mercoledì 2 maggio 2012

Da morire - Recensione


Da morire di Gus van Sant - Genere: drammatico/commedia - USA, 1995

Suzanne Stone è una bionda e bella ragazza di Little Hope con un sogno nel cassetto: sfondare in televisione. Sposatasi all'adorante Larry Maretto, figlio di un ristoratore italo-americano in odore di mafia, si risolve a farlo fuori nel momento in cui l'uomo avanza la richiesta di un figlio e di una vita borghese e provinciale, inconcepibile ostacolo sulla strada di Suzanne per il successo. Sfruttando il suo potere di seduzione su tre adolescenti complessati, la Barbie killer mette a segno il suo colpo, ma non tutto va secondo i piani. 

Film vansantiano del periodo hollywoodiano e per questo molto sottovalutato da alcuni (non a torto, visto che gli altri due titoli del periodo ossia Will Hunting e Scoprendo Forrester sono fra le punte più basse del cinema del regista). E in effetti in Da morire non c'è nulla di estetico, almeno a una prima occhiata. Non c'è il fascino da viaggio on the road di Mala Noche, non c'è la fine indagine linguistica che rende memorabili Elephant o Last days e neanche il melodrammatico intreccio di L'amore che resta. Il film in questione è assolutamente narrativo e non eccelle dal punto di vista linguistico, è veramente molto hollywoodiano, ma al tempo stesso non si riduce a mera imitazione di un modello ormai esasperato.

Ciò che garantisce a Da morire l'originalità necessaria a elevarsi al di sopra del cinema commerciale americano medio sono soltanto - in effetti - alcuni espedienti messi in atto dal regista, attraverso cui Van Sant costruisce un melange transcinematografico che sembra già preannunciare alcune soluzioni dei film successivi. 
Innanzitutto la storia comincia a disarticolarsi, si rifrange in mille prospettive diverse, tanto che per gran parte del film lo spettatore non si sa raccapezzare in mezzo alle testimonianze non sempre collimanti di chi ha vissuto le vicende: in questo pulviscolo di opinioni, voci di corridoio e simili, la vera immagine di Suzanne Stone si compone per addizioni incrementali, un po' come l'immagine televisiva è composta da una serie di unità di grana più fine. 
Van Sant realizza un film che colpisce al cuore il medium televisivo, mostrandone le pericolose pieghe non solo nell'alienazione prodotta nei tre adolescenti, ma anche (e soprattutto) in quella prodotta in Suzanne, che come un Fitzcarraldo contemporaneo, vive assolutamente al di fuori della realtà, in un mondo tutto suo e del quale la televisione è l'unica signora e padrona.

La Kiddman è qui al suo massimo, rende benissimo la parte di Suzanne Stone, che sembra quasi disegnata per lei. Non è un caso in effetti, dal momento che anche l'alter-ego reale della protagonista (il tutto è ispirato a un fatto di cronaca, com'è tipico in Van Sant) viveva nel sogno di fare la televisione e quindi aveva abbandonato la sua reale fisicità per coltivare un'immagine di sé che potesse essere telegenica (sono frequenti i richiami alla necessità di rimanere "in linea" e di non avere imperfezioni).

Il film vansantiano, insomma, pur senza voler toccare le vette artistiche dei suoi capolavori, riesce comunque a destreggiarsi dignitosamente all'interno del panorama filmico, anche grazie alla geniale trovata (che ricorre in ogni film del regista) di ibridare l'immagine filmica con delle sequenze prese da altri supporti (super 8, o immagine televisiva in questo caso). Una commedia nera riuscita, mediamente divertente anche se a volte un po' troppo ingenua e stereotipica.

VOTO: 7/10

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