giovedì 26 aprile 2012

House of tolerance - Recensione


House of tolerance di Bertrand Bonello - Genere: drammatico - Francia, 2011

In Francia, agli inizi del XX secolo, l'Apollonide è una delle case chiuse maggiormente conosciute e apprezzate dal pubblico maschile. Qui si incrociano le storie delle ragazze, prostitute d'alto borgo ben educate che, spesso per colpa dei loro debiti, sono costrette a vendersi ai clienti abituali della maison. 

Film presente nella selezione ufficiale del Festival di Cannes nel 2011, House of tolerance (questo il titolo internazionale, mentre il titolo originale si può leggere nella locandina) si presenta come una claustrofobica storia di disillusione, di sesso e mercificazione. E' un'opera interessante, che offre sicuramente vari spunti di riflessione: il rischio è quello di lasciarne qualcuno per strada, perciò è bene procedere gradualmente.
Da un punto di vista di ciò che si vede, il film conta su una vera e propria mancanza di trama: sostanzialmente non succede nulla (nel senso classico del termine), eventi piuttosto banali si succedono e modificano progressivamente la vita e la percezione del mondo delle ragazze. L'unico evento traumatico a livello narrativo fa, si potrebbe dire, da cornice al racconto: è posto all'inizio ma viene ripreso alla fine. Si tratta dell'incidente che coinvolge una delle donne della casa (l'Ebrea), che viene sfregiata da un suo cliente il quale - utilizzando un bisturi - le crea un sorriso perpetuo (e qui è inutile il riferimento a L'uomo che ride di Victor Hugo).

Si potrebbe pensare che sia proprio lei, La donna che ride, la protagonista del film ma non è così. Sarebbe stato più semplice certo, ma molto meno interessante. L'Apollonide è un'entità a sé stante la cui storia complessiva si rifrange nelle singole vicissitudini delle sue inquiline. Così lo spettatore è trasportato da una storia all'altra e non riesce a farsi un'idea completa di nessuna di esse. Con un uso sapiente (anche se a volte non propriamente azzeccato dello split screen), il regista costruisce una narrazione simultanea, che nei momenti di maggior tensione emotiva garantisce un più efficace coinvolgimento. Su questa molteplicità di sguardi si innestano buone prove recitative, di un cast nel complesso efficace. 

La pellicola procede un po' a rilento nella prima parte ma proprio sul momento in cui tutto sembra perduto e si teme che la noia domini il resto del film (piuttosto lungo peraltro), ecco la svolta. La narrazione si impenna, il dettato registico si fa più serrato e vengono fatti continui appelli visuali allo spettatore. Le scene dell'ultima parte sono certamente le più belle: prima la festa dove la Donna che ride viene esibita (evidente richiamo all'Eyes wide shut di Kubrick) e soprattutto l'ultima festa, la chiusa-chiusura dell'Apollonide, dal sapore malato, onirico e quasi surrealista.
Apprezzabile anche il tentativo di svegliare lo spettatore dal torpore primo-novecentesco con uno squillo visivo finale, un richiamo alla contemporaneità che però ha un po' il sapore del "buttato lì", di una cosa che poteva essere fatta meglio e che invece si perde irrimediabilmente. 

Un ultimo tratto che mi preme sottolineare del film ha ancora a che fare con lo sguardo: non è un caso che nell'Apollonide gli oggetti più comuni siano gli specchi. Essi sono il simbolo perfetto, insieme alla maschera, della mentalità del film, di ciò che esso ci vuole comunicare. Il nostro sguardo spettatoriale, grazie anche ai deja-vù e alle riproposizioni di scene già viste da parte del regista, si perde irrimediabilmente in una miriade di prospettive che generano un effetto labirintico e confusivo. Alla fine non si sa più da che parte stia la verità, cosa sia davvero successo, sotto quale maschera si nasconda il vero svolgimento dei fatti.

Un bel film, insomma. Ha un po' il sapore dell'esperimento riuscito a metà, di qualcosa che sarebbe potuto riuscire meglio e invece rimane un po' lì. Peccato, ma è comunque meritevole d'attenzione

VOTO: 7/10

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