lunedì 16 luglio 2012

Psycho (di Gus van Sant) - Recensione


Psycho di Gus Van Sant - Genere: thriller - USA 1998

Marion Crane è un'impiegata modello in un'agenzia immobiliare. Quando il suo capo le consegna una busta piena di soldi da depositare in banca, la donna decide di rubarli e fuggire. Durante una notte di pioggia deciderà di fermarsi al Bathes Motel, scelta che le costerà molto...

Nel 1998 la cosiddetta Terza Hollywood muove i suoi primi passi e iniziano a fioccare i remake dei film di successo. Van Sant, che in quel periodo decide consapevolmente di prestarsi ai giochi delle grandi case di produzione, sceglie a sua volta di girare un remake, quello del grande capolavoro di Alfred Hitchcock. Pur realizzando in maniera ineccepibile il suo compito, il regista non rinuncia a porre la propria firma sul lavoro che sta componendo, creando un prodotto innovativo e profondamente incompreso, vicino al regno delle videoinstallazioni più che a quello della cinematografia propriamente detta. Quello che van Sant decide di fare è rigirare da capo il film, copiando fedelmente le inquadrature del regista e ripetendo la lezione "a memoria" si potrebbe dire. Tutto è profondamente hitchcockiano, in un film che sembra essere quasi senza padre.

Questo a una prima lettura, neanche troppo superficiale. Bisogna scavare un po' fra le immagini, ma con un po' d'occhio e non senza fatica si possono trovare i molti "easter eggs" che van Sant ha posizionato nei fotogrammi della sua pellicola. Da un punto di vista macroscopico, invece, van Sant tradisce il dettato di Hitchcock inserendo in due punti cruciali del film (la scena della doccia e la morte di Arbogast) il suo marchio di fabbrica, le nuvole. Le nuvole come corpi metamorfici che si trasformano continuamente, come un velo che impalpabile si appoggia sui corpi e sulle immagini, permeandoli. In quel breve istante, quando le nuvole in evoluzione interrompono la fluidità della sintassi filmica, noi siamo con van Sant dietro la macchina da presa, partecipiamo di un divenire produttivo e artistico che ci mette di fronte a un problema metacinematografico di proporzioni titaniche. 

Come analizzare un film come quello di Van Sant? Apprezzato dalla critica, ma stroncato dal pubblico, il film-fotocopia diverge dall'originale per il colore. L'aggiunta però sembra stonare, come se quei colori non appartenessero alle immagini, non calzassero loro in modo adeguato. Il regista sceglie colori accesi, metallici e materici per riportarci negli anni Sessanta, gli anni di Hitchcock, di Warhol e della Pop Art, dove tutto era stroboscopico e sovrabbondante. 

Non è possibile fare un'analisi tecnica di un film dove un regista ne copia un altro, dove sceglie consapevolmente di ridurre al minimo i propri spazi di manovra, di darsi una libertà di movimento infinitesimale per mettere alla prova le armi di un linguaggio che verrà poi fatto esplodere in Gerry. Psycho è il passaggio obbligato, il superamento di un totem troppo ingombrante per essere ignorato, l'ultima sfida da Hollywood prima dell'abbandono e della sperimentazione più pura e metafisica. Van Sant, che ribalta abilmente lo stereotipo sessuale in più punti, è un impagliatore così come lo è il folle Norman del film, prende il corpo del lavoro di Hitchcock e lo mummifica, mettendolo dietro una vetrinetta, o uno schermo da esposizione. 

Uccidere il proprio padre per passare oltre. Non una copia, ma una splendida meditazione sul linguaggio del cinema.

VOTO: 8/10

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