martedì 24 settembre 2013

Moebius



Moebius di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2013

Reduce dall'ingombrante successo meritorio di un Leone d'Oro nel 2012, Kim Ki-duk si è ripresentato quest'anno a Venezia con il controverso film fuori concorso Moebius. Dopo il drammatico minimalismo di Arirang, altro titolo contestatissimo e non da tutti apprezzato, e la violenza visiva di Pietà, il talentuoso regista coreano ritorna ad indagare il tema delle relazioni familiari (lo aveva fatto con il suo ultimo lavoro e con diversi dei precedenti, fra cui certamente svetta per fattura e fortuna Ferro 3: La casa vuota), con una capacità di penetrazione visiva certamente fuori dal comune. Anche in questo caso la semplicità della trama è la conditio sine qua non per un lavoro sull'immagine che si esprime in questo caso soprattutto con una cura maniacale per la scelta dell'inquadratura, strategia che - come avremo modo di dire - non da' sempre i propri frutti. La vicenda è mossa da un episodio di evirazione familiare, episodio topico da Catullo in poi (si ricorderà che l'Evirazione di Attis è uno dei più celebri carmina docta del poeta latino), utilizzabile soprattutto - e questa è la direzione che sembra prendere Kim - per rileggere in chiave conciliante o conflittuale la dinamica del complesso edipico in psicanalisi. 

La scelta di azzerare completamente la sfera dialogica (opzione già sperimentata in L'Arco, primo film a raggiungere il massimo dei voti in una recensione su questo blog, precedentemente ospitato da wordpress) non appesantisce eccessivamente l'incedere della vicenda e fa in modo che lo spettatore sia chiamato a ricostruire la dinamica degli eventi e la strutturazione psicologica dei personaggi soltanto attraverso il divenire della loro gestualità. Si tratta di una decisione fortemente sperimentale che però non sempre sembra sortire l'effetto sperato: in particolare non ho trovato felice il continuo rendere conto delle ricerche che il padre del protagonista compie su internet per informarsi circa le possibilità di cura per il figlio. La cosa poteva funzionare la prima volta, ma il fatto che il regista ci mostri di continuo sequenze del genere lascia legittimamente sospettare che proprio a questi passaggi egli affidi la possibilità di decodifica del pubblico: il silenzio dei personaggi poteva invece essere usato in maniera più intelligente e una diegesi più ellittica avrebbe favorito una visione ancora più consapevole.

Altro punto abbastanza dolente riguarda proprio lo sviluppo delle relazioni fra i tre protagonisti (tutti gli altri sono accessori; la rosa potrebbe essere estesa a quattro se si includesse anche l'amante del padre di famiglia, ma la nostra scelta si può facilmente giustificare facendo notare che essa è interpretata dalla stessa attrice che impersona la moglie). Soprattutto nell'incipit e nella parte finale emergono alcune incongruenze comportamentali, che rendono la vicenda meno realistica del dovuto: questo di per sé non è un male, ma visto che Kim ha optato per un'orchestrazione fortemente legata alla sfera fenomenica, queste fratture finiscono con l'avere un effetto sbalestrante e, in ultima analisi, ingiustificato. Un' ultima annotazione deve essere fatta in merito a ciò che il regista sceglie di mostrare: come abbiamo già detto tutto l'universo narrativo è mosso da un Sacro Graal (il riferimento non è casuale) che si concretizza nell'organo sessuale maschile. Un'impostazione di questo genere richiede e sembra promettere la visione di immagini disturbanti presentate senza alcun tipo di censura, in pieno accordo con quell'aria sporca e materica che il regista aveva proposto già in Pietà. Così non è però e in tutte le sequenze potenzialmente shockanti viene scelto un punto di ripresa che, in un modo abbastanza infantile e tipico più della retorica televisiva che di quella cinematografica d'autore, maschera continuamente l'oggetto in questione. 

Ho sempre trovato abbastanza fastidiosa la mania autocensoria di molti registi e di certo non mi aspettavo di vederla messa in atto da un autore asiatico e provocatore come Kim Ki-duk; se Bernardo Bertolucci ha mostrato senza difficoltà le nefandezze sessuali dei tre protagonisti del bel The dreamers, perché Moebius sceglie di chiudere gli occhi al suo pubblico? La sensazione che si ricava da questa scelta, più o meno consapevole che sia, è quella di una forte indecisione stilistica, che indebolisce di molto le possibilità estetiche della pellicola. Nel complesso il film è comunque abbastanza interessante, ma l'ho trovato decisamente al di sotto delle capacità del suo autore e, quel che è peggio, ben lontano dalla vena sperimentale e provocatoria che aveva animato i suoi titoli precedenti. 

VOTO: 5/10

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