione fotografica e per l'uso del montaggio (ma questo vale in particolare per tutto il film), è rivelatrice: il pianto di Fonda mentre abbraccia la statua della Madonna, perso nel ricordo anacronistico della madre scomparsa, è il grido reale di una generazione che - conquistata l'indipendenza - non può evitare di pensare melanconicamente a ciò che ha abbandonato.
VOTO: 9/10

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