martedì 1 maggio 2012

Le relazioni pericolose - Recensione


Le relazioni pericolose di Stephen Frears - Genere: drammatico/storico - USA, Gran Bretagna, 1998

Francia fine '700: un po' per gioco un po' per vendetta, la marchesa di Merteuil macchina col visconte di Valmont un complicato intrigo di seduzione, amore e abbandono, intrigo che sfugge di mano a entrambi. 1° film hollywoodiano del britannico S. Frears che, nel raccontare in immagini il sulfureo romanzo (1782) di strategia erotica di Choderlos de Laclos, si è servito della riduzione teatrale (1986) del suo compatriota Christopher Hampton, autore anche della sceneggiatura, conservandone la struttura e l'atteggiamento di sogghignante sarcasmo verso la vicenda e i personaggi.

Vincitore di vari premi oscar, fra cui uno meritatissimo per i costumi, Le relazioni pericolose è probabilmente uno dei migliori film in costume che mi sia capitato di vedere. Anche se risente un po' del fatto di essere un adattamento (in particolare pesa il passaggio teatrale, di cui il film recupera senza troppe difficoltà alcuni procedimenti di impostazione), Frears fa di questa pellicola un' opera originale, che riflette contemporaneamente non solo sui contenuti esposti nella trama ma anche sul modo in cui questi contenuti sono veicolati visivamente. 
Per non rischiare di dimenticarmene in seguito, una nota in apertura che vuole sottolineare le splendide interpretazioni dei due protagonisti, Glenn Close e John Malkovich che rendono questo film quello che è: è solo grazie alle loro interpretazioni davvero magistrali che tutto si eleva ed esce anche dal proprio contesto, "trascendendo ogni controllo". 

La trama è quantomai complessa e articolata e si sviluppa attraverso una continua serie di aggiunte, un accumulo progressivo di elementi che saranno poi magistralmente fatti esplodere nel finale. Da questo punto di vista sono emblematiche le due scene che incorniciano il tutto, quella iniziale e quella finale. Se all'inizio vediamo i due protagonisti che si svegliano, si abbigliano e si truccano, alla fine della vicenda quello che ci appare è un quadro fisso della Close che si strucca. E allora, ferme restando queste due sequenze, tutto ciò che succede nelle due ore di film può essere considerato come un progressivo incrinare la superficie, un lento ma inesorabile mostrare le ingenuità egoistiche dei personaggi, che inseguono incessantemente un obiettivo, senza neanche sapere esattamente quale sia. 
Ed è proprio da questo punto di vista che il film trascende sé stesso, abbandona le (pur bellissime) atmosfere barocche e le musiche d'aria vivaldiana per tentare in maniera efficacissima di dettare una parabola comportamentale, un declino delle sicurezze umane, che risulta attualissimo ancora oggi. 

Da un punto di vista di montaggio il film non esorbita rispetto all'impostazione classica del film, ma non si sente neanche la necessità di strafare. Tutto è perfettamente controllato e preciso, così come i piani dei due personaggi principali, tutti intenti a costruire una rete di inganni e tradimenti. Conseguentemente lo spettatore è catturato dalla bellezza delle immagini (a tratti così ben composte da sembrare quadri), si immedesima nei personaggi e rimane come imbrigliato in un sistema di inquadrature che non gli lascia scampo. 
Anche qui, tutto cambia nella scena finale: come Glenn Close anche il montaggio si perturba, modificandosi per permetterci di cogliere nient'altro che il viso statuario e sconfitto di una donna che ha perso la sua battaglia.

Probabilmente uno dei film più narrativi che abbia mai visto, uno di quelli che ricerca meno (almeno in senso esplicito) una sua propria collocazione nel panorama estetico eppure (con mia grande sorpresa) uno dei migliori esempi di come un film di genere possa diventare un oggetto degno della massima considerazione.

VOTO: 9/10

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