giovedì 31 maggio 2012

Le onde del destino - Recensione


Le onde del destino di Lars Von Trier - Genere: drammatico - Danimarca, 1996

Film in un prologo, 8 capitoli e un epilogo. Bess ha deciso di sposare Jan, tecnico su una piattaforma petrolifera, nonostante il parere contrario degli anziani della comunità che non apprezzano l'ingresso di un 'estraneo'. Bess, che ha un dialogo interiore con Dio, ama Jan con tutta se stessa, corpo e anima. Un giorno lui rimane vittima di un incidente sul lavoro che lo immobilizza per sempre su un letto. Chiede allora a Bess di rifarsi una vita perché la comunità non le consentirà mai di divorziare: deve fare l'amore con un uomo e poi descrivere a Jan quanto accaduto. A lui sembrerà di rivivere sensazioni che non può più provare. Bess inizialmente oppone resistenza ma poi decide di cedere. Per amore.

Era il lontano 1996 e Von Trier non era ancora il regista anticonvenzionale e simbolista che tutti oggi conosciamo e (forse) apprezziamo. Eppure già in questo film, drammatica e vibrante storia dalla solida struttura narrativa (divisa appunto in capitoli, come sarà poi Dogville) si percepisce già il tocco di Von Trier, la sua cifra poetica e stilistica. E' una storia forte, drammatica, realistica ma al tempo stesso trascendente (simile forse a quella di Dancer in the dark per questo). La vicenda di Bess McNeil, elemento alieno in una società teocentrica e patriarcale di una dimenticata cittadina affacciata sul mare del Nord, si situa al di fuori di qualsiasi schema socialmente accettabile per il piccolo e ottuso assembramento umano in cui vive; diventa quindi figura dell'emarginazione, della difficoltà di relazionarsi (cfr. sempre Dogville) ma inizia già ad aprirsi sull'altro grande tema del cinema vontrieriano e cioè la critica agli istituti sociali, in particolar modo alla famiglia (cfr. Melancholia e Antichrist) e alla Chiesa.

E' un film quasi lynchiano questo che von Trier confeziona, un inno dedicato alla narrazione, con un repertorio tecnico che non esorbita dalla normale struttura di un film commerciale ma che ad ogni inquadratura presenta un elemento di tensione, una potente scossa sottocutanea che traccia un film parallelo, un itinerario di suggestioni e immagini che sgancia il film dalla mera narratività e lo eleva a vera e propria creatura artistica. 
La fotografia dai colori tenui traccia ambienti poveri e fatiscenti, modesti ed austeri. Eppure quest'austerità diventa presto stancante e appare fuori tono se messa a confronto con i folli movimenti sincopati di Bess, che pur perpetuando quegli stessi colori li mette in movimento con il suo incessante destreggiarsi fra gli ambienti e le situazioni. 
Il montaggio è lineare, si basa principalmente su figure piuttosto classiche e non cerca ossessivamente una scomposizione del piano narrativo o dell'immagine (cosa confermata anche dalla "rigida" divisone in capitoli, che non servono a estraniare lo spettatore ma a condurlo nella storia); fanno eccezione solo alcuni momenti in cui alla successione di raccordi si sostituisce una modalità di ripresa più concitata e indecisa, ma è un momento marginale; Von Trier si lega alla narrazione convenzionale e affida il suo messaggio alla forza delle pure immagini.

Immagini splendide da un punto di vista compositivo, che tracciano come abbiamo già ricordato un doppio movimento, come se l'universo diegetico si sdoppiasse e noi vivessimo la stessa storia da due punti di vista, quello di Bess e quello di tutto il resto del "mondo". Due prospettive diverse e apparentemente inconciliabili: da una parte il movimento ascensionale di Bess verso la santità e la salvezza di Jan, dall'altro il medesimo movimento, percepito da tutti gli altri come una caduta nel baratro. Le due pulsioni troveranno però la loro unione nel finale che, seppure un po' didascalico (le campane celesti ricordano vagamente il futuro avvicinarsi del pianeta Melancholia), garantisce allo spettatore una conciliazione con il film e una completa immedesimazione nel tessuto narrativo, nella storia di questa Maddalena contemporanea e così profondamente umana.

Nessuna sperimentazione estrema, nessuna provocazione spettatoriale, "solo" un film perfettamente riuscito, a metà fra il narrativo e il simbolico.

VOTO: 9/10

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