mercoledì 11 aprile 2012

Dancer in the dark - Recensione


Dancer in the dark di Lars von Trier - Genere: drammatico/musicale - Danimarca, 2000

Dancer in the Dark era una canzone cantata, e ballata, da Fred Astaire in Spettacolo di varietà. Ed è la metafora della vita di Selma, operaia arrivata in America dalla Cecoslovacchia, minata da una cecità progressiva che diventerà totale, e che fantastica, appunto, sui musical. Lavora in tutti i turni in fabbrica, si porta a casa altri lavori, non ha svaghi, non ha amori, non ha niente, tranne un figlio che ha la sua stessa malattia, ma che potrà essere operato. Selma risparmia il denaro per l'operazione centesimo dopo centesimo. Quando un poliziotto (Morse) che le sembrava amico le ruba i soldi, tutto precipita.

Mai un film di Lars von Trier è scontato e banale. Fare un musical non è facile, soprattutto se si cerca di realizzare un prodotto originale. I film musicali sono molto connotati dal punto di vista del genere e, salvo la storia, si assomigliano un po' tutti. Dancer in the dark, invece, è assolutamente eccentrico rispetto alla media, e ovviamente vi si posiziona trionfalmente sopra. 
Il film si muove su due registri complementari e perfettamente compenetrati, anche se assolutamente separati e riconoscibili: la realtà, la diegesi narrativa del dramma umano di Selma, e i momenti spettacolari, dove la protagonista da sfogo alla sua vena artistica, al suo sognare ad occhi aperti. 
Ma è un sogno, e niente di più.

Il montaggio segue la biforcazione della storia, con la macchina da presa che insegue tremolante la nostra Bjork ipovedente, salvo poi riprendersi e "classicizzarsi" nelle esibizioni musicali. Ancora una volta la realtà e l'illusione holliwodiana, quella del Fred Astaire da cui viene il titolo della pellicola, si dimostrano inconciliabili. 
Su tutti spicca, ovviamente, Bjork-Selma, vera e propria diva del film. Sarebbe meglio dire anti-diva, perché il suo personaggio intimamente altruista e gentile non ha niente delle classiche protagoniste dei musical. Ma proprio in questa sua semplicità, che von Trier indaga da vicino con la sua cinepresa, sta il suo profondo fascino, che si esprime in un'espressione svanita avvolta in una chioma scarmigliata.

Von Trier non delude mai e questa volta realizza un prodotto originale e splendido, che per molti aspetti della trama ricorda a fortiori il successivo "Dogville" ma anche, almeno secondo me, germi di quella critica alla società borghese e americana (società alla "Blue Velvet" per capirci) che sarà fatta esplodere nel recentissimo e splendido "Melancholia". 
VOTO: 10/10

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