lunedì 24 febbraio 2014

American Psycho



American Psycho di Mary Harron - Genere: thriller - USA, 2000

Tratto da un fortunato e omonimo romanzo, American Psycho, dominato dal gigantismo attoriale di Christian Bale (che da qui una buona prova di sé, ben prima della serie nolaniana) è senza dubbio uno dei film più controversi dello scorso decennio anche se, almeno in alcuni punti, si potrebbe meglio considerare uno degli ultimi prodotti anni '90. Significativamente la vicenda si situa ancora più indietro riscrivendo (o descrivendo?) l'immaginario yuppies anni '80. I favolosi anni Ottanta, l'epoca dei consumi sfrenati, della corsa azionistica di Wall Street, l'età d'oro dell'America prima della caduta e - sopratutto - l'epoca del riflusso. Siamo nel momento in cui la spinta propulsiva che aveva animato la contestazione giovanile con i suoi postumi politicizzanti si arresta e lascia spazio ad un'epoca passiva, dove il cittadino diventa spettatore e consuma merci e immagini ad un ritmo prima impensabile. Lo si vede bene nel film della Harron, dove la televisione e i telefoni cellulari, insieme alla musica registrata e portatile diventano i simboli di un certo status sociale. 

Anche Bale, nei panni di Patrick Bateman (l'assonanza con Norman Bates non è certamente casuale, credo), rappresenta l'americano tipo del periodo, o meglio il modello a cui tutti volevano ambire. Ricco, ben vestito, ossessionato dalla cura del corpo e dalla rimozione della più piccola traccia di impurità da sé e dal suo ambiente, Bateman rappresenta perfettamente l'uomo metrosexual (l'insistenza sul fisico statuario di Bale non è derto casuale) e schizofrenico che, risucchiato dal flusso della droga e degli stimoli allucinanti, finisce con il non sapersi più controllare. Tutta la vicenda di American Psycho ruota attorno al tentativo, sempre più difficile e meno riuscito, di nascondere la polvere sotto il tappeto (o i cadaveri nell'armadio): la follia omicida di Bateman, che significativamente agisce senza motivo, sembra essere guidata soltanto dalla sua incapacità di cogliere il reale nel suo farsi, vittima com'è di uno sguardo insincero nei confronti del mondo esterno.

Bateman è folle perché, chiuso nel suo narcisistico isolamento individualista, non è più in grado di comunicare con l'esterno se non attraverso le immagini. Solo con dei surrogati di realtà il nostro protagonista riesce ad avere un dialogo almeno in qualche misura efficace, che non si assesti cioè su frivole successioni di pranzi eleganti. In questo Bateman è figlio della sua epoca, di un momento storico nel quale per la prima volta, si consuma in maniera più forte che nel passato, quello scollamento realtà/immagine a cui la contemporaneità ci ha così profondamente abituato. Nel complesso il film della Harron è bello e interessante, per quanto non rappresenti certo una delle stelle assolute nel firmamento cinematografico; mi dispiace che sia stato snobbato ingiustamente da molti.

VOTO: 7/10 

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