lunedì 13 gennaio 2014

Cesare deve morire



Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani - Genere: drammatico - Italia, 2012

Pluripremiato film italiano dello scorso anno, candidato agli Oscar e insignito dell'Orso d'oro a Berlino, Cesare deve morire rappresenta una via interessante del cinema italiano contemporaneo, la dimostrazione che c'è ancora qualcosa da fare e da raccontare. Sorta di documentario (ma il termine mi pare riduttivo, in questo caso) sulla messa in scena del Giulio Cesare da parte dei carcerati di Rebibbia. Al di là dell'indubbia qualità tecnica, resa evidente da un uso sapiente del bianco e nero che modella visi e corpi scavandoli in modo da farli apparire attualissimi e arcaici nel contempo e dalle inquadrature sempre efficaci, il film si lascia ricordare con piacere per la sua capacità di sollevare diverse problematiche di punta del discorso sul cinema e sull'immagine in generale.

Anzitutto, la metarappresentazione: noi stiamo guardando un film che ci racconta del dietro le quinte di uno spettacolo teatrale del quale, per giunta, vediamo solo poche parti (all'inizio e alla fine). La nostra visione coincide con quella degli spettatori veri soltanto in quei momenti, mentre per tutto il resto del tempo noi siamo dei voyeur che vedono lo svelamento del meccanismo, la struttura che sta dietro alla macchina produttrice di finzioni. Vediamo più degli altri e, nel contempo, comprendiamo di più: capiamo quali sono le segrete connessioni fra i passi shakespereani e la vita reale e attraverso questa connessione possiamo meglio apprezzare anche la complessità dell'opera letteraria.Un'altra dimensione molto interessante è la coralità: sebbene i protagonisti del dramma-film siano solo un drappello di delinquenti con cui però non possiamo non familiarizzarci e per i quali (anche quando veniamo a conoscenza dei loro reati), non possiamo non provare simpatia, tutta la prigione viene coinvolta nella costruzione dell'opera, cosa che permette ai due registi di creare spazi interstiziali in cui ragionare sulla condizione del segregato (il vociare dei pensieri durante la notte, l'affacciarsi alle grate durante il discorso di Bruto).Infine il colore: abbiamo già accennato alle qualità del bianco/nero, che però viene sostituito dal colore all'inizio e alla fine dell'opera. Sono i momenti in cui i nostri protagonisti sono in scena, con i loro costumi e rappresentano il dramma di cui abbiamo visto la gestazione e del quale ora apprezziamo il completamento. Rivediamo due volte le stesse scene, che culminano con il ritorno dei criminali in cella: il loro è un tempo immobile, che non cambia e si anima solo nel tempo dell'arte (geniale la frase: da quando ho conosciuto l'arte questo luogo mi sembra una prigione). 

Siamo di fronte - è evidente - a un film complesso, da leggere in maniera polisemica come risposta ai grandi problemi dell'immagine, della sua rappresentazione e del rapporto fra le arti letterarie e quelle sceniche (il teatro e, appunto, il cinema). Il film è molto scorrevole e questo dovrebbe bastare come invito a chiunque ad approcciarsene come a un prodotto interessante anche per chi non è colpito da queste problematiche ma vuole apprezzare un lacerto della vita dietro le sbarre, della quale i Taviani sanno cogliere in maniera per nulla aneddotica la drammaticità.

VOTO: 8/10

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