martedì 29 ottobre 2013

Alps



Alps di Yorgos Lanthimos - Genere: drammatico - Grecia, 2011

Il film rivelazione che ha lanciato Lanthimos nel mondo del grande cinema, il pluripremiato Dogtooth, rimane senza dubbio il suo capolavoro. Nell'attesa di poter vedere il suo annunciato The Lobster, il qui presente Alps rappresenta un piacevolissimo intermezzo, ben realizzato ma a mio avviso non all'altezza del suo predecessore. Il cambio di tematiche e - almeno in parte - di poetica, pone infatti questo film su un piano diverso rispetto al lavoro precedente del regista che - come si ricorderà - proponeva una cruda esasperazione degli stereotipi borghesi di vontrieriana memoria, accompagnata da una riflessione sul linguaggio che deve senza dubbio avere affascinato Athina Rachel Tsangari (qui accoppiato a Lanthimos nel ruolo di produttore). 

Alps è un film stilisticamente molto gradevole che, per tutta la prima parte, gioca sullo sbalestramento percettivo dello spettatore, perso in una successione mal coordinata di apparizioni. Col procedere della vicenda (o, sarebbe forse meglio dire, delle vicende?) la situazione si chiarifica e la potenza teorica del lavoro di Lanthimos si mostra chiaramente: i suoi personaggi diventano allora delle "apparizioni" nel senso berkeleyano del termine, nel senso che esistono "a intermittenza" all'interno di un sistema di ruoli altamente codificato. Il meccanismo che sta alla base di questo processo concretizza la celebre teoria del "complesso della mummia", secondo cui la fotografia, il cinema e gli altri meccanismi di riproduzione del reale assolverebbero in ultima analisi una funzione di conservazione a beneficio dei posteri, preservando dalla disintegrazione la memoria di un allora che non è più e la cui rimemorazione viene affidata a un simulacro materiale. 

L'opera consolatoria che i protagonisti, quasi tele bianche su cui le circostanze inscrivono le definizioni caratteriali che li rendono personaggi, mettono in opera dietro compenso assume quindi una funzione assimilabile a questo orizzonte. Ciò non può non suggerire allo spettatore che dietro al discorso di Lanthimos si nasconda un "messaggio" metacinematografico, che proprio queste caratteristiche delle arti visive (e del cinema in particolare), si propone di indagare. La cortocircuitazione che si consuma fra reale e immaginario assume sempre più le forme di una caduta in cui le parti e i ruoli si fanno progressivamente più confusi ed entro cui, alla fine, non è più possibile distinguere quale sia la realtà rispetto alla quale si costruisce il "gioco delle maschere". In altre parole, qual'è la vera vita che la protagonista si è scelta (semmai questa definizione potesse essere valida)? Potremmo essere portati a credere che sia quella di placida infermiera che vive con il padre? Certamente sì, eppure il brevissimo brano in cui lei cerca di indagare il sesso del padre non può lasciarci indifferenti, non può non aprire uno spiraglio di dubbio nelle poche certezze che avevamo ricavato.

Lanthimos realizza un film che non ha in definitiva senso nell'accezione classica del termine. Senza progressione narrativa né caratterizzazione dei personaggi, che alla fine non possiamo neppure più definire tali, rimane "soltanto" un prodotto magistralmente realizzato e in cui regna sovrana la confusione dei ruoli e del senso di realtà che, in modo molto più consapevole di quanto non accada altrove, viene definitivamente messo in crisi.

VOTO: 8.50/10

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