Stoker di Park Chan-wook - Genere: thriller - USA, Regno Unito, 2013
Park
Chan-wook ha sempre diretto film molto particolari, ma questa volta si è
superato, affidando la propria regia a un sincretismo inedito e riuscitissimo
fra tecniche e stilemi del suo cinema e di quello americano. Stoker è un titolo profondamente
occidentale sulla carta, che rivela però una attenzione per i dettagli, per la
citazione che non appartengono a questo regno linguistico ma risultano
piuttosto mutuati, appunto, dal cinema asiatico. Il pregio del film sta infatti
tutto nell’ostinato rifuggire da un’orchestrazione prettamente narrativa e
l’intelligenza del regista è stata proprio quella di creare delle aperture più
libere in uno schema altrimenti troppo soffocante.
La
trama di per sé piuttosto semplice e lineare viene infatti abilmente ma
sottilmente disarticolata in alcuni punti nevralgici dove, anche attraverso un
uso intelligente e non scontato del romanzo, l’illuminazione psicologica sui
personaggi risulta fortemente aumentata. Questo dimostra molto efficacemente
come la qualità tecnica ed estetica di un film non debba necessariamente andare
a discapito dell’empatia narrativa, anzi. Un uso intelligente degli elementi
della grammatica cinematografica consente di tradurre sensazioni, suggestioni e
spinte emotive della narrazione a livello materico, come suggeriva già in tempi
non sospetti Stan Brkahage.
Tutto
concorre, in Stoker, a creare un
microcosmo percettivo che sia il più possibile ansiogeno e asfittico, che
concorra al disvelamento dei misteri dell’omonima famiglia. La gestione del
ritmo narrativo è molto intelligente e l’articolazione della trama riesce a non
risultare mai scontata, cosa a cui concorrono anche una buona sceneggiatura
(straordinario che sia stata scritta da un’attore!) e una prova recitativa
molto gradevole da parte di tutti gli attori. In particolare Nicole Kidman,
sempre straordinaria, appare ancora una volta a sua agio nei panni di una donna
fatale, dallo statuto eticamente doppio, che alla fine si rivela quasi
inconsapevole e fragile vittima di macchinazioni altre.
Nel
complesso siamo di fronte a un titolo decisamente valido all’interno del
panorama aneddotico e ripetitivo delle sale di questi ultimi mesi (se si
eccettuano alcuni titoli rubati a Cannes); un film da cui molti registi soprattutto
americani avrebbero parecchio da imparare: un perfetto esempio di felice
ibridazione linguistica fra un solido impianto narrativo e un largo novero di
spazi di manovra aperti all’estetica visuale.
VOTO: 8.50/10
VOTO: 8.50/10
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