domenica 16 febbraio 2014

Persona



Persona di Ingmar Bergman - Genere: drammatico - Svezia, 1966

Del cinema di Bergman ho già avuto modo di occuparmi parlando dei suoi film probabilmente più celebri. Sia ne Il posto delle fragole che negli apocalittici arrocchi de Il settimo sigillo il regista svedese ha messo in forma una riflessione disillusa ma sensibilissima sull'ontologia umana, sul senso dell'esistenza e sulla nostra destinazione ultima. Sono elementi che ritroviamo puntualmente anche in Persona, spinti fino all'eccesso anzi ed inoltre arricchiti da tutta una serie di suggestioni che nei due lavori precedentemente citati rimanevano secondarie o in stato di latenza. Tanto basta per qualificare Persona come il mio preferito fra i film di Bergman visti fin'ora. Scegliendo ancora una volta Bibi Andersson come protagonista, Bergman compone un dramma psicologico di notevole complessità narrativa che, nonostante questo, si regge solamente sulle capacità espressive dei volti: la figura stilistica più utilizzato è il primo piano, che ritaglia squarci drammaturgici intensi e giocati tutti sul cromatismo b/n. Attraverso uno stile à la Dreyer, Bergman ci regala un'opera penetrante, che non contraddice i presupposti della sua poetica, ma anzi li rafforza pur ponendosi al limite anche dello stile moderno di cui lo svedese è uno dei massimi rappresentanti.

Tutto il film è costellato da continui riferimenti alle avanguardie artistiche e ai loro stilemi tipici, che si percepiscono soprattutto in alcune parti ben circostanziate della pellicola. Sono gli spazi della mente, gli stessi occupati dal sogno ne Il posto delle fragole. Luoghi di un'indagine più libera da vincoli narrativi, dove l'immagine ha lo spazio e la forza di poter parlare di per sé, svincolandosi finalmente dalle esigenze dell'aneddoto (già non troppo presenti in Bergman, per la verità). Attraverso un ricorso continuo alla discontinuità di montaggio e tramite l'inserzione di frammenti quantomai eterogenei nella trama delle immagini, il tessuto di Persona diventa straniante e defamiliarizzante, destabilizzando il nostro rapporto con l'immagine così come lo è quello della Andersson con sé stessa. La storia terapeutica dell'attrice interpretata da un'efficacissima Liv Ullman (veramente dreyeriana in quanto autoreclusasi nel mutismo) diventa il pretesto per una riflessione sulla natura della nostra personalità e sulle possibilità della sua contaminazione, entro un periplo vertiginoso che non senza riferimenti metacinematografici porta alla fusione/irriconoscibilità dei due personaggi.

Una nota di sincera ammirazione la meritano a questo riguardo proprio l'incipit e la conclusione, veri e propri momenti in cui l'immagine viene accesa e spenta attraverso un'autodenuncia della natura porosa e ultrastratificata della cinematografia. Così la rapida successione di frammenti del cinematografo serve ad azionare il meccanismo di immersione nell'immagine, che sarà però costantemente frustrato dalle scelte stilistiche e narrative di Bergman. Persona rimane un film complesso e affascinante, che vale senza dubbio la pena di guardare se si cerca un cinema di qualità, in grado di parlare allo spettatore a più livelli e, (soprattutto?) di parlare di sé stesso.

VOTO: 10/10

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