giovedì 10 maggio 2012

Ferro 3: la casa vuota - Recensione


Ferro 3: La casa vuota di Kim Ki-duk - Genere: drammatico - Corea del Sud, 2004

Tae-Suk è un giovane che trascorre le sue giornate entrando nelle case lasciate vuote occasionalmente dai proprietari. Dorme sul divano, si fa la doccia, lava i panni, aggiusta gli oggetti che non funzionano, gioca a golf e si scatta fotografie da solo con la sua camera digitale. Tutto con una leggerezza quasi ultraterrena. Un giorno, entrando in una casa, si accorge c'è una ragazza, Sun-hwa, che ha dei segni di maltrattamenti sul viso. Sono i continui litigi con il marito. Tae-suk, la prende con sé, per vagare insieme nelle case degli altri, e condividere questo strano modo di vivere che trasforma, lentamente, la loro amicizia in amore.

A detta di molti uno dei film più belli degli ultimi dieci anni, Ferro 3 porta la firma di Kim Ki-duk, regista coreano già apprezzato in questa sede per lo splendido L'arco. In questo film, apparentemente molto lontano dall'altro titolo già analizzato molto positivamente, abbiamo senza dubbio la stessa aria di sospensione, quasi mistica che pervade completamente gli spazi e i personaggi. E' un cinema interessante, molto poco americano, un cinema di poesia che si basa sull'evocazione più che sulla narrazione.
La trama è piuttosto semplice, ma sorprendentemente rivoluzionaria, sia per la materia che per il modo linguistico di tratteggiarla. Il nucleo di base del racconto non sembra eccedere dal tradizionale dramma borghese (la moglie picchiata dal marito violento), ma su questa base il regista installa una serie di eccedenze, di  dati ulteriori che trascendono la semplicità di una visione che si sarebbe presto potuta rivelare convenzionale. 

Anzitutto, e questo è un dato sia linguistico che narratologico, i protagonisti non parlano per tutta la durata del film (neanche troppo lungo, un'ora e mezza circa) e questo è quantomai strano per uno spettatore che è abituato al cinema occidentale in generale. Sorprendentemente, almeno per me, il tutto risulta perfettamente calibrato e anche se il protagonista maschile non parla mai e la protagonista femminile spiccica solo qualche parola alla fine del film (un finale, fra l'altro, che vale da solo tutto il resto!), la pellicola non annoia mai, anzi. 
Questa novità, questa eccedenza straniante rispetto ai canoni tradizionali, unita al vagabondare quasi onirico dei due personaggi in case vuote, che non abitano in quanto spazi non connotati dalla loro presenza, contribuisce a trasformare una storia in un dramma, un melodramma nella fattispecie. 

E' un melodramma ben riuscito, che non si risolve in farsa sentimentale ma evoca sensazioni che non vengono mai completamente espresse dalla narrazione: è richiesta un'intensa attenzione da parte dello spettatore per riconfigurare in chiave significante le informazioni, che gli vengono soltanto suggerite e mai affidate in modo completo. Siamo nelle mani di una voce narrante ambigua, che non si capisce se è sospesa in una onniscenza che ci è negata oppure davvero non sa quello che accade davanti ai suoi occhi. E così molti elementi del film rimangono incogniti, o meglio vengono affidati allo spettatore. Non ci viene spiegato quasi nulla, il narratore non comunica con noi, così come i personaggi e alla fine rimaniamo con un pugno di mosche, un nugolo di dubbi che però siamo felici di non aver risolto, come a dire che nella nostra conoscenza non dev'essere per forza sempre tutto spiegato e che i silenzi sono altrettanto importanti rispetto alle parole (emblematica in questo senso la frase finale). 

VOTO: 10/10

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