domenica 25 agosto 2013

La grande bellezza



La grande bellezza di Paolo Sorrentino - Genere: drammatico - Italia, Francia, 2013

Raramente mi è capitato di vedere accatastati tanti giudizi positivi attorno ad un'unica pellicola. La soggettività del giudizio estetico è normalmente una caratteristica sufficiente a fare in modo che la critica si divida in maniera abbastanza equanime fra gli ammiratori e i denigratori. Persino nel caso di film veramente brutti è possibile, scavando oltre la patina terrosa della stampa impegnata, trovare un sottobosco di fans che magari di quella pellicola aberrante apprezzano proprio la volontaria scalcinatezza (il caso storico di Ed Wood ce lo ha ampiamente dimostrato). Nel caso del film di Sorrentino, presentato in concorso all'ultimo Festival di Cannes, le voci discordanti sono state ben poche e il voluttuoso scorrere delle immagini di una Roma decadente me ne ha svelato senza dubbio i motivi. 

La grande bellezza è una ricerca, ancor prima che un film. Come tutti gli itinerari della scoperta esso si esprime attraverso un viaggio, che lo spettatore segue completamente ammaliato dalla maestria compositiva di una regia sicura, mai ridondante per quanto spesso incline a concedersi lussi stilistici che i più potrebbero solo sognare. La narrazione è strutturata in maniera fluida, a tal punto che risulta difficilmente imbrigliabile, per quanto le maglie adottabili possano essere ampie, come a confermare ancora una volta il grande assunto di tutto un certo cinema, per cui la narrazione è spesso solo una sovrastruttura da cui è bene liberarsi. Il passeggiare di Jep Gambardella è un filo sufficientemente solido per tenere insieme l'arazzo istoriato che Sorrentino dedica alla città di Roma. 

Com'era stato per L'amico di famiglia, film da poco proposto agli occhi dello spettatori televisivi, anche in questa sua ultima fatica il regista tratteggia un mondo in disfacimento che, come un muro esposto alle intemperie da troppo tempo, si trova perennemente in bilico fra il desiderio ottuso o ostinato di esistere e la consapevolezza dell'oblio che lo avvolge. Roma notturna, illuminata da feste assordanti e accecanti che zittiscono almeno per un po' il sordido vociare degli arrivisti alotoborghesi è una splendida cornice per rappresentare, con tratti quasi dechirichiani nella fotografia e nella gestione degli spazi aperti, una realtà marcia e sordida, doppiogiochista e sporca. 

Jep Gambardella, re della mondanità tiberina, ne è l'esempio più lampante e recupera alcuni dei tratti distintivi dei famosi personaggi sorrentiniani, come la loro titanica e solitaria grandezza. Sì, perché il sessantacinquenne interpretato splendidamente da Toni Servillo, perfetto esempio dell'uomo contemporaneo, si ritrova sempre solo e insoddisfatto, condannato a vivere con un acume acre ma passionale la fastidiosa sensazione di uno scollamento fra il reale e l'ideale che gli altri, persi nel loro smodato desiderio di apparire, sembrano non percepire. Sul suo volto antidiluviano si inscrivono le sofferenze e le delusioni di una sensibilità strozzata dalle contingenze, che solo a tratti, quando il montaggio si fa più libero dal racconto del reale, viene recuperato attraverso le immagini di una gioventù dai tratti quasi irreali. Un ricordo, un breve baluginio che tuttavia è sufficiente per continuare ad esistere, con fatica.

Lo splendido cast messo in piedi per questa antinarrazione dal sapore così drammaticamente nichilista (eccelsa la prova recitativa di Isabella Ferrari fra gli altri, mentre abbastanza deludente perché troppo sopra le righe quella di Sabrina Ferilli) rappresenta con un occhio quasi hopperiano una fiera delle vanità e delle mostruosità che sembra fare eco ad alcune sequenze del vecchio Freaks di Tod Browning. Organismi ai confini dell'umano che fanno di un'esasperazione della loro corporeità il simbolo di un'intera esistenza, come si vede nell'ombrosa sequenza del botulino. 

A rendere questa rappresentazione l'affresco memorabile che è ha concorso senza dubbio una sapienza registica fuori dal comune, attraverso la quale il regista è riuscito ad orchestrare immagini e spazi di una narrazione talmente debole da riuscire solo a promettersi nello spazio ampio di più di due ore di pellicola. L'uso liberissimo della scrittura cinematografica ha permesso di rappresentare la permeabilità degli spazi e delle cose che caratterizzano una Roma aperta, visibile ma al tempo stesso assente e lontana, che solo di notte e per brevissimi momenti riesce a far recuperare una sensazione di vivibile calore. 

Il montaggio organizza luoghi e tempi in modo intelligente e mai banale, ricercando anche attraverso l'uso inusuale delle inquadrature una flessibilità dell'immagine che mette a dura prova lo sguardo di uno spettatore abituato a un cinema italiano semplice e basato sullo strapotere della trama. La scelta delle musiche e la caratterizzazione dei personaggi conferiscono all'insieme dei tratti a metà fra il kubrickiano e il lynchano che fanno esplodere quella sottile vena perturbante che percorre tutta la vicenda, in una continua forzatura dello schema cinematografico tradizionale, certamente non adatto a contenere la bellezza debordante e impetuosa di uno dei film italiani migliori degli ultimi dieci anni. Senza dubbio, uno dei film migliori (se non il migliore) che abbia visto quest'anno
VOTO: 10/10 

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