venerdì 25 ottobre 2013

Attenberg



Attenberg di Athina Rachel Tsangari - Genere: drammatico - Grecia, 2010

 
Presentato alla sessantasettesima Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto (meritatamente) la Coppa Volpi e scelto per rappresentare la Grecia agli Academy Awards del 2012, Attenberg è un film complesso, profondamente contemporaneo e contraddistinto da una ricerca espressiva che si manifesta tramite una notevole politezza di esecuzione. La semplicità rimane dunque la qualità principe di un lavoro particolarissimo che, richiamandosi in maniera piuttosto diretta alle felici realizzazioni di Giorgos Lanthimos (e a Dogtooth in particolare), accompagna in maniera quasi impersonale una diegesi che è ridotta al minimo: la vicenda è semplice e lineare e anche i personaggi coinvolti nel suo sviluppo sono pochissimi; questa rinuncia alla componente patetico-rappresentativa diventa anche qui come altrove la condizione necessaria ad un'indagine più attenta di altri aspetti, più formali che narrativi.
 

L'influenza di Lanthimos, co-produttore del film e addirittura attore nel ruolo di un ingegnere, si percepisce con chiara evidenza nelle due tematiche più importanti dell'intera pellicola, vale a dire il trattamento del paesaggio e - soprattutto - il problema del linguaggio. Come si è già avuto modo di accennare, Attenberg è un film dai toni mininalisti, che fa muovere i suoi - pochi - personaggi  (ma sono davvero tali? Cosa sappiamo di loro?) in un universo spoglio o comunque disabitato. Non ci sono che presenze fantasmatiche nella Grecia di Tsangari, che riprende qui il gusto per gli interni asettici che è proprio di Lanthimos. Anche i pochi individui che fanno da contorno allo sviluppo della narrazione non mutano la realtà dei fatti e il loro passaggio finisce con il rassomigliare a quello delle comete, che attraversano i cieli pur senza mutarne la natura. Anche da un punto di vista visivo la loro presenza si caratterizza per una divisione, essendo sempre divisa da quella delle due protagoniste da un medium (una strada, un vetro etc.), che rende impossibile la comunicazione e il rapporto.
 
Questo ci permette di introdurre la problematica - anche questa volta innegabilmente mutuata da Dogtooth - del linguaggio. Anche se Tsangari non raggiunge i livelli del suo co-produttore nella dissoluzione delle nozioni linguisticamente fondamentali di senso e riferimento, l'attenzione alla parola e al suo potere viene studiata sin dai primi minuti di Attenberg, fondendosi spesso con una attenzione tutta particolare alla sessualità e ai termini che la definiscono. Il punto di massimo di questa ricerca è raccolto nella scena in cui Marina e il padre, seduti su un letto matrimoniale (entro una camera bianchissima!), pronunciano una serie di parole dal suono molto simile, dando il via ad una catena che preso sconfina nell'imitazione del verso animale, fino a far diventare il loro gioco una vera e propria pantomima tutta votata alla mimesi del non umano. E' questo il destino del linguaggio o, forse, la sua base? Il doppio statuto delle parole che spesso recano entro sé il germe del loro contrario; forse è questo il punto di arrivo della ricerca che qui si avvia?
 
E in questo panorama desolato ma non per questo misantropo, la macchina da presa disegna spesso il profilo di questi non-luoghi del contemporaneo ricorrendo a stilemi normalmente espunti dal canone del cinema di consumo: il fermo immagine, riprese lunghe e/o con punto di ripresa fermo, sconfinamento delle azioni nel fuori campo con inquadratura che resta vuota. Tsangari ci propone una sintassi atipica ma ricercatissima, un continuo rimando alla frammentarietà dei linguaggi (filmici, verbali, segnici etc.) che - nella "isteria piccolo borghese" in cui ci ritroviamo tutti confinati, è diventata una costante del nostro modus vivendi.
 
VOTO: 9/10

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